Alcune puntate fa, vi parlai di come si fosse reso necessario il taglio del caro pioppo, da anni fedelmente posizionato di fronte a casa. Pur essendo ancora vigoroso, con la sua mole imperiosa rappresentava ormai un pericolo eccessivo, incombendo in modo particolare, nella sua potenza fronzuta, esattamente sopra il tetto della casa del vicino. Ad ogni vento un po’ più forte del consueto, c’era da passare brutti minuti d’apprensione. Ecco perché, seppur a malincuore, l’intervento della perfida motosega non si è potuto differire oltre.
La vicenda ha avuto tuttavia un tenero strascico proprio in questi giorni. Me ne stavo in giardino a “rastrellazzare” erba e foglie (operazione che concilia sempre il vagabondaggio per pensieri in maniera veramente eccelsa), quando mi cade l’occhio sul grosso ceppo, ultima testimonianza rimasta a terra della presenza del vecchio pioppo.
Per inciso, bisogna dire che il “boscaiolo” incaricato dell’opera ha fatto un lavoro pregevole. Se una piccola consolazione può esserci nell’aver visto portare via un caro amico arboreo come il vecchio pioppo, forse sta proprio nel fatto che a “dare il la” al commiato sia stato un tizio veramente bravo nel suo mestiere. Quasi un Mozart della motosega, credetemi, era uno spettacolo osservarlo sfrondare e sminuzzare rami e porzioni di tronco. Tanto che, al termine dell’opera, ha lasciato un ceppo quasi perfetto, una piccola piattaforma lignea praticamente allineata al suolo.
Ed è stato esattamente lì, che giusto ieri il mio stupore si è posato. Nell’angusta fessura che demarca lo scuro spessore della corteccia dal territorio più interno della bianchiccia polpa legnosa del fusto, uno stuolo di piccoli e nuovissimi “pioppini” hanno buttato fuori lo loro mini-chioma ribelle e smeraldina. Per un campagnolo scafato, si tratterà di un fenomeno più che preventivabile. Per un campagnolo sgangherato ed ingenuo come me, si è trattato invece di una sorta di “epifania tascabile”, scaturita direttamente dalle arcane potenze del vitalismo floro-naturalisitico. Come un segno mandato dalla “Bellezza” e un’esortazione alla fiducia che credo meriti di continuare ad essere riposta in essa.
Il piccolo episodio, mentre m’insufflava direttamente nell’animo un flautato moto di letizia, mi ha fatto dispiegare le ali del ricordo, riportandomi alla lontana visione di un vecchio film degli anni ’50, «L’albero della vita» di Edward Dmytryk, con Liz Taylor e Montgomery Clift. Lo so, il collegamento è piuttosto flebile ed ai più potrà apparire inconsistente, ma anche nelle vicende di quella pellicola, così come nel caso dei miei cuccioli di pioppo, si parlava del mistero del vivere metaforizzato attraverso l’elemento vegetale.
Non era nemmeno un film eccezionale, a ben vedere e ad osservarlo con una lente critica un po’ esigente. Concedeva troppo alla melensaggine ed alla retorica. Ma mi è sempre stato molto caro, proprio come succede con certe persone delle quali si conoscono bene i difetti, e tuttavia proprio a partire da quelle magagne si riesce a trovare un motivo speciale per voler loro ancor più bene.
E’ un film che risente fortemente delle atmosfere anni ’50, o almeno così a me pare. I sentori di disagio giovanile che si iniziavano ad intravedere in quel decennio, sono calati pressoché integri, con le loro contorsioni e tutte le problematiche relazionali, nel bel mezzo di un improbabile fine ‘800 rivisitato. Non manca niente. C’è la figura del giovane tormentato dalla sete di sapienza e d’amore, Monty Clift. C’è la donna fatale e “selenitica” (dire lunatica mi sembrava un po’ troppo crudo), Liz Taylor, simbolo dell’eterna irraggiungibilità del mistero femminile. C’è la ragazza della porta accanto, Eve Marie Saint, l’altra metà mansueta e materna dell’universo muliebre. E c’è il professore coltissimo e farfallonissimo, Nigel Patrick, oratore dall’irresistibile ipnotismo dialettico ed impollinatore impenitente di fanciulle opportunamente ipnotizzate.
Le vicende comuni di ciascuno ruotano intorno alla mitica immagine di un albero dai rami dorati, che la leggenda vuole nascosto in qualche favoloso angolo delle sconfinate paludi del circondario (la scena si svolge nella lussureggiante cornice della Lousiana). In questo albero, sempre secondo le ataviche convinzioni, si celerebbe il segreto dell’esistenza.
Ecco, ve lo dicevo, l’associazione è piuttosto blanda, ma anche a me i miei pioppini, per il modo in cui si sono presentati, sono sembrati una piccola e rinnovata versione dell’albero della vita in salsa gillipixiana.
Un altro motivo per cui mi sono affezionato a quel film, è la presenza di Montgomery Clift fra i protagonisti. Il travagliato divo americano, insieme a James Dean o Marlon Brando, è stato in qualche modo uno dei miei idoli adolescenziali. Da buon passatista, i miei modelli di celluloide me li andavo a pescare spesso e volentieri anche nei decenni indietro. Al di là del suo magnetismo estetico, del vecchio Monty mi colpì una volta una frase detta dalla collega Marylin Monroe. Stando alla sua opinione, fra quelle conosciute dall’attrice, Monty Clift era l’unica persona ad essere più triste di lei. Al che io, da buon sbarbatello ben bene crogiolato nel pieno delle mie caotiche burrasche esistenziali dell’età della maturazione, non potevo che considerare fra me e me: «…Minchia, Marilina…pensa allora un po’ te che io mi sento più triste di voi due messi assieme!...».
E non sarà un caso che insieme alla comparsa dei pioppini e al ricordo di quel vecchio film, in questi giorni mi è capitato anche di imbattermi in un illuminante passo, sempre nel corso della lettura dello stupendo «Casa Howard» (1910), di Edward Morgan Forster, già citato un paio di articoletti fa:
«…Guardando indietro ai sei mesi passati, Margaret comprendeva la natura caotica della nostra vita quotidiana e la sua diversità dall’ordinata sequenza fabbricata dagli storici. La vita reale è piena di falsi indizi e cartelli indicatori che non conducono da nessuna parte. Con infinito sforzo prepariamo il nostro animo a una crisi che non arriva mai. La carriera meglio riuscita deve mostrare uno spreco di forza che avrebbe potuto smuovere le montagne e la meno riuscita non è la carriera dell’uomo che è stato colto impreparato, ma di quello che si è preparato ma non è stato colto. Su una tragedia di questo genere, la morale del nostro paese mantiene il debito silenzio. Essa presuppone che la preparazione contro il pericolo sia in se stessa un bene e che gli uomini, come le nazioni, siano al meglio di se stessi quando brancolano nella vita armati fino ai denti. La tragedia dell’essere preparati è stata scarsamente trattata, salvo dai greci. La vita è davvero pericolosa, ma non nel modo in cui ci vorrebbe far credere la morale. E’ davvero ingovernabile, ma la sua essenza non è una battaglia. E’ ingovernabile perché romanzesca, e la sua essenza è la bellezza romanzesca…».
Ecco, a distanza di anni da quei tristi momenti adolescenziali, ci sarebbero voluti alcuni pioppini della vita, il ricordo di un vecchio film e la lettura di questo libro, per capire come a questo punto la mia tristezza, in qualche modo sempre presente in sottofondo, sia tuttavia mutata in senso qualitativo, grazie alla consapevolezza che ai tempi della sua massima virulenza quantitativa (durante l’adolescenza, appunto…) essa non fu altro che un infinito e probabilmente inutile sforzo di preparazione ad una crisi che non sarebbe arrivata mai.
La vicenda ha avuto tuttavia un tenero strascico proprio in questi giorni. Me ne stavo in giardino a “rastrellazzare” erba e foglie (operazione che concilia sempre il vagabondaggio per pensieri in maniera veramente eccelsa), quando mi cade l’occhio sul grosso ceppo, ultima testimonianza rimasta a terra della presenza del vecchio pioppo.
Per inciso, bisogna dire che il “boscaiolo” incaricato dell’opera ha fatto un lavoro pregevole. Se una piccola consolazione può esserci nell’aver visto portare via un caro amico arboreo come il vecchio pioppo, forse sta proprio nel fatto che a “dare il la” al commiato sia stato un tizio veramente bravo nel suo mestiere. Quasi un Mozart della motosega, credetemi, era uno spettacolo osservarlo sfrondare e sminuzzare rami e porzioni di tronco. Tanto che, al termine dell’opera, ha lasciato un ceppo quasi perfetto, una piccola piattaforma lignea praticamente allineata al suolo.
Ed è stato esattamente lì, che giusto ieri il mio stupore si è posato. Nell’angusta fessura che demarca lo scuro spessore della corteccia dal territorio più interno della bianchiccia polpa legnosa del fusto, uno stuolo di piccoli e nuovissimi “pioppini” hanno buttato fuori lo loro mini-chioma ribelle e smeraldina. Per un campagnolo scafato, si tratterà di un fenomeno più che preventivabile. Per un campagnolo sgangherato ed ingenuo come me, si è trattato invece di una sorta di “epifania tascabile”, scaturita direttamente dalle arcane potenze del vitalismo floro-naturalisitico. Come un segno mandato dalla “Bellezza” e un’esortazione alla fiducia che credo meriti di continuare ad essere riposta in essa.
Il piccolo episodio, mentre m’insufflava direttamente nell’animo un flautato moto di letizia, mi ha fatto dispiegare le ali del ricordo, riportandomi alla lontana visione di un vecchio film degli anni ’50, «L’albero della vita» di Edward Dmytryk, con Liz Taylor e Montgomery Clift. Lo so, il collegamento è piuttosto flebile ed ai più potrà apparire inconsistente, ma anche nelle vicende di quella pellicola, così come nel caso dei miei cuccioli di pioppo, si parlava del mistero del vivere metaforizzato attraverso l’elemento vegetale.
Non era nemmeno un film eccezionale, a ben vedere e ad osservarlo con una lente critica un po’ esigente. Concedeva troppo alla melensaggine ed alla retorica. Ma mi è sempre stato molto caro, proprio come succede con certe persone delle quali si conoscono bene i difetti, e tuttavia proprio a partire da quelle magagne si riesce a trovare un motivo speciale per voler loro ancor più bene.
E’ un film che risente fortemente delle atmosfere anni ’50, o almeno così a me pare. I sentori di disagio giovanile che si iniziavano ad intravedere in quel decennio, sono calati pressoché integri, con le loro contorsioni e tutte le problematiche relazionali, nel bel mezzo di un improbabile fine ‘800 rivisitato. Non manca niente. C’è la figura del giovane tormentato dalla sete di sapienza e d’amore, Monty Clift. C’è la donna fatale e “selenitica” (dire lunatica mi sembrava un po’ troppo crudo), Liz Taylor, simbolo dell’eterna irraggiungibilità del mistero femminile. C’è la ragazza della porta accanto, Eve Marie Saint, l’altra metà mansueta e materna dell’universo muliebre. E c’è il professore coltissimo e farfallonissimo, Nigel Patrick, oratore dall’irresistibile ipnotismo dialettico ed impollinatore impenitente di fanciulle opportunamente ipnotizzate.
Le vicende comuni di ciascuno ruotano intorno alla mitica immagine di un albero dai rami dorati, che la leggenda vuole nascosto in qualche favoloso angolo delle sconfinate paludi del circondario (la scena si svolge nella lussureggiante cornice della Lousiana). In questo albero, sempre secondo le ataviche convinzioni, si celerebbe il segreto dell’esistenza.
Ecco, ve lo dicevo, l’associazione è piuttosto blanda, ma anche a me i miei pioppini, per il modo in cui si sono presentati, sono sembrati una piccola e rinnovata versione dell’albero della vita in salsa gillipixiana.
Un altro motivo per cui mi sono affezionato a quel film, è la presenza di Montgomery Clift fra i protagonisti. Il travagliato divo americano, insieme a James Dean o Marlon Brando, è stato in qualche modo uno dei miei idoli adolescenziali. Da buon passatista, i miei modelli di celluloide me li andavo a pescare spesso e volentieri anche nei decenni indietro. Al di là del suo magnetismo estetico, del vecchio Monty mi colpì una volta una frase detta dalla collega Marylin Monroe. Stando alla sua opinione, fra quelle conosciute dall’attrice, Monty Clift era l’unica persona ad essere più triste di lei. Al che io, da buon sbarbatello ben bene crogiolato nel pieno delle mie caotiche burrasche esistenziali dell’età della maturazione, non potevo che considerare fra me e me: «…Minchia, Marilina…pensa allora un po’ te che io mi sento più triste di voi due messi assieme!...».
E non sarà un caso che insieme alla comparsa dei pioppini e al ricordo di quel vecchio film, in questi giorni mi è capitato anche di imbattermi in un illuminante passo, sempre nel corso della lettura dello stupendo «Casa Howard» (1910), di Edward Morgan Forster, già citato un paio di articoletti fa:
«…Guardando indietro ai sei mesi passati, Margaret comprendeva la natura caotica della nostra vita quotidiana e la sua diversità dall’ordinata sequenza fabbricata dagli storici. La vita reale è piena di falsi indizi e cartelli indicatori che non conducono da nessuna parte. Con infinito sforzo prepariamo il nostro animo a una crisi che non arriva mai. La carriera meglio riuscita deve mostrare uno spreco di forza che avrebbe potuto smuovere le montagne e la meno riuscita non è la carriera dell’uomo che è stato colto impreparato, ma di quello che si è preparato ma non è stato colto. Su una tragedia di questo genere, la morale del nostro paese mantiene il debito silenzio. Essa presuppone che la preparazione contro il pericolo sia in se stessa un bene e che gli uomini, come le nazioni, siano al meglio di se stessi quando brancolano nella vita armati fino ai denti. La tragedia dell’essere preparati è stata scarsamente trattata, salvo dai greci. La vita è davvero pericolosa, ma non nel modo in cui ci vorrebbe far credere la morale. E’ davvero ingovernabile, ma la sua essenza non è una battaglia. E’ ingovernabile perché romanzesca, e la sua essenza è la bellezza romanzesca…».
Ecco, a distanza di anni da quei tristi momenti adolescenziali, ci sarebbero voluti alcuni pioppini della vita, il ricordo di un vecchio film e la lettura di questo libro, per capire come a questo punto la mia tristezza, in qualche modo sempre presente in sottofondo, sia tuttavia mutata in senso qualitativo, grazie alla consapevolezza che ai tempi della sua massima virulenza quantitativa (durante l’adolescenza, appunto…) essa non fu altro che un infinito e probabilmente inutile sforzo di preparazione ad una crisi che non sarebbe arrivata mai.