lunedì 13 agosto 2012

Quando le fate le incontravo sul treno



Esistono le fate, gli gnomi, gli elfi? Spiritelli o folletti, in qualunque modo li si voglia chiamare? Tutti quegli esserini insomma escogitati lungo le varie epoche, nell’ambito delle culture più diverse, e che pretendono di individuare non meglio definite presenze bonarie intorno a noi, auree condensate di essenza positiva spolverata su determinati attimi del nostro vivere?

Ovviamente, non saprei rispondere in misura certa alla domanda. Ma una mia vaga idea in merito me la sono fatta. In modo particolare, dopo quella volta che una fata la incontrai veramente, sul vagone di un treno, alcuni anni fa.

Erano i tempi gloriosi dell’università. Gloriosi, via…si fa per dire, insomma.

In epigrafe a «Il sistema periodico», la bellissima raccolta di racconti di Primo Levi che mi appresto a leggere in questi giorni, ho scoperto giusto ieri notte una frase stupenda: «…E’ bello raccontare i guai passati…». Si tratta di un vecchio proverbio yiddish, che in originale suona: «…Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseyln…».

Diciamo che il mio periodo universitario si potrebbe anche definire glorioso, a patto però di inquadrarlo nello spirito di questo meraviglioso adagio yiddish. Più in generale, questa perla di saggezza popolare mi sembra un buon metro di misura per volgere indietro lo sguardo, rimirando un po’ tutte le vicende attraverso le quali si è dipanata la propria vita.

Di fatto, quel mio lontano giorno da universitario di cui vi voglio parlare, si preannunciava sin dalla mattina presto molto più “glorioso” di tanti altri. Dovevo sostenere un esame, e nella migliore delle mie più gloriose usanze, non mi sentivo per nulla preparato. Se mai avete conosciuto un tipo supremamente insicuro, oltremodo timoroso all’idea di presentarsi di fronte ad una commissione d’esame, ed avete pensato che fosse l’asso assoluto nel campionato di tentennamento individuale, riservato ad atleti professionisti di titubanza in assetto variabile, beh, scordatevelo pure: io, in una sfida diretta, l’avrei stracciato alla grande.

La cosa più singolare era che alla fine, nel momento esatto in cui mi sedevo di fronte al professore per essere interrogato, non solo mi mettevo a sciorinare una sequela di nozioni e concetti della cui presenza, nei meandri del mio cervello, non avevo il benché minimo sospetto, ma mi calavo anche in una sensazione liberatoria incredibile. Come un colpevole al quale venga offerta l’opportunità di sgravarsi tutto d’un colpo di ogni fardello della coscienza, non la smettevo più di raccontare cose, mentre il professore si trasformava, da spauracchio paventato, nel più rassicurante dei confidenti, un amico appassionato degli argomenti di cui si trattava, in grado di darti notevole soddisfazione dialettica, perché fortemente interessato ad ascoltarti. Non poche volte mi ritrovai in seguito un 30 istoriato sul libretto, dandomi alacremente del semo per tutte quelle moine preventive da condannato al patibolo. Ma era tutto inutile: all’occasione successiva, il rito si sarebbe ripetuto tale e quale.

Non bastasse il clima da vigilia d’esame, la sera precedente ci si era aggiunta un’aggravante ansiogena notevole. In quel periodo ero parecchio fissato con la pallavolo. Come per tutti gli sport la cui pratica mi ha appassionato nel corso degli anni, anche nel caso della pallavolo amavo soprattutto la ricerca di una sintonia con in movimenti richiesti dalle varie azioni di gioco. Le movenze sportive sono il risultato di una ricerca dinamica di anni, realizzata da numerosi atleti, che lentamente hanno portato il proprio contributo per rendere il gesto sempre più efficace, armonioso, fluido, elegante. Pensate ad esempio, per il salto in alto, alla scorrevolezza dello stile Fosbury che ha soppiantato l’irruenza del ventrale, oppure a tanti altri tipi di miglioria tecnica ed “espressiva” nei vari sport.

Anche lo sport è un linguaggio che si evolve e non c’è niente di più bello, quando ci si appassiona alla pratica di uno sport, del fatto di inserirsi nel discorso di quel linguaggio, provando a dire la propria opinione, espressa con le peculiari parole di quel “modo di parlare per azioni”. Non conta tanto avere ragione, ossia vincere, ma conta più argomentare con arguzia, portare idee brillanti nella conversazione, inserirsi nel dialogo con grazia ed eleganza.

Stavo partecipando a questo piccolo torneo locale di pallavolo, organizzato in un paesello vicino. Niente d’importante, ma con la nostra squadretta riuscimmo ad arrivare alla gara decisiva, ci esaltammo, già ci pregustavamo la vittoria finale, a scapito dei nemici storici di un altro campanile limitrofo e invece…perdemmo come cagnacci. Propria la sera prima del mio esame. Avere ragione non contava, è vero, nel mio personale modo d’intendere il confronto agonistico. Ma quando qualcuno pretendeva di urlarmi malamente in faccia che avevo torto, da una parte mi incazzavo, e dall’altra mi deprimevo non poco.

Masticando adrenalina stantia e rabbia insensata, quella notte non chiusi occhio: premessa ideale per andare a prendere “quel treno per l’esame”, la mattina successiva. Il vagone era intriso del solito odore di pendolarità, un misto di quintessenza kafkiana corretta con puzza di sedili e io, seduto nel mio cantuccio, mi aggrappavo spasmodicamente alle pagine del libro, per il ripassone disperato dell’ultimo momento. Come al solito, per i primi venti minuti del viaggio, il treno era semivuoto. Sino alla “città delle donne”. Nella stazione di questo piccolo centro, succedeva regolarmente una magia: la banchina era sempre stracolma, fra gli altri viaggiatori, di ragazze e donne carine, studentesse, impiegate, una folata di grazia femminile pendolaresca sparpagliata e pronta per l’assalto ai vagoni.

Immerso com’ero nel mio disperato ruolo di sconfitto irrecuperabile, perseguitato dalla sorte meschina e cinica, non feci nemmeno caso che una di queste evanescenti creature era venuta a sedersi proprio di fianco a me. Dovevo proprio avere un aspetto terribile, perché nel giro di pochi chilometri, la ragazza mi rivolse la parola: «…Sei preoccupato per un esame?…» attaccò a dirmi, o qualcosa di simile. La guardai meglio, non capacitandomi ed emergendo a fatica dal torpore rimbambito che mi teneva avvinto alla mia bolla di vittimismo fatale. Minchia, una ragazza, e pure carina, che attaccava bottone con me: di sicuro c’era qualcosa che non funzionava, un grano di sabbia inceppatrice doveva essersi insinuato fra gli ingranaggi dell’immane meccanismo cosmico-esistenziale.

Aveva i capelli neri, lunghi, era snella, di una bellezza non appariscente, ma di certo rassicurante. Mi parlò per tutto il resto del viaggio come fossimo stati vecchi amici di lunga data, rincuorandomi sulle sorti del mio esame, dicendo cose carine, condite con sorrisi non finti. Mi spiegò anche che veniva dauin piccolo paese, in provincia della “città delle donne”. Non ricordo se mi disse il suo nome e completamente rapito dall’eccezionalità dell’evento, non mi preoccupai nemmeno di chiederle un recapito, un numero di telefono. L’epoca dei cellulari non era ancora giunta, ma ero sicuro che l’avrei ritrovata prima o poi, sempre in treno, un altro giorno.

Invece non la incontrai più.

Per questo sono rimasto convinto fino ad oggi che si sia trattato di una fata. L’esame andò discretamente bene e la delusione sportiva svanì con facilità. Ma il ricordo della grazia semplice di quella ragazza me lo porto ancora dentro. Fatalità, fatale: sono termini che contengono nella loro radice un richiamo al concetto di fato, ma per quella volta recarono in sé soprattutto riferimenti alla parola “fata”. La preziosità di un evento che trovò la sua energia più grande nell’irripetibilità assoluta.

Un’altra prova inoppugnabile della sua essenza di fata mi rimase in mente: ai piedi portava un paio di ballerine argentate, che avrei reputato del tutto pacchiane, se indossate da chiunque altra donna al mondo. Invece su di lei non facevano altro che esaltare ancor più il senso di confortante fatalità femminea impregnato nella sua presenza.

Fate, folletti e compagnia bella: esistono. Bisogna avere solo la pazienza di saperli attendere, annidati dietro la singolarità di un evento raro, nell’inaspettato che si nasconde in ogni persona.

Perché non provai a rintracciare quella ragazza, in seguito, quando mi resi conto che le speranze di rivederla per la spontaneità del caso, si andavano assottigliando sempre più? Non vi saprei spiegare. Forse per il fatto che, lontano dai centellinati attimi sospesi per sempre su quella disperata mattina pregna di fiducia irreale, ero certo di trovare definitivamente e semplicemente soltanto una ragazza, e non più una fata.

4 commenti:

Marisa ha detto...

Io non ho mai incontrato nessun folletto che mi abbia portato fortuna bensì ho il ricordo di diversi gnomi dispettosi che mi hanno portato solo guai.
Certo però, trovare una fata e lasciarsela scappare... perchè non gli hai chiesto il numero del telefono di casa?
p.s.
Almeno il nome glielo hai chiesto?

Gillipixel ha detto...

@->Marisa: no, Mari, che gran fesso che fui :-) forse il nome me lo disse, ma non ricordo...il telefono non ci pensai, temevo di essere anche un po' invadente, e poi sul momento ero troppo preso dal frullio di emozioni :-)

E' vero, spesso capitano anche gnomi rompiglioni...ma quelli vanno schivati come pozzanghere :-)

Bacini del bosco :-)

MR ha detto...

sempre preziosi i consigli di marisa ;) le fate a volte si aspettano cose che poi non accadono, ecco spiegato perché ;). scherzo, gilli. un abbraccio e scrivere è come fotografare, gli argomenti non finiscono mai.

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: cara EmRose, dopo l'ultima divertente lettura sul tuo blog, ti nomino mia consulente ufficiale per le questioni di cuore :-)

"...scrivere è come fotografare..." bellissima frase, non ci avevo mai riflettuto...mi rincuora sul fatto che non smetterò mai di scrivere, e nemmeno di fotografare :-)

Grazie EmRose, farò tesoro di questa tua frase piccola ma profonda...

Bacini fotografati :-)