Procuratevi:
Una nottata di pioggia…
Un ampio “telo di nylon” ossimorico in termini…
Abbondanti goccioloni lasciati in ricordo….
Rade foglioline ingiallite…
Fantasia e mattitudine mattutina quanto basta…
Mettete il tutto a crogiolare lentamente nel paiolo dell’immaginazione…
Attendete alcuni minuti per la giusta cottura inventiva…
Sfornate infine:
Sfarzosi aggregati d’impreziosente trama metallifera fusa…
Colate d’amaranto caramellato…
Placche ecologiche di essenza mercuriale…
Oleosità idriche traslucide…
Le bolle mnemoniche per reggere l’impalcatura di ipotetici sogni…
L’anarchia conclamata di una banda di rivoltosi ex-cuscinetti a sfera…
I rimasugli rilucenti di una fresatura di idee…
Il set ideale per il vostro primo film di fantascienza da girare sul balcone di casa…
L‘ultima vignetta delle nutrie non è nata per caso. Ogni mini-avventura delle nostre amiche pellicciute prende di solito spunto da un episodio, un fatterello o una riflessione che mi capita di frequentare nel corso delle giornate.
Camminavo per le strade di città. Per andare dove dovevo andare, c’era da buttarsi a guado nella corrente motorizzata di un grosso stradone circonvallante. Meglio affidarsi all’omino verde semaforico, ho pensato con somma astuzia. Mentre attendo la smeraldina benevolenza cromatica, mi si affianca un tizio appiccicato al suo cellulare. O meglio, prima di lui, molto prima, mi ha raggiunto alle spalle la sua voce. Dopo un po’, è arrivato anche il tizio in persona. Sempre al telefono, sempre auto-narrante a tutto spiano.
Siccome parlava a voce sostenuta, e senza lesinare coloriti dettagli, già gli attimi di attesa del verde sono stati utili per una proficua introduzione nei “fattaxxi” biografici del tale. Il caso ha voluto poi che i nostri cammini proseguissero paralleli, per cui il racconto della sua vita ha seguitato a cullare il ritmo dei miei passi, per alcune altre centinaia di metri.
Situazioni del genere sono molto frequenti ormai: sui mezzi pubblici, in una sala d’attesa, al bar, e così via. In tanti casi, si tratta di zoticaggine pura da parte dello sbandieratore biografico selvaggio, senza dubbio. Ma a volte non è nemmeno questione di mancanza di pudore o di riservatezza, credo. La tentazione della comodità offerta dal telefono mobile può essere talmente forte, che quasi ci si dimentica di essere in mezzo ad altri. Quando ci si immerge nella voce dell’interlocutore, scatta quasi automatica una semi-illusione inconscia di essere protetti dall’ascolto altrui. In quegli istanti ci sono solo il parlante e l’udente, fusi in un loro micro-mondo verbale, per cui, nel limite della ragionevolezza (ma spesso e volentieri, si oltrepassa pure quelli), crollano anche i freni della naturale discrezione riguardo alle faccende personali.
Non si saprebbe dire se il fenomeno sia da annoverarsi fra i flagelli del nostro tempo, oppure fra gli aspetti positivi, o tutt’al più neutrali. Mi limito qui a prenderne atto come espressione della modernità. Di sicuro da esso scaturiscono situazioni molto curiose, e già questo potrebbe essere un fatto non da poco.
Ferme restando le capacità discorsive dell’intimo propalatore telefonico in cui ci s’imbatte, può capitare di vivere delle vere e proprie esperienze narrative di un certo rilievo. Le persone alle prese col dialogo riversato in ciò che per noi è soltanto un vuoto “al di là del filo” (o meglio, del campo magnetico), diventano allora delle specie di racconti viventi e ambulanti. E se ne possono sentire delle belle.
La voce narrante, a seconda di come si destreggia fra gli episodi sciorinati, fra le immagini che riesce a tratteggiare, e i contorni di altri personaggi chiamati in causa, ci spalanca dei veri e propri piccoli universi esistenziali paralleli. Ci si fa prima di tutto un’idea del “carattere tipo” del narratore stesso, e di riflesso diventa un mezzo divertimento immaginare tutta la fauna umana dalla quale lo si ipotizza circondato.
Così com’è stato ampiamente, anche nel caso del mio fedele pedinatore acustico post-semaforico. Dal modo in cui esponeva i fatti, mi si è profilato in poche battute come un prototipo umano in stile “precisini-manical-pignolo”, sul modello dei mariti iper-pedanti alla Carlo Verdone. Il carattere scaturito però non è mai puro, rispetto al modello che suggerisce. Sarebbe troppo noioso. Il bello è invece che il profilo caratterial-narrativo risulta sempre un po’ un misto di tante fonti, che possiamo poi rimodellare a piacimento seguendo la nostra immaginazione. Per fortuna, perché in questo modo le combinazioni possibili sono molto più alte, e poi anche perché in caso contrario, ossia di modello verdonesco puro, sarei stato tentato di agevolare il mio casale compagno di avventure narrative d’occasione, verso una salutare macchinata transitante.
Insomma, ce n’è abbastanza per scomodare la suggestione letteraria, lasciandola andare a pescare nel ricordo di un classico della letteratura di viaggio, “Le vie dei canti”. In questo suo meraviglioso libro, Bruce Chatwin racconta dell’ancestrale tradizione aborigena australiana, di “marchiare” verbalmente le località e i sentieri del proprio vissuto, con altrettanti racconti cantati, che si tramandavano per via orale, di generazione in generazione di cantori. A ogni luogo era associato un punto del canto, di modo che nell’immaginario di quel popolo si formava una mappa nello stesso tempo geografica e umana del proprio ambiente vissuto.
Coi “narranti cellulari” non sarà proprio la medesima cosa, ma curiosi meccanismi simili, anche se molto meno sacrali e rituali, si vanno formando ugualmente nello scenario mentale di chi li ascolta. Quel tratto di strada dal semaforo in avanti, ad esempio, per me sarà da adesso sempre abbinato ad un frammento di discorso carpito semi-involontariamente, dalla voce di un casuale narratore telefonico, simil-verdonico, ma simpatico e con punte divertenti. E così potrà capitare a chiunque, con mille altri posti, in mille altre circostanze.
Per concludere: si fa tanto parlare dell’insidia concorrenziale, potenzialmente esiziale, in teoria rappresentata dai libri elettronici, nei confronti di quelli tradizionali stampati su carta. Ma date retta a me: il vero pericolo per i vecchi cari libri viene dai raccontatori compulsivi telefonici, vere fonti alternative di materiale narrato ultra-moderno.
Le muse di Kika van per pensieri oggi sulla scia di un artista che potremmo definire, mutuando un po’ maldestramente una tipica espressione musicologica, “minore ma non troppo”. Per assecondare la propria ispirazione autunnal-modaiola, Kika ha infatti scelto un’opera realizzata nel 1873 da Filippo Carcano (Milano, 1840 – 1914), intitolata “Il poeta”.
Filippo Carcano è classificabile grosso modo nel novero dei cosiddetti pittori romantici della seconda metà dell’Ottocento, in particolare di quelli operanti nell’area milanese e lombarda, fra i quali spiccano in particolar modo i più noti Gaetano Previati (1852-1920), Giovanni Segantini (1858-1899), Victor Grubicy (185-1920), Giuseppe Pellizza da Volpedo (1867-1907).
Ogni volta che per la presente rubrichetta ho dovuto scrivere a riguardi di simili autori che non godono di una fama poi così eclatante, mi è sempre venuta spontanea una domanda. Come mai, a tali pittori, che pur sono in grado di suscitare emozione, stupore, vibrazione (e talvolta anche a livelli notevoli), vengono riservate di solito soltanto due righe scarse di menzione sui testi di storia dell’arte, e sono tenuti dai critici in così marginale considerazione?
Per rimanere giusto al nostro esempio di oggi, è innegabile che un quadro come “Il poeta” di Carcano “ci smuova dentro” qualcosa, ci “commuova”, nel senso di attirarci in un qualche tipo di coinvolgimento interiore più o meno profondo.
E allora, riprendendo e riformulando in altri termini il quesito sopra menzionato, ci accorgiamo che esso contiene un altrettanto basilare interrogativo: i criteri di giudizio e di bellezza sono dettati dai critici, oppure fanno parte del diritto di ciascuno di esprimersi in autonomia secondo il proprio individuale sentire?
Ovviamente la risposta a questi dubbi non sarebbe né semplice, né breve da esporre. Un tentativo di spiegazione parziale, tuttavia, lo possiamo tentare con l’aiuto di quanto affermato da Giulio Carlo Argan, proprio a proposito del gruppo dei romantici lombardi. Il limite che Argan ravvisa nelle opere di questi autori (rispetto ai modelli maggiori francesi dell’epoca), sta nel fatto di essersi essi fermati all’adesione espressiva dettata più da una sorta di “entusiasmo tecnico”, che non da una vera e propria assimilazione e rielaborazione personale, ai fini della ricerca creativa. Il Divisionismo di Seurat e Signac, finisce per diventare, nei tratti dei romantici lombardi, poco più di un espediente retorico, dotato di alto potenziale emotivo, questo sì, ma in grado di sfiorare soltanto, senza mai coglierla in pieno, l’essenza del significare.
Il ragionamento si fa particolarmente calzante nel caso di Carcano. Osservando anche altre sue opere, notiamo infatti una caratteristica che potrebbe far scattare la similitudine con l’arte oratoria. I suoi quadri ci espongono un discorso convincente, ma dopo averlo ascoltato, ci rendiamo conto che poco è mutato nella nostra consapevolezza interna riguardo al senso dell’esistenza e delle cose del mondo. Tra il “contenuto” di un quadro di Carcano (o di altri “minori” di pari grado), e quello dei “grandi” della storia dell’arte, passa lo stesso differenziale di valore che passa tra il concetto di “comunicazione” e quello di “trasmissione della cultura”.
L'ora del riposo durante i lavori dell'Esposizione del 1881 - Filippo Carcano (1887)
Dico questo, con tutto che adoro Segantini e da oggi anche Carcano (non lo conoscevo infatti…) e i romantici lombardi in generale. Al che viene da dire: pensa un po’ se ti avessero fatto schifo! Ma anche ciò fa parte delle complesse, multiformi e variegate questioni dell’arte.
L’indagine fisiognomica odierna si presenta con una variante. Siccome nel quadro sono ritratti due volti, ma il più definito in termini espressivi è quello del soggetto maschile, mi sono concentrato su questo. Sono riuscito a scovare tre somiglianze e mezzo. Dico così perché la quarta scaturisce da un classico abbinamento fisiognomico che scatta ormai quasi in automatico, quando si tratta di questi personaggi (capirete meglio fra poco…).
Molto avventurosa è stata la ricerca della prima similitudine. Il volto del gentiluomo di Carpano mi ricordava con insistenza quello di un attore caratterista abbastanza familiare. Il problema, con gli attori caratteristi appunto, è che si ricorda spesso giusto il loro viso, ma raramente si riesce ad associarlo al nome. Ho dovuto allora fare uno sforzo sovra-gillipixiano, per ricordare uno sceneggiato televisivo di qualche anno fa, in cui recitava un altro attore un po’ più noto, Blas Roca Rey, accanto al quale mi pareva di ricordare comparisse spesso l’interprete che stavo ricercando.
Insomma, per farla breve, seguendo questa pista, e setacciando diversi volti di artisti presenti in quel telefilm italiano (per la cronaca si trattava di “E’ proibito ballare”, diretto nel 1989 da Pupi Avati) sono arrivato al volto che m’interessava. E ve lo presento:
Si tratta di Vincenzo Crocitti, valente attore (purtroppo scomparso pochi anni fa), perlopiù prestato al genere della commedia nel cinema e nel teatro, ma che si è distinto in esordio di carriera per un ruolo drammatico nel film di Alberto Sordi “Un borghese piccolo piccolo” (1977), che gli valse il David di Donatello e il Nastro d’argento come miglior attore esordiente.
Sempre dal mondo del cinema, ho pescato la seconda somiglianza, forse un po’ più vaga:
Lo avrete senz’altro riconosciuto, si tratta dell’ineffabile Mister Bean, ossia l’attore inglese Rowan Atkinson.
Ancora di comicità parliamo per il terzo volto (che mi pare di aver già scomodato in occasione di altre similitudini fisiognomiche):
Anche qui non servono tante presentazioni, per l’impareggiabile Pierino nazionale, Alvaro Vitali, interprete di tanti B-movie pecorecci e scanzonati.
Chiudo con l’automatismo fisiognomico di cui vi parlavo:
Abbiamo qui infatti Jean Todt, volto molto familiare agli appassionati di formula uno, per aver vestito a lungo il ruolo di direttore della scuderia Ferrari, nonché, stando a una certa qual irriverente associazione, sosia transalpino di Alvaro Vitali.
E con questo concludo anche la presente puntata della nostra rubrichetta, talvolta un po’ caotica e fracassona, ma di certo sempre culturalmente vivace e stimolante (almeno così a me pare…). L’appuntamento adesso è sul blog di Kika, per scoprire tutti i risvolti modaioli e autunnali escogitati a riguardo del quadro di Filippo Carcano.
Per chi ama la fotografia, ma al tempo stesso si ritrova funestato da un’incomparabile tendenza alla pigrizia poltronistica più virulenta (e non si allontanerebbe da casa nemmeno a suon di bordate di crema sparate da cannoncini ripieni), oggi è disponibile una pratica soluzione con poco sforzo e discreto appagamento.
Si tratta di un metodo innovativo, brevettato da una ditta specializzata in neo-stanzialità postmoderna: la “Nutrifolino Enterprise Corporated Limited Stimulated by Emission of Radiation”. Gli esperti della “Nut.en.co.li.sti.emi.ra” consigliano di non preoccuparsi più di tanto, riguardo alla propria smania fotografica repressa. La nuova parola d’ordine del fotografo neghittoso suona infatti nel seguente modo: “…Se l’obiettivo non va al soggetto, l’oggetto incapperà nell’obiettivo…”.
Tutto quello che serve fare, è rimanere in casa a farsi i fattacci suoi. E aspettare che il sole, o chi per esso, faccia girare i dadi della luminosità in modo da far emergere qualche mini-paesaggio domestico degno di nota. Le foto verranno di conseguenza…
Viviamo attraversati dal sogno, il quale altro non è che una continua sublimazione di ricordi, un distillato d’esperienza.
Solo la distrazione delle frenesie quotidiane, dell’affaccendarsi minuto, ci fa dimenticare questo nostro perenne stato. Ma basta sospendersi un momento, tirare il freno a mano del tempo, e subito si viene riassorbiti dalla sensazione innegabile di stare fluitando sulla cresta di un sottofondo magmatico e viscoso, mai definibile, né perimetrabile o contornabile nel suo intimo da un conclusivo sguardo lucido.
Come sotto la sferza di lampeggianti sciabolate, l’attenzione è squarciata da trasparenti immagini di un muro nel verde, lungo il quale passeggiammo diverse ere dell’anima addietro. Irrompe prepotente l’ignota familiarità di attimi conviviali spesi nella completezza eterna dello spirito, a mollo chissà quando poi, e in chissà quale, inconscio remoto. Assaporiamo caleidoscopi di assenze, sulla cui definitiva presenza siamo sicuri di poter sempre contare. Attraversiamo architetture fantastiche, che ci accolsero nella loro certezza di un tempo. Visitiamo sottoscala della memoria. Rovistiamo in sgabuzzini di realtà più vere dei rispettivi originali. Ci si aprono innanzi saloni luminosi dai quali non ci siamo mai mossi, a tratti solo scordandoci semplicemente di esserci perennemente immersi.
Dall’esattezza caotica di questi sentieri interiori, usciamo macinati, come dal regalo di una schiacciasassi gommosa, col suo marchio addosso, di spavento, esaltazione, elettricità emotiva, cupezza, ilarità, svolazzante irresponsabilità esistenziale.
Ecco perché di tutto ciò, possiamo sopportare solo piccole dosi giornaliere. E per il resto del tempo, rimaner vigili, “misurabili e misuranti”, è questione dettata da un puro istinto di sopravvivenza.
Dopo un periodo di sospensione, ritorna “Le muse di Kika van per pensieri”, classica rubrichetta per grandi e piccini, di arte, moda e invenzioni fisiognomiche assortite. Per questa ripartenza, Kika ha scelto un quadro del pittore tedesco Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffemburg, 1880-Davos, 1938), intitolato “Scena di strada”. Dunque, abbiamo visto finora tanto “Impre”-ssionismo, per una volta parliamo invece di “Espre”-ssionismo.
Il discorso sull’Espressionismo sarebbe lungo e molto complesso. Come sempre, proverò a dire due cose veloci, premurandomi, se possibile, di non scrivere troppe boiate, ma soprattutto avvalendomi del supporto di fonti autorevoli.
Impressionismo ed Espressionismo non sono due tendenze artistiche “contrapposte”, come magari si sarebbe portati a pensare. Essi sono bensì due movimenti di ricerca formale e conoscitiva “complementari”. In parole povere, sono come le due facce di una stessa medaglia, e questa medaglia si chiama “realtà”.
Al proposito, chiamo in aiuto il mio classico nume tutelare dell’arte, Giulio Carlo Argan, che in poche parole sa sempre dire quanto personalmente non riuscirei a spiegare nemmeno in dieci libri:
«…Letteralmente, “espressione” è il contrario di “impressione”. L’impressione è un moto dall’esterno all’interno: è la realtà (oggetto) che s’imprime nella coscienza. L’espressione è un moto inverso, dall’interno all’esterno: è il soggetto che imprime di sé l’oggetto. E’ la posizione, antitetica a quella di Cézanne, assunta da van Gogh. Nei confronti della realtà, l’Impressionismo manifesta un atteggiamento “sensitivo”, l’Espressionismo un atteggiamento “volitivo”, talvolta anche aggressivo…[…]…L’Espressionismo si pone come antitesi dell’Impressionismo, ma lo presuppone: l’uno e l’altro sono movimenti realisti, che esigono l’impegno totale dell’artista nel problema della realtà, anche se il primo lo risolve sul piano della conoscenza ed il secondo sul piano dell’azione…».
Un altro grande “meccanismo” comune ai due movimenti (e che sta a fondamento di tutta la rivoluzione dell’arte moderna) lo possiamo ritrovare nello scardinamento della prospettiva. La prospettiva forniva un punto di vista del mondo solo in apparenza realistico, ma a tutti gli effetti, fortemente idealizzato. Col suo rigoroso inquadramento del “visibile” in un impianto teorico matematico-geometrico, la prospettiva è quanto di più lontano da un confronto sensibile con il reale si possa concepire (e tra l’altro, intorno a questo fatto si giocano numerosi equivoci interpretativi, riguardo alla presunta incomprensibilità dell’arte moderna, contrapposta ad un altrettanto supposta immediatezza di quella classica-antica).
Tutti questi elementi si possono leggere nel quadro di Kirchner, oggetto della nostra odierna puntata. La realtà ritratta dall’artista tedesco non è solo semplice risultato di una presa di coscienza del dato visivo e del momento vissuto. Come spiega ancora Argan, il dato creativo fondamentale «…per gli artisti della “Brücke” [il gruppo degli Espressionisti tedeschi col quale Kirchner operò] è un romanticismo profondo come condizione intensa, esistenziale dell’essere umano: l’ansia di possedere la realtà, l’angoscia di essere travolti e posseduti dalla realtà che si affronta…[…]…al realismo che “imita” si contrappone un realismo che “crea” la realtà. Per essere creazione del reale l’arte deve prescindere da tutto ciò che preesiste all’atto dell’artista: bisogna ricominciare dal nulla…[…]…l’immagine non è, si fa…».
Consapevole di aver dato solamente una leggera spolverata all’argomento Espressionismo, passo ora alla ricerca di volti noti da abbinare al soggetto femminile del dipinto di Kirchner. Stavolta siamo di fronte a un caso molto particolare. Un po’ per la forte deformazione, un po’ per la scarsa risoluzione della foto trovata, sarei solo il più gran trombone millantatore fra i detective fisiognomici, se pretendessi di spacciarvi per somiglianze, gli accostamenti che vi andrò a proporre. Diciamo che sono vaghissime suggestioni somatiche, ispirate più che altro dal clima di un’epoca.
La prima è la classica fra le classiche delle dive del cinema:
Cosa ve lo dico a fare? Siamo di fronte niente meno che a Greta Garbo…
L’altro viso è altrettanto glorioso, anche se magari meno noto:
Si tratta stavolta di Brigitte Helm, che prestò il suo magneticissimo sguardo al capolavoro del cinema (manco a dirlo) espressionista, Metropolis (1927) di Fritz Lang.
E anche per stavolta non mi resta che darvi appuntamento alla prossima puntata e salutarvi. Non prima però di avervi ricordato di fare un salto sul blog di Kika, per vedere come la nostra maghetta modaiola preferita ha riabbigliato con la sua usuale sapienza, la fatalona di Kirchner.
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
Come si traduce broligarchy?
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