Mi aggiravo non molto tempo fa per le strade cittadine, quando mi si è parato dinnanzi un fulgido esemplare di «homo bursellatus». Con sommo stupore, mi sono gustato quella visione, anche perché, da quanto mi risultava, quel raro esemplare di tipo umano veniva ormai dato per estinto dai cataloghi antropo-bestiari più autorevoli. Erano anni che non ne vedevo uno, roba da far trasecolare la possanza tassonomica del Linneo in persona.
Li ricorderete sicuramente anche voi. Non so se con più o meno piacere, ma son sicuro che li ricorderete. Forse il periodo d’oro della diffusione dei prototipi più genuini di «homo bursellatus» dev’esser stata la metà degli anni ’70. Allora frequentavo poco le città e più dei soliti quattro bifolchi in canottiera (nel cui novero anche io fieramente mi schieravo), non mi capitava di vedere in giro. Per cui le occasioni più proficue per l’«homo bursellatus watching» mi si presentavano in occasione delle vacanze al mare.
L’«homo bursellatus» era un tipo di animale né diurno, né notturno. Diciamo che era “tramontizio”. Dopo la giornata marina trascorsa in spiaggia, te lo ritrovavi preferibilmente all’imbrunire, mentre si aggirava per i sentieri del giardinetto dell’albergo, in attesa dell’orario di cena. Era inconfondibile e mi piacerebbe aggiungere anche “inimitabile”, ma purtroppo o per fortuna, era imitabilissimo. Il fattore estetico, dell’abbigliamento, giocava sicuramente un ruolo primario nel determinarne la personalità, ma l’«homo bursellatus» era molto di più che un paio di calzini bianchi e un borsello in finta pelle. Lui era la radiografia dello spaccato sociale di un’epoca, ma partire da com’era conciato è quasi d’obbligo.
L’«homo bursellatus» si contraddistingueva in primo luogo per il radioso “borsello” in similpelle che ostentava fieramente a tracolla. Quello era il fulcro del suo essere. Il borsello è forse uno degli accessori più tristi mai concepiti da mente bacata di stilista o creativo folle di moda. Il nome stesso evocava già straripamenti di pacchianeria, alluvioni di indifferenza nei confronti del pudore. Bor-sel-lo: sentite come rimbalzano goffe finanche le sue sillabe, già solo a pronunziarle mentalmente. Intridono i neuroni di una untuosità vischiosa, di una morchia d’ineleganza, puzzano persino di sospensione del giudizio, di paralisi estetica, sono la trasposizione simil-coriacea del compromesso storico e del clima da crisi petrolifera. Il borsello: non si è mai capito bene cosa fosse. Un mezzo tascapane? La riproduzione in scala ridotta del borsone del ferroviere o del tramviere? Un simbolo maschile di emancipazione al contrario? Sì, forse l’emancipazione definitiva dal buon gusto.
Impersonava un cupo mistero alla luce del sole, insomma, l’«homo bursellatus». E tuttavia, l’inquietante interrogativo che più di ogni altro ti serrava la gola come un groppo irresolubile, era: «…Ma cosa minchia avrà da metterci dentro, a quel suo supremo manifesto di bruttezza?...».
Che poi…fosse stato solo il borsello. Il borsello non era che l’inizio, motore immobile di una costellazione di orrori vertiginosamente roteanti attorno a quel sole della schifezza a venire. «Homo bursellatus non datur» infatti, se non coi sandali ugualmente in similpelle ed il calzino di rigore bianco, a coprire poco più sopra del malleolo. In alternativa, assai prediletti erano anche i mocassini senza lacci, oppure le scarpette nere con stringhe a spaghetto, sottilmente evocative di una smarrita vocazione nei meandri di un sotto-tonaca da prete spretato. A sublime completamento del reparto inferiore, l’«homo bursellatus» sfoderava uno sfavillante paio di braghette corte, stile Nicola Pietrangeli in finale di Coppa Davis a Melobourne 1961.
L’«homo bursellatus» era normalmente un semi-anzianotto di un’imprecisata mezza età. Più “tre quarti” che “mezza”, via. Il dato anagrafico contribuiva in misura decisiva ad assestare il colpo di grazia al quadro d’insieme: panzetta parabolica, capelli argentei con riporto o semi-riporto, sostenuto da una complessa architettura imbastita con la tecnica delle palettate di brillantina (ai tempi il gel era ancora un prodigio del progresso cosmetico di là da venire). A completare l’affresco: polpaccetto rinsecchito, glabro e lattiginoso (l’«homo bursellatus», durante il giorno, se ne stava rigorosamente sotto l’ombrellone o in pineta a sfogliare il giornale locale, «L’eco della riviera», «La gazzetta scogliosa» o simili, oppure riviste di gossip dell’epoca, come “Divieto di sosta”, “Tango”, “Burinella seimila”, astutamente sottratte alla moglie in gita sul moscone).
Culturalmente, socialmente, professionalmente ed antropologicamente, l’«homo bursellatus» era un tipico prodotto degli anni ’50: in quel decennio aveva dato il meglio delle sue energie umane. Ai tempi del suo imborsellamento, ossia quando lo potei ammirare io, era di certo in pensione. Ma con ogni probabilità aveva trascorso la propria carriera lavorativa in una piccola ditta, come impiegato. Era forse ragioniere, oppure anche senza titolo di studio: entrato da giovane nei ranghi aziendali, aveva imparato il mestiere con una lenta gavetta, guadagnandosi la fiducia del padrone.
Erano i bei tempi del boom economico ai suoi albori, quando la gente tornava a casa la sera dal lavoro col sorriso sulle labbra, canticchiando il proprio motivetto preferito, e l’evasione fiscale veniva ancora fatta a mano, con tant’amore e genuinità. L’«homo bursellatus» aveva solitamente una moglie sul tipo di Lina Volonghi, voce baritonale, affabilità straripante e modi spicci. Aveva anche una figliola molto a modo, sempre al seguito della genitrice. E forse era un mio vezzo bambinesco di infierire fin troppo ingenerosamente, ma io immaginavo che consorte e figliola, nel loro incessante peregrinare in coppia, si chiamassero rispettivamente Goffreda e Giancarla (o in alternativa, Edoarda e Mariapiera).
Mi ha fatto davvero uno strano effetto, dunque, ritrovarmi ancora davanti la rifulgente apparizione di un «homo bursellatus», mentre si aggirava per le strade di città. Per di più un esemplare completo di tutti i crismi borsellari: mocassini, calzettino bianco alla caviglia, braghetta tennistica. Mi pareva di esser salito a bordo di una macchina “del tempo”, forse una 128 coupé dall’asmatico ruggito tricilindrico, mentre dal mangianastri le parole di una nota melodia mi avvolgevano blandamente: «…e allora, io quasi quasi prendo il treno e vado a da’ via al cül…».
O forse non faceva esattamente così…anche se c’è da aggiungere che, per fortuna, ancora oggi come allora, il treno dei desideri sempre all’incontrario va.