Nel bel romanzo giallo citato durante i giorni pasquali, «Un bastimento carico di riso» di Alicia Gimenez-Bartlett, oltre al brano illuminante ricordato la scorsa volta, ho rinvenuto un’altra notevole epifania del lettore.
Nel corso della vicenda raccontata, l’ispettore Petra Delicado, al fine di far proseguire le proprie indagini, chiama al commissariato una testimone, per farle visionare una lunga sequela di foto segnaletiche. La donna, proprietaria di un ristorante e grande esperta di cucina, crede di aver visto nel suo locale un tipo implicato nei reati di cui l’ispettore Delicado si sta occupando.
Con la noiosa rassegna di foto si spera di dare un’identità al sospettato. La cosa dura una mattinata abbondante ed alla buon ora il confronto ha un esito positivo: la cuoca riconosce l’indiziato in una delle fotografie. A quel punto, l’ispettore Delicado ringrazia vivamente la signora e le comunica che può andare.
La donna, che tra l’altro per venire al commissariato aveva dovuto lasciare momentaneamente in sospeso importanti incombenze dietro ai fornelli, ha un piccolo moto di ribellione e pretende di sapere almeno il nome del tizio individuato. E aggiunge una sua metafora per spiegarsi:
«…Non mi va di essere usata e basta. E’ come quando ti dicono di tagliare le cipolle ma non ti spiegano il resto della ricetta. Non mi va, io voglio sapere cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme. Sono una cuoca, non una sguattera, sarà per questo, forse…».
Questa piccola immagine, nella sua semplicità, l’ho trovata molto bella e sorprendentemente profonda. So di addentrarmi in una sorta di volo pindarico fanta-utopico, ma mi sento di dire che questo paragone culinario dovrebbe essere preso in considerazione da chi riveste ruoli decisionali a medi e ad alti livelli dell’intera «impalcatura sociale», e in qualche modo ha la responsabilità di determinare le vite di tante persone.
Cosa servirebbe per far funzionare meglio le diverse realtà di un’organizzazione sociale? Più consapevolezza, più coinvolgimento diffuso, far sentire alle persone che sono parte attiva delle dinamiche in cui vengono coinvolte. Ognuno dovrebbe poter constatare il frutto effettivo della propria azione sociale, professionale, civile, umana. Ciascuno proporzionalmente al ruolo giocato nell’ambito della comunità alla quale si rapporta.
Tutti insomma dovrebbero poter essere consapevoli di «…cosa ci sta a fare la cipolla nell’insieme…» della ricetta, perché ognuno, se può scegliere, preferisce essere cuoco che sguattero.
Senza confusione o sovrapposizione di ruoli, senza accavallamenti di competenze, di prerogative decisionali, di responsabilità o di riconoscimenti ad esse commisurati. Il merito ed il raggio d’intervento riservati ai diversi gradi rimarrebbero dei punti fermi. C’è chi ha talento e qualità per diventare ingegnere, dirigente, politico, imprenditore e chi per essere un buon operaio, o salumiere, o artigiano: a ciascuno il suo, in fatto di complessità, di sfera d’influenza e di relative ricompense sociali.
Ma a nessuno dovrebbe venir richiesto di svolgere un ruolo di pura esecuzione cieca di compiti, per quanto modesti questi siano. Anche il più umile dei cittadini dovrebbe sapere per quale motivo sta tagliando la cipolla, sia in ordine alla propria realtà immediata e, seppur più a grandi linee, anche rispetto all’ambito generale in cui agisce.
Non sarebbe tanto questione di buonismo o di filantropia spicciola. Chi sente di giocare da protagonista nell’ambito dell’organizzazione sociale, in proporzione alle prerogative consone al proprio ruolo, vive in completezza d’identità, è più stimolato a fare bene, a comportarsi virtuosamente, perché presagisce le future ricadute positive tornare già direttamente a suo vantaggio. Se ha un quadro sufficientemente chiaro verso gli orizzonti possibili, vede la strada che sta percorrendo, dove conducono i vari bivi, e sceglie la direzione più favorevole. La sommatoria di tutte le piccole e grandi scelte di ogni componente ai vari livelli, porta a muovere poi una coralità di intenti favorevoli all’evoluzione armonica del quadro generale che si sta tutti insieme dipingendo.
Lo so, parlo di un qualcosa che sta a metà fra una sorta di trasformazione epocale dell’uomo ed i candidi sogni di un illuso. Tematiche di simile portata, pur provenendo dall’estrema semplicità di una cipolla, non sono cosa liquidabili con tre o quattro decreti legge e qualche riformetta della scuola all’acqua di rose. C’è in gioco davvero un nuovo modo di concepire l’individuo, la sua educazione e la sua percezione di sé, del proprio valore, nell’ambito della società. Che cosa possa operare questo lento e graduale sovvertimento sovrumano, chi o quale fenomeno ne abbia la forza, sinceramente non lo saprei dire.
Ma siccome dalla cipolla son partito, sempre con la cipolla chiudo questo articoletto di oggi, riportando gli stupendi versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, recentemente scomparsa (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1º febbraio 2012), che con il suo tipico, profondissimo candore, così diceva in questa impareggiabile poesia intitolata appunto “Cipolla”:
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa di dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi è negata
l’idiozia della perfezione.
4 commenti:
Condivido e sono pienamente d'accordo con la tua affermazione.
Una volta però mi sono accorto che dipende sempre dal carattere delle persone, o da quanto siano soddisfatte a fare quel particolarissimo lavoro ... ho lavorato in un albergo, tanto per guadagnare qualcosa durante gli studi, e ricordo un signore anziano, addetto al bar solo alle spremute per le prime colazioni ... non desiderava fare altro che quello e guai a cambiargli ruolo, a spiegargli che c'era altro e di più interessante da fare, ma quello non ne voleva sapere, perchè in quello specifico compito, dalle 5,30 alle 10,30 del mattino era l'assoluto re della situazione, non doveva render conto a nessuno o condividere il lavoro con altri: un saggio o uno sgorbutico? Ancora me lo chiedo, dopo venti anni:-)
Un saluto a te Gillipixel
Mi piace molto questa idea della coscienza del proprio ruolo come rotella di un ingranaggio più grosso, e poi grazie per la poesia: colpevolmente - me ne vergogno - non amo la poesia, e la zimborvwska (o come cavolo si scrive) ogni volta mi ricorda che non è affatto vero, amo la poesia. Almeno, quella che scrive lei.
@->Paolo: caro Paolo, il tuo aneddoto si inserisce benissimo ad integrare il mio ragionamento: non tutti vogliono essere dirigenti oppure stare sotto le luci della ribalta...ognuno ha una propria idea di realizzazione di sé, e tutte sono degne di rispetto, anche quelle più minimali e defilate...anche questo si dovrebbe tenere in conto: esaltare al massimo le aspirazioni di ciascuno...
Grazie per il bel mini-racconto :-)
Ciao :-)
@->Rosa: grazie a te cara Rose :-) credo che quello della rotella cosciente sia un nodo cruciale per un'auspicato miglioramento sociale...la cosa che sconforta tuttavia è che purtroppo non si sa bene da che parte prendere per iniziare un simile cammino di consapevolezza diffusa...
La poesia è una cosa bellissima...anche lì, basta trovare il posto giusto in cui ci piace inserirci :-)
Bacini a cipolla :-)
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