La scorsa notte, su questo blog, è andata in onda una rappresentazione insolita. Chi si fosse collegato fra le 3 e le 3.05, avrebbe potuto visionare una serie di immagini che mi ritraevano completamente privo di vestiti. Non esattamente quello che si dice un bello spettacolo, converrete all’unisono. D’altra parte, le finalità estetiche dell’esperimento non andavano intese nell'ottica tradizionale della ricerca di un senso di bellezza che scaturisse dalle forme rappresentate. Il quid artistico, se pure uno ce n’è stato, si celava invece nei significati potenziali e suggeriti attraverso l’anomala pubblicazione.
Tecnicamente, le cose si sono svolte come ora vi spiego. Ho dapprima predisposto la bozza della pubblicazione, contenente esclusivamente immagini, senza nessun testo di commento. Anche il titolo, in fatto di parole, si presentava in forma estremamente laconica: Dada. Le foto inserite mi riprendevano secondo diversi tagli d’inquadratura. Ce n’erano alcune a figura intera, frontale, di profilo, posteriore (il viso era in ogni caso sempre non riconoscibile). E poi diverse che focalizzavano in primissimo piano il dettaglio anatomico che strettamente determina la mia appartenenza al genere maschile della razza umana.
Nei momenti immediatamente precedenti la pubblicazione, il dettaglio è stato fotografato svariate volte, anch’esso da diversi punti di vista e cogliendo di volta in volta lo sviluppo formale e le mutevolezze dimensionali dettate dalle sensazioni creative del momento. Anche sotto questo aspetto, all’operazione non è mancato dunque niente di ciò che ci si attende durante il compimento di un atto creativo, con tanto di adesione all’ispirazione del momento, gradualmente conciliata con il disegno d’intenti generale fissato inizialmente come copione preventivo da seguire nel corso dell’esecuzione.
Fra i numerosi scatti realizzati, sono state scelte alcune delle immagini risultate più significative e in grado di meglio esprimere una compresenza di pieni e di vuoti formali equilibrata, un’armonia di componenti visive più definita possibile.
Una volta inserite tutte le immagini opportune e dopo aver attivato il filtro di avviso per i contenuti “sensibili”, ho atteso l’orario che avevo prefissato per la performance, le 3 di stanotte appunto, e una volta scoccate le 2.59 e 59 secondi, ho dato l’innesco alla pubblicazione. Ho lasciato online le immagini per un quarto d’ora preciso, e alle ore 3 e 5 minuti precisi ho sentenziato la fine della loro visibilità universale.
Me ne sono andato a letto ed ho quindi atteso il momento di iniziare a farvi il presente resoconto di tutto l’esperimento, essendo, esso stesso resoconto, parte integrante ed imprescindibile dell’operazione estetica messa in atto.
Nel corso della mia esposizione di come si sono svolti i fatti, ho poi atteso questo preciso passaggio del discorso per venirvi a chiarire che, naturalmente, di tutte le cose descritte sopra, nessuna è mai accaduta.
Potevano anche essere accadute, quelle pratiche auto-denudanti sul palcoscenico mondiale, ma non importa ormai più di tanto. Nessuno lo potrà mai più verificare e, molto presumibilmente, nessuno lo ha verificato, vista l’ora impervia e la fulmineità della presunta pubblicazione. Ciò che importa adesso è che quanto scritto sopra ha a questo punto modificato la propria natura narrativa, passando dalle forme della descrizione realistica a quelle della finzione pura.
Inoltre, quanto scriverò di seguito muterà a sua volta essenza espositiva, assumendo le sembianze del mini-saggio di critica d’arte. L’ingannevole sospensione di credulità annidata nel presunto realismo di quanto vi sono andato inizialmente riportando, era peraltro funzionale al ragionamento critico che mi piacerebbe sviscerare adesso.
La mia cosiddetta “operazione estetica”, sia che i fatti abbiano avuto luogo effettivamente, sia che vadano essi relegati nel puro ambito dell’invenzione ad hoc, ricalca in un certo senso le intenzionalità creative messe in atto negli anni ’60 da Piero Manzoni con la sua famosissima «Merde d’artiste». Cosa c’era effettivamente dentro quelle scatolette dall’etichetta promettente cotanto trasgressivo contenuto? Credo che nessuno lo abbia mai appurato, perché in fondo, come nel caso delle mie immagini, non aveva nessuna importanza appurarlo.
Lo scarto decisivo di significati risiedeva invece nel corto circuito concettuale ormai innescato. La dissacrazione, il raffinato sberleffo, l’ironia più subdola, lo spaesamento emotivo, il ribaltamento totale del senso dei valori: era l’insieme di questi “sentimenti” e “reazioni”, tutti portati all’estremo limite di tensione del fastidio sopportabile, a costituire l’artistico “valore aggiunto” della “creazione” di Manzoni. Non ultima, la beffa estrema di aver raggiunto l’intento di esprimere simili funambolismi concettuali, facendo leva su riferimenti alla componente più grezzamente fisica di pertinenza della sfera umana.
La mia presunta performance di stanotte (…è avvenuta veramente? Non è avvenuta? Chi lo sa…) si incanala allora entro una tradizione creativa di questo tipo, da far risalire a sua volta al primigenio atto “Dada” di Marcel Duchamp.
La pubblicazione delle mie immagini si sarebbe ovviamente soltanto nutrita dello spirito “Dada”, riuscendo ad addentare alcuni esiti di significato marginali, sminuita ormai dall’irreparabile mancanza di originalità del gesto. Questa infatti è svanita per sempre nel nulla dell'indisponibilità definitiva, nell’attimo stesso in cui Duchamp o Manzoni davano forma ad una determinazione concreta dei loro decisivi “atti concettuali”. Il “Dada” brucia per sempre le sue stesse idee, nel momento in cui vengono formulate e tradotte in pratica nella realtà. Il che lo dota di un antidoto assai efficace per difendersi dalla classica critica opposta dal senso comune: «...Un’opera del genere la sapevo fare anch'io!...». Certo, la sapevi fare anche tu: peccato che ci abbia pensato prima un altro.
Alle mie immagini senza veli sarebbe forse stato concesso un margine di significatività, nel fatto di riuscire a creare uno scarto rispetto alla banalizzazione raggiunta ormai dal corpo esposto. Internet, da questo punto di vista è un carnaio immane. In questo mare magnum dell'impudicizia, che differenza avrebbero fatto quattro o cinque immagini di particolari fisici in più? Nessuna differenza, credo. Se non quella dettata dallo stratagemma del mascheramento temporale adottato. L'ora improponibile e il brevissimo lasso di minuti concessi all'esposizione, avrebbero funzionato allora da risarcitori di preziosità riassegnata all'intimità fisica. L'annuncio della performance se non a cose ormai successe, avrebbe completato l'opera.
Di vedermi in quella versione, sarebbe poi interessato a pochissimi. A nessuno direi. Se non magari per una curiosità dettata dal mio essere divenuto nel tempo, nella considerazione di alcuni lettori, una specie di identità letteraria non meglio definita. Questo forse avrebbe fatto scattare un minimo di attrattiva, per il gusto di aggiungere nuovi ingredienti identitari a questo enigmatico essere fatto di pure parole. Puro corpo sommato a pure parole: questo avrebbe potuto essere un altro ingrediente dell'operazione dall'intenso sapore “Dada”.
L'insieme delle cose scritte oggi può dunque essere recepito secondo diversi gradi di lettura: come provocatorio resoconto puro nella prima parte e come saggio critico nella seconda, la quale intervenendo muta anche nel contempo il precedente resoconto in racconto di finzione; come racconto in tutto e per tutto, in ogni sua parte; oppure come resoconto che diventa parzialmente racconto, seguitando però ad insinuare il dubbio del proprio realismo dissimulato.
Oppure ancora come una massa di fregnacce senza importanza alcuna.
Perché “Dada”, oltre a bruciare le proprie idee nell’attimo stesso in cui le pensa, contiene già di per sé, al proprio interno, il germe dell'autoironia ad oltranza, con un occhio particolare riservato alla salvaguardia continua del mistero insito in ogni sua creazione.
Tecnicamente, le cose si sono svolte come ora vi spiego. Ho dapprima predisposto la bozza della pubblicazione, contenente esclusivamente immagini, senza nessun testo di commento. Anche il titolo, in fatto di parole, si presentava in forma estremamente laconica: Dada. Le foto inserite mi riprendevano secondo diversi tagli d’inquadratura. Ce n’erano alcune a figura intera, frontale, di profilo, posteriore (il viso era in ogni caso sempre non riconoscibile). E poi diverse che focalizzavano in primissimo piano il dettaglio anatomico che strettamente determina la mia appartenenza al genere maschile della razza umana.
Nei momenti immediatamente precedenti la pubblicazione, il dettaglio è stato fotografato svariate volte, anch’esso da diversi punti di vista e cogliendo di volta in volta lo sviluppo formale e le mutevolezze dimensionali dettate dalle sensazioni creative del momento. Anche sotto questo aspetto, all’operazione non è mancato dunque niente di ciò che ci si attende durante il compimento di un atto creativo, con tanto di adesione all’ispirazione del momento, gradualmente conciliata con il disegno d’intenti generale fissato inizialmente come copione preventivo da seguire nel corso dell’esecuzione.
Fra i numerosi scatti realizzati, sono state scelte alcune delle immagini risultate più significative e in grado di meglio esprimere una compresenza di pieni e di vuoti formali equilibrata, un’armonia di componenti visive più definita possibile.
Una volta inserite tutte le immagini opportune e dopo aver attivato il filtro di avviso per i contenuti “sensibili”, ho atteso l’orario che avevo prefissato per la performance, le 3 di stanotte appunto, e una volta scoccate le 2.59 e 59 secondi, ho dato l’innesco alla pubblicazione. Ho lasciato online le immagini per un quarto d’ora preciso, e alle ore 3 e 5 minuti precisi ho sentenziato la fine della loro visibilità universale.
Me ne sono andato a letto ed ho quindi atteso il momento di iniziare a farvi il presente resoconto di tutto l’esperimento, essendo, esso stesso resoconto, parte integrante ed imprescindibile dell’operazione estetica messa in atto.
…un racconto Dada
Nel corso della mia esposizione di come si sono svolti i fatti, ho poi atteso questo preciso passaggio del discorso per venirvi a chiarire che, naturalmente, di tutte le cose descritte sopra, nessuna è mai accaduta.
Potevano anche essere accadute, quelle pratiche auto-denudanti sul palcoscenico mondiale, ma non importa ormai più di tanto. Nessuno lo potrà mai più verificare e, molto presumibilmente, nessuno lo ha verificato, vista l’ora impervia e la fulmineità della presunta pubblicazione. Ciò che importa adesso è che quanto scritto sopra ha a questo punto modificato la propria natura narrativa, passando dalle forme della descrizione realistica a quelle della finzione pura.
Inoltre, quanto scriverò di seguito muterà a sua volta essenza espositiva, assumendo le sembianze del mini-saggio di critica d’arte. L’ingannevole sospensione di credulità annidata nel presunto realismo di quanto vi sono andato inizialmente riportando, era peraltro funzionale al ragionamento critico che mi piacerebbe sviscerare adesso.
La mia cosiddetta “operazione estetica”, sia che i fatti abbiano avuto luogo effettivamente, sia che vadano essi relegati nel puro ambito dell’invenzione ad hoc, ricalca in un certo senso le intenzionalità creative messe in atto negli anni ’60 da Piero Manzoni con la sua famosissima «Merde d’artiste». Cosa c’era effettivamente dentro quelle scatolette dall’etichetta promettente cotanto trasgressivo contenuto? Credo che nessuno lo abbia mai appurato, perché in fondo, come nel caso delle mie immagini, non aveva nessuna importanza appurarlo.
Lo scarto decisivo di significati risiedeva invece nel corto circuito concettuale ormai innescato. La dissacrazione, il raffinato sberleffo, l’ironia più subdola, lo spaesamento emotivo, il ribaltamento totale del senso dei valori: era l’insieme di questi “sentimenti” e “reazioni”, tutti portati all’estremo limite di tensione del fastidio sopportabile, a costituire l’artistico “valore aggiunto” della “creazione” di Manzoni. Non ultima, la beffa estrema di aver raggiunto l’intento di esprimere simili funambolismi concettuali, facendo leva su riferimenti alla componente più grezzamente fisica di pertinenza della sfera umana.
La mia presunta performance di stanotte (…è avvenuta veramente? Non è avvenuta? Chi lo sa…) si incanala allora entro una tradizione creativa di questo tipo, da far risalire a sua volta al primigenio atto “Dada” di Marcel Duchamp.
La pubblicazione delle mie immagini si sarebbe ovviamente soltanto nutrita dello spirito “Dada”, riuscendo ad addentare alcuni esiti di significato marginali, sminuita ormai dall’irreparabile mancanza di originalità del gesto. Questa infatti è svanita per sempre nel nulla dell'indisponibilità definitiva, nell’attimo stesso in cui Duchamp o Manzoni davano forma ad una determinazione concreta dei loro decisivi “atti concettuali”. Il “Dada” brucia per sempre le sue stesse idee, nel momento in cui vengono formulate e tradotte in pratica nella realtà. Il che lo dota di un antidoto assai efficace per difendersi dalla classica critica opposta dal senso comune: «...Un’opera del genere la sapevo fare anch'io!...». Certo, la sapevi fare anche tu: peccato che ci abbia pensato prima un altro.
Alle mie immagini senza veli sarebbe forse stato concesso un margine di significatività, nel fatto di riuscire a creare uno scarto rispetto alla banalizzazione raggiunta ormai dal corpo esposto. Internet, da questo punto di vista è un carnaio immane. In questo mare magnum dell'impudicizia, che differenza avrebbero fatto quattro o cinque immagini di particolari fisici in più? Nessuna differenza, credo. Se non quella dettata dallo stratagemma del mascheramento temporale adottato. L'ora improponibile e il brevissimo lasso di minuti concessi all'esposizione, avrebbero funzionato allora da risarcitori di preziosità riassegnata all'intimità fisica. L'annuncio della performance se non a cose ormai successe, avrebbe completato l'opera.
Di vedermi in quella versione, sarebbe poi interessato a pochissimi. A nessuno direi. Se non magari per una curiosità dettata dal mio essere divenuto nel tempo, nella considerazione di alcuni lettori, una specie di identità letteraria non meglio definita. Questo forse avrebbe fatto scattare un minimo di attrattiva, per il gusto di aggiungere nuovi ingredienti identitari a questo enigmatico essere fatto di pure parole. Puro corpo sommato a pure parole: questo avrebbe potuto essere un altro ingrediente dell'operazione dall'intenso sapore “Dada”.
L'insieme delle cose scritte oggi può dunque essere recepito secondo diversi gradi di lettura: come provocatorio resoconto puro nella prima parte e come saggio critico nella seconda, la quale intervenendo muta anche nel contempo il precedente resoconto in racconto di finzione; come racconto in tutto e per tutto, in ogni sua parte; oppure come resoconto che diventa parzialmente racconto, seguitando però ad insinuare il dubbio del proprio realismo dissimulato.
Oppure ancora come una massa di fregnacce senza importanza alcuna.
Perché “Dada”, oltre a bruciare le proprie idee nell’attimo stesso in cui le pensa, contiene già di per sé, al proprio interno, il germe dell'autoironia ad oltranza, con un occhio particolare riservato alla salvaguardia continua del mistero insito in ogni sua creazione.