domenica 2 giugno 2013

L’effetto «vapurèn»


 
Quando ero un tenero virgulto di campagna (non come adesso, che sono una stoppacciosa e tardo-rurale erbaccia infestante), passavano sempre i «vapurèn». Le acque del fiume, partendo da Pavia per arrivare sino a Venezia, si tramutavano in un biscione agonistico a disposizione di motoscafi di ogni foggia e cilindrata, pilotati da un manipolo di audaci che a colpi di derapate e spiattellate a pelo d’acqua, se le davano sportivamente di santa ragione, rasentando a tutta manetta ripe impellicciate di salici e scarmigliando gli altrimenti piattissimi fondoni fluviali.

Accadeva ogni anno, intorno al 2 di giugno, ed allora era ancora festa, prima della cancellazione e poi del ritorno in vigore, festa di una Repubblica all’aroma di complotto, insaporita da convergenze parallele, con spolverate di compromesso storico. «Vapurèn» è il termine “tecnico villico” in gillipixilandese stretto, per indicare i motoscafi, appunto.

Vuoi perché in campagna la propensione a divertirsi con poco è sempre stata tenuta in gran conto, vuoi perché effettivamente allora era più raro assistere ad uno spettacolo sportivo di una certa importanza, vuoi un po’ la minchia che vuoi, fatto sta che il passaggio dei «vapurèn» era un evento abbastanza atteso e gradito. Se ne cominciava a parlare diversi giorni prima. La voce si diffondeva a macchia d’olio: «…Dùmenica a pàsa i vapurèn… dùmenica a pàsa i vapurèn » («…Domenica passano i motoscafi…»). A portare la smotorante novella erano soprattutto i più assidui frequentatori del Bar Sport, gente di una tale tempra morale, da essere in grado di stabilire i più strabilianti record di resistenza nel periglioso confronto con le profondità intellettuali della Gazzetta rosata.

Fra questi annunciatori del “gaduim magnum” vaporinesco, c’era anche un mio caro amico, tuttora grande esperto di pratica sportiva da bar. Lo conosco di fatto da quando sono nato ed è uno dei più appassionati divoratori di notizie relative ad ogni tipo di sport immaginabile, ma sono quasi certo che, se nell’arco della sua vita ha fatto al massimo 27 metri di corsa tutta filata, è dire tanto. Era soprattutto lui che mi teneva avvertito con puntuale immancabilità, ad ogni rinnovata occasione vaporinesca. Oltre ad essere un grande indagatore del mondo teorico delle competizioni di ogni risma, per la proprietà transitiva, questo mio amico è ovviamente da sempre anche un eccellente sportivo da poltrona. E come tale, conosce ad altissimi livelli, quasi da raffinato esperto, l’arte dello “spettatore di eventi agonistici”, il quale deve annoverare fra le sue doti più eccelse anche un’ingente dose di pazienza. Lo sportivo da divano sa essere un notevole amministratore di noia, è un incassatore instancabile di barbosità, slalomeggia da par suo fra i tempi morti dell’evento agonistico passivamente sorbito in posizione decubitante, perché sa che le gare sono un po’ come la vita, possono riservarti la spettacolare sorpresa, il momento clou, quando meno te l’aspetti e quando ormai pensavi che non sarebbe arrivato più nulla di esaltante.

Succedeva così dunque che, in occasione della festosa giornata in cui era previsto lo smarmittoso passaggio dei «vapurèn», il mio amico si facesse trovare già di buon mattino infrattato dietro ad un macchione di gaggia costeggiante il corso fluviale, già bello ed appostato per godersi la parata dei bolidi sgratta-flutti. E lì rimaneva fisso, senza mollare un attimo la posizione, fino a quando l’ultimo fil di fumo di scappamento lasciato dietro in scoreggiante scia dall’ultimo scafo in gara, non svaporava lontano all’orizzonte, in direzione Venezia. Io invece, che una qualche esperienza nella pratica degli sport giocati davvero, ce l’avevo, ma ero profondamente inetto per quanto riguardava la suprema disciplina dell’agonismo da divano, affrontavo ogni volta il confronto con lo spettacolo dei «vapurèn» adottando una tattica disastrosa.

Da buon pigro professionale, mi attardavo a lungo sonnecchiando a letto, e solamente all’udire delle prime avvisaglie di ululati a scoppio dei motori (percepibili in piena nitidezza anche da casa), inforcavo in fretta e furia la bici e mi recavo di gran carriera lungo il primo affaccio disponibile sul fiume, per riuscire a cogliere almeno qualche scampolo di colorato e rombante sfrecciare motoristico. Il tragitto tuttavia, se fatto in bici, non era e non è uno dei più immediati ed istantanei, per cui almeno 5 minuti buoni, fra la percezione del fragore dei cilindri e il mio approdo sulle rive, me li bruciavo per strada. Con puntualità matematica, erano sempre quei 5 minuti esattamente sufficienti a far sì che non riuscissi a vedere nemmeno uno di quella prima ondata di motoscafi in gara, ormai svaniti giù per il fiume come per rincanto, durante il mio affanno ai pedali.

Ancora col fiatone per l’inutile corsa, inghiottendo delusione dopo essere arrivato in tempo soltanto per osservare quattro rimasugli bianchicci di onde provocate dal passaggio dei bolidi da me rigorosamente non visti, ma soltanto sentiti da lontano, con altrettanta puntualità mi imbattevo nel mio amico sportivo da bar. E subito lui, con malcelata soddisfazione per aver visto premiata la sua lodevole tenacia di sportivo da poltrona, passava ad elencarmi le mirabilie motoristiche appena ammirate, sciorinando tanto di nomi, cognomi, soprannomi dei piloti e caratteristiche tecniche degli scafi, testé passati in rassegna e da me immancabilmente “lisciati”: «…Sono passati Gigio Squartaroli, con motore Alfa Romeo a marmittone Sbaranga,  Berto il Bullo su piattella 900, Erminio Liscafi col suo flatulante a 6 cilindri…poi un inglese si è spiaggiato sui sabbioni, è sceso col volante in mano, ha tirato due sacramenti in dialetto britannico, si è fatto prestare una chiave, inglese come lui, ed è ripartito guidando con quella…».

Di fronte a questo stuolo di meraviglie mancate, io mandavo giù disillusione su disincanto e mi ripromettevo di riscattare all’istante le mie magagne da inetto sportivo da bar, deciso a stare lì fino all’ora di cena, pur di vedere almeno la lamiera ammaccata di un vecchio scafo rugginoso. Tanto più che il mio caro amico, dando ulteriore prova del suo illimitato nozionismo agonistico, mi allettava preannunciandomi i prossimi passaggi, da lui minuziosamente studiati a memoria sulla base delle sacre previsioni della Gazzetta dello Sport: «…Intorno alle 11 dovrebbero passare gli ottomila: c’è Huboldt Gerkowsky, detto il Manfred Von Richtofen dei pescegatti, su catamarano ribassato, poi deve passare Ubaldo Liviolini, il ragioniere dei fuoribordo, su Modello Unico 740, e poi…e poi…e poi…».

Ma sportivi da divano si nasce, non si diventa. E pur facendo appello a tutte le mie energie attendiste, la pazienza di cui ero capace non andava oltre il quarto d’ora di sopportazione. «…Va beh, allora magari torno fra un po’, verso le 11, come hai detto te…ciao…» dicevo allora al mio amico, che già se la rideva sotto i baffi, sapendola molto lunga riguardo alle strategie da vero visionario sportivo statico. Infatti, non mi ero allontanato che di pochi minuti di bici, e di nuovo giù, udivo smotoramenti furibondi alle mie spalle, provenienti da scafi di passaggio al di là di ogni previsione gazzettistica. Ritornavo allora sulle mie pedalate con un affanno di tipo superiore, ma giunto ancora al cospetto del mio amico, era solo per sentirmi recitare di nuovo: «…Era un drappello di ritardatari…pensa te: c’era anche il barone Bartàca da Mondibello, sul suo scafo carenato oro, erano 6 anni che non partecipava…». A quel punto, con un filo di mezza incazzatura sulle labbra, rinunciavo definitivamente alla velleità di riuscire a vedere almeno un ferro vecchio concorrente alla gara. Risalutavo di nuovo il mio amico e ritornavo definitivamente a casa, dove me ne stavo buono buono a completare la mattinata magari giocando a LEGO, mentre dalle sinuose anse del fiume continuava a provenire beffardo il riecheggiare rombante di motoscafi che avevo rinunciato senz’altro a voler vedere.

Questa buffa tiritera si è ripetuta per diversi anni della mia bambinitudine, fino ad un bel giorno in cui, ritornando con la memoria a quei buffi avvenimenti, mi sono accorto come anche in altri ambiti più generali della vita, non necessariamente connessi alla pratica sportiva da bar, si possa verificare un fenomeno che mi piace definire «effetto vapurèn».

Nel pieno dell’«effetto vapurèn», incappano coloro che hanno la ventura di trovarsi spesso al posto giusto, ma nell’esatto momento sbagliato (ed io sono spesso di questa schiera). Il bello è che 90 volte su 100, trovi lì ad attenderti anche il declamatore delle gran meraviglie che ti sei perso, facente funzione del mio amico in riva al fiume. O se non è una persona fisica a rammentarti il tuo fiasco, c’è pur sempre la coscienza a farlo.

Non hai pazientato? Sei arrivato tardi? Non hai previsto per tempo? Hai calcolato male le coincidenze? Niente paura: sei stato solo vittima dell’«effetto vapurèn». Non hai detto a quella ragazza deliziosa le parole giuste da dire nell’attimo opportuno, e la rivedi due mesi dopo a limonare sulla panchina col tizio che ti aveva preceduto di un soffio a porle l’accendino in discoteca? Non hai fatto la domanda che andava fatta e un’opportunità favolosa è sfumata via lasciando dietro di sé un’eco scoppiettante e beffardo come il rombo di un motoscafo all’orizzonte?

Rilassati, non è niente di che: è sempre e soltanto l’«effetto vapurèn».
 


6 commenti:

MR ha detto...

Bellissimo racconto, Gilli. Descrivi le situazioni che sembra di vederle. Mio padre potrebbe essere uno sportivo statico, anche se cammina molto, ha tutte le caratteristiche del tuo amico. Sempre divertenti ed interessanti i tuoi post. Un abbraccio e baci!

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: grazie, cara EmRose :-) i tuoi apprezzamenti mi fanno sempre un grande piacere...gli sportivi statici sono una maggioranza gioiosa, in questa nostra Italia :-)...anche io, in fin dei conti, adesso sono di quella schiera...di fatto, come tuo babbo, mantengo solo il camminare come sport attivo, e lo faccio con assiduità...ma per il resto, è tutto divano e telecomando :-)...e ti dirò che, anche se me ne sono accorto tardi, credo che forse proprio camminare sia lo sport più bello da praticare :-)

Ancora grazie graziose tante
:-)...ho visto che hai messo un nuovo scrittino...evviva, yum, yum! :-) poi passo da te a leggere :-)

Bacini in cammino :-)

Marisa ha detto...

Ahahaha, povero piccolo Gillino sotto l'effetto del vapurèn, che tenerezza mi hai fatto.
Certo però che perseverare negli anni mi fa pensare che tanta voglia non avevi di vederti la regata.
Bel racconto, fa molto Degas.
Bacini descrittivi.

Gillipixel ha detto...

@->Marisa: ehehehhehe :-) forse era proprio come dici, cara Mari...non è che me ne importasse molto, alla fin fine...però, dopo un po' di tempo, credo che diventò una questione di principio :-) e non ho detto che molti anni dopo, organizzarono una gara di motoscafi su circuito breve, per cui si potevano vedere passare e ripassare fino a stancarsi gli occhi: ecco, forse in quella occasione mi rifeci di tutti gli anni di "lisciate" :-)

Grazie, Mari, è sempre bello ricevere i tuoi cari commenti...se ti ho suggerito Degas, per me è un vero onore :-)

Bacini fuoribordo :-)

Occhi blu ha detto...

Effetto "vapurèn", "Sliding doors" o "carpe diem" ("Sieze the day")?
Che si dica nel tuo dialetto, in inglese o in latino, il senso è sempre quello: la vita è fatta di tempo e luoghi, persone e situazioni.

Mi sovviene la bellissima sequenza finale di "I ponti di Madison County", in cui Meryl Streep vorrebbe scendere dall'auto ed è dibattuta, non si decide, sta per aprire la portiera, e ... (non ti rovino il finale, nel caso non l'avessi visto).

Sai quanti cosiddetti treni ha perso la sottoscritta?
E su quanti ho voluto risalire anni dopo averli persi?
Almeno ci ho provato, come te, con la bicicletta inforcata in gran fretta!

Penso che, comunque, la cosa importante sia vivere, andando avanti, vedendo o non vedendo i "vapurèn", magari rammaricandosi per non averli visti e farseli descrivere, oppure immaginandoli proprio per non averli visti, oppure ancora sperando di vederli un giorno a venire.
Questa è la vita e il nostro compito è quella di accettarla con un sorriso e una lacrima, l'entusiasmo ed il dolore, la soddisfazione e la tristezza, cercando di capire le lezioni che essa ci dà, riuscendo o non riuscendo a fare o non fare, vedere o non vedere, incontrare o non incontrare.
Credo nel libero arbitrio dell'uomo, ma anche nel destino e penso che ognuno di noi abbia il suo.
Ciao Gilliphilosopher!
E' sempre un piacere disquisire con te.
:)

Gillipixel ha detto...

@->Occhi Blu: sei saggia, dear OuBee :-) al rimpianto non bisogna mai dare un peso eccessivo, non deve mai diventare una fonte di frustrazione o di delusione che freni nuovi entusiasmi...il rimpianto invece, se assunto nelle dosi modiche consigliate, può diventare un buon elemento di rielaborazione in positivo...

Siamo occidentalmente artefici del nostro destino, oppure orientalmente solo navigatori che debbono assecondare la corrente? Credo che non ci si debba fissare in modo manicheo su nessuna di queste due visioni, ma prendere all'occasione il meglio dall'una e dall'altra...

I ponti di Madison County l'ho visto eccome, dear OuBee :-) è bellissimo, ed ho anche piangiucchiato un po'...se uno ha un minimo di cuore, non può non versare la lacrimuccia fatidica con quell'incredibile storia...e poi Meryl Streep...è fenomenale...ma anche Clint...

Grazie a te per le tue belle dissertazioni :-)

Bacini est-ovest :-)