venerdì 27 settembre 2013

Destini borsellati


Mi aggiravo non molto tempo fa per le strade cittadine, quando mi si è parato dinnanzi un fulgido esemplare di «homo bursellatus». Con sommo stupore, mi sono gustato quella visione, anche perché, da quanto mi risultava, quel raro esemplare di tipo umano veniva ormai dato per estinto dai cataloghi antropo-bestiari più autorevoli. Erano anni che non ne vedevo uno, roba da far trasecolare la possanza tassonomica del Linneo in persona.

Li ricorderete sicuramente anche voi. Non so se con più o meno piacere, ma son sicuro che li ricorderete. Forse il periodo d’oro della diffusione dei prototipi più genuini di «homo bursellatus» dev’esser stata la metà degli anni ’70. Allora frequentavo poco le città e più dei soliti quattro bifolchi in canottiera (nel cui novero anche io fieramente mi schieravo), non mi capitava di vedere in giro. Per cui le occasioni più proficue per l’«homo bursellatus watching» mi si presentavano in occasione delle vacanze al mare.

L’«homo bursellatus» era un tipo di animale né diurno, né notturno. Diciamo che era “tramontizio”. Dopo la giornata marina trascorsa in spiaggia, te lo ritrovavi preferibilmente all’imbrunire, mentre si aggirava per i sentieri del giardinetto dell’albergo, in attesa dell’orario di cena. Era inconfondibile e mi piacerebbe aggiungere anche “inimitabile”, ma purtroppo o per fortuna, era imitabilissimo. Il fattore estetico, dell’abbigliamento, giocava sicuramente un ruolo primario nel determinarne la personalità, ma l’«homo bursellatus» era molto di più che un paio di calzini bianchi e un borsello in finta pelle. Lui era la radiografia dello spaccato sociale di un’epoca, ma partire da com’era conciato è quasi d’obbligo.

L’«homo bursellatus» si contraddistingueva in primo luogo per il radioso “borsello” in similpelle che ostentava fieramente a tracolla. Quello era il fulcro del suo essere. Il borsello è forse uno degli accessori più tristi mai concepiti da mente bacata di stilista o creativo folle di moda. Il nome stesso evocava già straripamenti di pacchianeria, alluvioni di indifferenza nei confronti del pudore. Bor-sel-lo: sentite come rimbalzano goffe finanche le sue sillabe, già solo a pronunziarle mentalmente. Intridono i neuroni di una untuosità vischiosa, di una morchia d’ineleganza, puzzano persino di sospensione del giudizio, di paralisi estetica, sono la trasposizione simil-coriacea del compromesso storico e del clima da crisi petrolifera. Il borsello: non si è mai capito bene cosa fosse. Un mezzo tascapane? La riproduzione in scala ridotta del borsone del ferroviere o del tramviere? Un simbolo maschile di emancipazione al contrario? Sì, forse l’emancipazione definitiva dal buon gusto.

Impersonava un cupo mistero alla luce del sole, insomma, l’«homo bursellatus». E tuttavia, l’inquietante interrogativo che più di ogni altro ti serrava la gola come un groppo irresolubile, era: «…Ma cosa minchia avrà da metterci dentro, a quel suo supremo manifesto di bruttezza?...».

Che poi…fosse stato solo il borsello. Il borsello non era che l’inizio, motore immobile di una costellazione di orrori vertiginosamente roteanti attorno a quel sole della schifezza a venire. «Homo bursellatus non datur» infatti, se non coi sandali ugualmente in similpelle ed il calzino di rigore bianco, a coprire poco più sopra del malleolo. In alternativa, assai prediletti erano anche i mocassini senza lacci, oppure le scarpette nere con stringhe a spaghetto, sottilmente evocative di una smarrita vocazione nei meandri di un sotto-tonaca da prete spretato. A sublime completamento del reparto inferiore, l’«homo bursellatus» sfoderava uno sfavillante paio di braghette corte, stile Nicola Pietrangeli in finale di Coppa Davis a Melobourne 1961.

L’«homo bursellatus» era normalmente un semi-anzianotto di un’imprecisata mezza età. Più “tre quarti” che “mezza”, via. Il dato anagrafico contribuiva in misura decisiva ad assestare il colpo di grazia al quadro d’insieme: panzetta parabolica, capelli argentei con riporto o semi-riporto, sostenuto da una complessa architettura imbastita con la tecnica delle palettate di brillantina (ai tempi il gel era ancora un prodigio del progresso cosmetico di là da venire). A completare l’affresco: polpaccetto rinsecchito, glabro e lattiginoso (l’«homo bursellatus», durante il giorno, se ne stava rigorosamente sotto l’ombrellone o in pineta a sfogliare il giornale locale, «L’eco della riviera», «La gazzetta scogliosa» o simili, oppure riviste di gossip dell’epoca, come “Divieto di sosta”, “Tango”, “Burinella seimila”, astutamente sottratte alla moglie in gita sul moscone).

Culturalmente, socialmente, professionalmente ed antropologicamente, l’«homo bursellatus» era un tipico prodotto degli anni ’50: in quel decennio aveva dato il meglio delle sue energie umane. Ai tempi del suo imborsellamento, ossia quando lo potei ammirare io, era di certo in pensione. Ma con ogni probabilità aveva trascorso la propria carriera lavorativa in una piccola ditta, come impiegato. Era forse ragioniere, oppure anche senza titolo di studio: entrato da giovane nei ranghi aziendali, aveva imparato il mestiere con una lenta gavetta, guadagnandosi la fiducia del padrone.

Erano i bei tempi del boom economico ai suoi albori, quando la gente tornava a casa la sera dal lavoro col sorriso sulle labbra, canticchiando il proprio motivetto preferito, e l’evasione fiscale veniva ancora fatta a mano, con tant’amore e genuinità. L’«homo bursellatus» aveva solitamente una moglie sul tipo di Lina Volonghi, voce baritonale, affabilità straripante e modi spicci. Aveva anche una figliola molto a modo, sempre al seguito della genitrice. E forse era un mio vezzo bambinesco di infierire fin troppo ingenerosamente, ma io immaginavo che consorte e figliola, nel loro incessante peregrinare in coppia, si chiamassero rispettivamente Goffreda e Giancarla (o in alternativa, Edoarda e Mariapiera).

Mi ha fatto davvero uno strano effetto, dunque, ritrovarmi ancora davanti la rifulgente apparizione di un «homo bursellatus», mentre si aggirava per le strade di città. Per di più un esemplare completo di tutti i crismi borsellari: mocassini, calzettino bianco alla caviglia, braghetta tennistica. Mi pareva di esser salito a bordo di una macchina “del tempo”, forse una 128 coupé dall’asmatico ruggito tricilindrico, mentre dal mangianastri le parole di una nota melodia mi avvolgevano blandamente: «…e allora, io quasi quasi prendo il treno e vado a da’ via al cül…».

O forse non faceva esattamente così…anche se c’è da aggiungere che, per fortuna, ancora oggi come allora, il treno dei desideri sempre all’incontrario va.


martedì 24 settembre 2013

Il gomito del barista


Forse sarà così anche nelle altre nazioni, in contesti culturali diversi dal nostro, ma certe volte si ha l’impressione che in Italia il morbo della “discorsite da bar” si manifesti con una virulenza particolarmente furiosa. Il fatto è che, se non si fa estrema attenzione alle sue insidie, si rischia di ritrovarsi immersi fino al collo nella palude mefitica della “sciatteria colloquiale”, quasi senza rendersene conto.

La “tuttologia irresponsabilizzante” è una sabbia mobile in grado di fagocitare ogni barlume di lucidità. La “discorsite da bar” è come una piovra paziente. Ti lavora ai fianchi e poi ti avvinghia. Chiunque è a rischio di ritrovarsi prima o poi stritolato fra le spire dei suoi possenti tentacoli banalizzatori. Basta abbassare la guardia per un momento, è sufficiente un lieve attimo di debolezza di fronte alle raffiche luogocomuniste di un discorsista da bar professionale, e ci si ritrova a sparare luoghi comuni immondi.

E’ paradossale pensare come l’umanità, dopo essersi arrabattata circa settant’anni con ogni mezzo per liberarsi dal comunismo, sia finita poi per buttarsi a pesce fra le braccia narcotizzanti del luogocomunismo. Il luogo comune è un flagello terribile, e può fiaccare il nerbo di un intero popolo. Nessuno può ritenersi immune, perché anche i più dotati di spirito critico e di capacità di approfondimento, dinnanzi ad un luogocomunista particolarmente agguerrito, finiscono per cedere, seppur momentaneamente, alla risacca del discorso ritrito, e per sfinimento si uniscono al coro, non fosse altro che per levarsi dai piedi quel gran fracassa maroni.

Non va dimenticato, d’altra parte, che uno dei più diffusi errori di chi tenta di difendersi dagli attacchi di un luogocomunista, consiste proprio nel cercare di controbattere i suoi stucchevoli luoghi comuni, con ragionamenti dotati di un minimo di costrutto. Niente di più sbagliato e fatale: il luogocomunista, toccato nel vivo con tentativi di ricondurlo alla ragione, si avvoltola e si contorce ulteriormente nella sua stessa possanza banalizzante. Come King Kong mitragliato dagli aerei sul pennone dell'Empire State Building (versione del 1933), non fa altro che avvinghiarsi ancor di più al suo fatale appiglio, vomitando dalla bocca sequele strazianti di “piuttosto che” utilizzati scorrettamente.

L’unico modo per superare indenni il flagello luogocomunista, consiste nell’adagiarsi nell’humus stesso in cui sguazza quel gran tuttologo della fregnaccia: non bisogna fare resistenza, ma annuire, assecondarlo e, nel caso, assestare anche due buone boiate in tono con l’ovvietà generale del discorso. Il bravo luogocomunista si ammansirà all’istante, beandosi di aver avuto conferma alle sue già incrollabili conferme.

Il problema è serio, insomma. Lo Stato dovrebbe fare qualcosa, prendere provvedimenti drastici. La diffusione del morbo è molto estesa, per cui forse servirebbe una terapia d’urto. Andrebbero istituiti dei “Circoli rionali di sfogo luogocomunista”. Il militante luogocomunista troverebbe in questi siti specializzati tutto il necessario per fiaccare la propria resistenza appiattente e cercare di ritrovare una nuova via al ragionamento individuale non ordinario.

Punta di diamante dei “Circoli rionali di sfogo luogocomunista” potrebbero essere le “Stanze del banalizzo-shock”. I militanti luogocomunisti più gravi verrebbero fatti accomodare su confortevoli poltrone, ad esse legati e costretti a vedersi vecchie edizioni di Studio Aperto e del Tg4 per ore e ore filate (per lo shock de luxe, sarebbero consigliate puntate condotte dall’Emilio Fede dei tempi d’oro in persona). Circa la validità della terapia, confortano numerosi esperimenti già effettuati nei laboratori dell’Anti-Obvious Insitute of Complexity: nei casi di intervento più drastico (es.: edizione del Tg4 speciale elezioni, in cui Fede appuntava bandierine rosse e blu sulla cartina dell’Italia, oppure il meglio del Tg5 diretto da Carlo Rossella), si sono registrate reazioni spropositate da parte dei soggetti trattati, con spasmodico desiderio di dover urgentemente correre a consultare, al termine della terapia, la «Critica della ragion pura» Kantiana, oppure l’opera omnia di Elias Canetti.

I “Circoli rionali di sfogo luogocomunista” sarebbero altresì dotati dell’apposito “Ovviodromo”, un locale dedicato a tavole rotonde, durante le quali ai partecipanti verrebbe concessa piena di libertà di dare il massimo di sé nei discorsi da bar che più “da bar” non si può. A furia di eccelsi fendenti di gran classe, del tipo «...la pena di morte ci vorrebbe, per chi sosta in divieto...», e stoccate magistrali come «...vengono qui per portar via il lavoro agli italiani...», «...tanto i politici son tutti uguali...», «...è tutto un gran magna magna...», i contendenti si fiaccherebbero fieramente a vicenda, uscendo prostrati sino al punto di non voler più sentire una frase scontata per un bel po’ di tempo. L’uso oculato dell’“Ovviodromo” sarebbe indicato soprattutto per chi soffre di forme lievi di luogocomunismo.

Il movimento poi sarebbe anche sostenuto mediaticamente attraverso il prestigioso quotidiano «L’ovvietà». Sulle colonne de «L’ovvietà», troverebbero spazio le più prestigiose firme del mondo del banale, da Alfonso Signorini in giù, con importanti editoriali dei migliori opinionisti del Grande Fratello e Domenica In. Di fondamentale importanza risulterebbe la concomitante attività di organizzazione periodica dei classici «Festival dell’Ovvietà», da svolgersi nel periodo estivo, con il contributo di tanti entusiasti volontari militanti luogocomunisti. Durante i «Festival dell’Ovvietà», verrebbe proposto il meglio della cucina popolare luogocomunista: saltimbocca alla frase scontata, stufata di uditorio, palle di ascoltatore frullate e ammazza originalità ai frutti di bosco.

Basteranno tutti questi fondamentali sforzi strategici per attenuare il clima da “Guerra fessa” scatenato dalla dilagante diffusione nazionale del luogocomunismo in ogni frangia del tessuto sociale? Solo la storia ci potrà dare una risposta, ma nel frattempo, guardatevi bene le spalle: un luogo comune non sembra mai troppo comune, fino a quando non ci si va a sbattere contro. E può rivelarsi più duro del muro di Berlino.

…ho forse detto un luogo comune?
 


martedì 17 settembre 2013

Una giornata siedoboica


Normalmente siamo immersi in un mondo di oggetti e di concetti perlopiù noti. A ciascuna di queste cose ed idee, siamo in grado di attribuire di volta in volta termini ben specifici, in modo da poter costruire discorsi intorno ad esse, servendocene all’occorrenza anche in senso pratico.

Esempio: se dico “il cane ha succhiato l’osso”, chiunque conosca la lingua italiana mi capisce; se mi sento dire: “prendi l’osso e portalo al cane”, so cosa devo fare (sempre ammesso che io abbia voglia di dare l’osso al cane, oppure che il cane gradisca l’osso, ma queste sono sfumature di dettaglio).

Il linguaggio è una delle nostre dimensioni vitali primarie. Esprimerci al meglio della correttezza dei significati e delle forme messi a disposizione dal nostro lessico e dal modo di ragionare comunemente accettato, ci fa sentire fieri di appartenere alla grande tribù degli uomini. A volte però il linguaggio può presentarsi con un leggero retrogusto di costrizione. Pur nel suo essere così variegato e malleabile, ci appare ingessato e legnoso, rispetto alla mancanza di limite dell’afflato creativo percepito interiormente. Ci sentiamo come entità infinite, costrette nel contenitore finito delle parole.

Cosa capiterebbe allora se d’un tratto ci ritrovassimo circondati anche da oggetti e concetti completamente nuovi, per di più denominati con parole altrettanto inaudite (nel senso di “mai udite”), ed il tutto s’andasse a mescolare all’interno del linguaggio noto?

Credo che in primo luogo verrebbe spontaneo attaccarsi all’affettuosità linguistica scaturita dai suoni delle varie sillabe. Successivamente ci renderemmo conto di stare facendo un’immersione in una sorta di “esercizio di libertà”. Un qualcosa di questo tipo:

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Appena alzato dal letto, quella mattina, mi sentivo piuttosto guffrezzato. Una tazza di ruberdiana calda mi ha aiutato non poco a sgobinzolarmi. Mia moglie insisteva perché rinunciassi al redumario in programma per la giornata, nella sede storica della Società Merfodiale di Surrenzio. So già che lei è un tipo leggermente scomperioso ed appunzale, per cui non ci ho fatto caso più di tanto, l’ho rassicurata con due ruzzelletti e mi sono avviato.

Le strade di Surrenzio erano più che mai ingorgate di sprudoi e miscolabiotici scoppiettanti. Come se non bastasse, il mio miscolabiotico faceva le bizze. Nell’officina di rigurberazione degli miscolabiotici, mi avevano avvertito che avrebbero potuto esserci problemi con il funzionamento dello screvolatore di vinza, ma in ogni caso il miscolabiotico non mi avrebbe lasciato a piedi. Per fortuna che i surrenziesi sono dei tipi alla mano. Sfoggiando sempre un luminoso grignardo sulla faccia, son soliti accogliere quel che capita con molta smerigliosezza, sgriggando via sui loro sprudoi appena possibile, oppure attendendo pazientemente finché non si è sbirizzito il muturiale di turno.

Giunsi con un lieve ritardo alla sede della Società Merfodiale. L’importante redumario dei misserbonzi sfirbarevoli era già cominciato. Groffo groffo, mi sono intrufolato nella grande sala gremita di misserbonzi, tutti solennemente agghindati nelle loro freddumelle d’ordinanza. Cercavo di passare inosservato, sfilando esperionevolmente dietro i banchi più lontani, quando: «…Arevorio Bertipiani!...» ho sentito tuonare con veemente guidomanzìa dal palco degli oratori. Oltre ad esser stato sgriminevolmente scoperto, avevo anche appreso di chiamarmi Arevorio Bertipiani.

«…Le sembra questa la biglianza di arrivare? E poi, con quale miniproria si presenta...» proseguì il Berifodario maggiore, altero e svettante dal suo decobievole scranno.

«…Chiedo umilmente miribanza, Sua Sedibosezza, sa com’è, con questi gruffreddori che ci sono in giro...» abbozzai io con malbigievoli parole. «…Va bene! Ora si sieda e ribergizzi con calma tutto il semigiobo della giornata...» mi ha rimbrottato ancora Sua Sedibosezza il Berifodario.

Per fortuna, uno dei pochi posti rimasti liberi era proprio vicino a dove stava già seduto quel miscobiante di Geppignolo Suprimivolzi, un caro vecchio amico, gran chiacchierone e conoscitore di mille sbirbonzi dei bei tempi andati. «…Ciao, Selbimolfo!...» mi ha sussurrato di soppiatto Geppignolo, rendendomi edotto nel contempo del fatto che avevo anche un soprannome. Poi si messo a raccontarmi di tutto, con la sua consueta simpatia, così che del semigiobo della giornata non son riuscito ribergizzare proprio un bel niente. Tanto lo so già che questi redumarii non servono proprio a nulla. Ma sapete com’è, il Berifodario ci tiene…e poi, con tutti questi guffreddori che ci sono in giro…

Rientrando a casa, ho fatto tappa al supermercato “Sviklibobi - Articoli vivi a prezzi vanitobi”. Ho fatto una bella provvista di marferotti, mentre al reparto siobicci ho preso un bel po’ di gamioli, e poi mi sono sbizzarrito al banco dei pechimorzi, dove ho preso un bel mucchio di silibranchi con siube, lepigiolli di Maribiana, scopiamulle, silibrotti e meribadiole.

Il redumario era durato meno del previsto, così mia moglie era ben lieta e rifrendata nel vedermi rincasare presto. L’ho aiutata a cucinare una cenetta con tutti i piatti che ci piacciono di più, quelli che ci fanno proprio limiborsare il perimargio: antipasto di scopiamulle, marferotti al sugo di silibranchi, frittura di lepigiolli, silibrotti e meribadiole gratinati, mousse di gamioli.

Dopo averci bevuto su vari bicchierini di Erermignòn invecchiato 10 anni, ci siamo stessi pirbidamente sul nostro accogliente divanone, con un film alla tv. Su Tele-Escoviale, davano un vecchio melibuorgio in bianco e nero, «Sette gherimoie viola per il gherimoiatore». Ce lo siamo proprio gustato insieme, abbracciati, facendoci anche tante billibonze a vicenda, durante la visione. Eravamo tanto imbelicciati e siprimoffi, che il sopore ci ha colti entrambi sui titoli finali. Ci siamo risvegliati dopo un’oretta, che non sapevo spiegarmi come mai una mia menibolfa era andata a finire dentro al binzimonio di lei, mentre lei mi teneva un gelifronzo fra le bimaie. Abbiamo sorriso della cosa, decidendo che forse era il caso di andare a proseguire la miscovualità sul nostro confortevole restimaio. Il memmibario che è successo poi…non sono cose da relibonzare rimirginevolmente in un piccolo viebifumento come il presente.

Forse si obietterà che una storia così piatta e rimorzale non meritava di essere scritta. E’ vero, una sequela tanto banale di rerifrotti e semaraburfi così insignificanti, probabilmente non si era mai sentita. Ma almeno, chi l’avrà letta si sarà fatto un’idea di cosa vuol dire trascorrere una giornata siedoboica.


mercoledì 4 settembre 2013

Pubblisacralità



L’ultima dimensione del sacro sembra ormai asserragliata entro la tenace frontiera del mondo della pubblicità. Puoi parlare male della Chiesa, delle religioni e dei preti, ma guai se parli male di un prodotto in commercio. Anzi, nelle sedi comunicative più alte, i prodotti commerciali di tutti i generi, al di fuori del loro ambito pubblicitario strettamente recintato, sono divenuti l’oggetto oscuro dell’ineffabilità stessa.

In un articolo giornalistico, in una trasmissione televisiva, in un’intervista ufficiale, se l’eventuale citazione non s’inquadra in un discorso del tutto particolare, nominare il nome di un prodotto commerciale equivale al nominarlo invano. Ci si appella allora alle perifrasi più neutralizzanti, pur di non pronunziare l’indicibile: «…la nota ditta produttrice di…», «…la famosa catena di mobilifici…», tanto per dire, o simili espressioni sostitutive.

Pronunciare il nome per esteso, chiaro e tondo, implicherebbe porsi, in maniera bizzarra e sconveniente, al di fuori delle regole del gioco. Si darebbe adito alla pubblicità gratuita, sommo cortocircuito logico nell’ambito del territorio commerciale stesso. La tv, il giornale, la radio, il sito web, ecc. che ospitano il servizio, l’articolo o l’intervista del caso, saranno infatti a loro volta inseriti in un circuito di ritualità commerciali proprie, da officiarsi unicamente attraverso le modalità di correttezza sacrale e per il tramite di propri sacerdoti di fiducia (ossia i pubblicitari che curano gli spot ufficiali di quella tv, o giornale, o radio, o sito web, ecc.), secondo la dottrina dell’ortodossia lucrativa.

Se queste argomentazioni vi sembrano piuttosto flebili, prendiamo l’esempio di un caso, per così dire, “estremo”: la dimensione narrativa. Si dia un ipotetico scrittore, che per necessità sue romanzesche del tutto lecite e perseguite in buona fede con “spirito artistico”, necessiti di scrivere una storia nel corso della quale si insulta e si denigra pesantemente il tale o il talaltro prodotto commerciale. Non lo potrà fare. Perché, anche se gli autori moderni più all’avanguardia hanno ormai sdoganato ogni genere di oscenità e persino la bestemmia, rendendo di fatto tollerati questi “ex limiti estremi”, nessuno oserà mai invece mettersi contro la potenza dell’apparato sacralizzante che ammanta la dimensione suprema del Mercato.

Come deterrente immediato, ci si metterebbe di mezzo la spiacevolezza insostenibile di una causa legale molto impari, da andare inevitabilmente a sostenere con una controparte troppo forte. Ma più in profondità, entrerebbe in ballo una sorta di sottile contraddizione in termini. Chi scrive, anche l’autore più etereo e meno interessato alle “cose del mondo”, ambisce ad essere letto, ad avere un pubblico. E per essere letto, deve incanalarsi volente o nolente in un percorso commerciale. Come potrebbe dunque, sempre quel medesimo autore, infrangere il tabù stesso sotto la cui egida egli per primo è costretto ad inchinarsi?

Al limite potrà contestare il panorama pubblicitario e la mercificazione generalizzata nel suo insieme, esponendo posizioni anche fortemente critiche. Il che non è certo cosa da poco, benintesi. Ma ingaggiare direttamente battaglia con taluni simboli concreti di quel panorama, difficilmente lo potrà fare. Perché un’ipotetica battaglia di questo genere ha assunto ormai, agli occhi anche dei più visionari, il medesimo sapore dello scorno patito da Don Chisciotte contro i mulini a vento.

Come corollario di queste considerazioni, gli spot pubblicitari, o meglio, la sequela debordante di réclame alla quale siamo sottoposti ormai vita natural durante, si sono mutati nel nuovo modernissimo rituale laico. E dico “laico” solamente per specificazione espositiva. Perché di fatto l’atteggiamento innescato dal fenomeno è di pochissimo dissimile rispetto a quanto accade di fronte alle questioni sacre tradizionalmente intese.

Di fronte al rito sacro, si è chiamati ad accettare l’irrazionale come dato di fede. Il rito sacro, inoltre, si nutre di ripetitività ossessiva, di una instancabile ciclicità di contenuti. Non s’innescano forse meccanismi molto simili anche di fronte alla pubblicità?

Gli spot ci dicono ad esempio che la nostra felicità è legata al possesso di un’automobile e noi, anche se a livello conscio siamo pronti a negarlo decisamente, nel nostro intimo ci crediamo. Le réclame ci costringono al sempiterno inseguimento di quell’inspiegabile sensazione di aver bisogno di sempre nuovi bisogni. Tutto questo con monotona ripetizione, ad ogni piè sospinto nel corso delle nostre giornate.

Ed opporsi suona effettivamente in un certo senso come blasfemo. Perché la sacralità commercial-pubblicitaria ha ormai intriso anche le più intime fibre di ciascuno.
 


lunedì 2 settembre 2013

Italiordor della Terra di Mezzo

 

Mi sto avventurando con molto diletto nei meandri narrativi di una delle più affascinanti storie della letteratura di tutti i tempi: la trilogia del Signore degli Anelli (tradotto dal Gillipixilandese all’italiano: sto leggendo il Signore degli Anelli). Pur rispettandolo “a distanza”, mi ero sempre astenuto dall’affrontare questo libro. E’ una cosa capitata già con altri classiconi. Non è che li ritenga indegni: tutt’altro. Ma uno strano istinto mi suggerisce per lungo tempo di non azzardare il confronto. Poi viene un momento che mi pare essere quello giusto, e allora sento che l’ora della lettura è arrivato. Non sempre ci azzecco, ma il più delle volte è così.

Per dire, ho comprato «Guerra e pace» ed è rimasto a maturare nella mia libreria per quindici anni prima che mi decidessi a leggerlo. Sorte simile è toccata a «Don Chisciotte», «Moby Dick», «Sulla strada», «Cent’anni di solitudine», «L’educazione sentimentale», «Passaggio in India» e vari altri. Tutti libri che in seguito mi hanno regalato grande appagamento culturale.

E lo stesso sta succedendo con il gran librone di Tolkien. Di fatto me lo sto proprio gustando. Ma mai mi sarei aspettato di ritrovare in quelle righe che slalomeggiano alla grande fra avventure di Hobbit, Elfi, Orchi e Nani, un passaggio super-epifanico che sembra esser stato scritto per riassumere in estrema sintesi la situazione sociale e politica italiana degli ultimi decenni.

Sentite un po’ cosa si legge a pagina 308 della mia edizione del libro (Quarta edizione “Bompiani Vintage”, giugno 2013):

«..."E’ necessario che la strada sia percorsa, ma sarà molto difficile. Né la forza né la saggezza ci condurrebbero lontano; questo è un cammino che i deboli possono intraprendere con la medesima speranza dei forti. Eppure tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove”...».

C’è una domanda che mi vado ponendo ormai da diversi anni: come abbia fatto l’Italia, nonostante l’inenarrabile sequela di “disgrazie dirigenziali” attraverso le quali è incappata, diciamo grosso modo dal 1965 in poi (azzardo una data, ma probabilmente si può andare indietro anche di più), a non affondare nelle sue stesse miserie come il più reietto degli Stati europei e mondiali. Una possibile risposta l’ho trovata nelle parole che Tolkien mette in bocca al nobile Elrond, durante il grande consiglio deli Elfi: se l’Italia, tutto sommato, può chiamarsi ancora, con il minimo indispensabile di dignità, “una nazione”, è stato grazie al lavorio anonimo delle «...piccole mani...» spesso spronate «...ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi...» erano inesorabilmente «...rivolti altrove...». E se l’Italia riuscirà a tirarsi fuori da questo ennesimo periodo di sofferenza che sta attraversando, sarà forse ancora una volta per il fatto che i deboli, come sempre, avranno intrapreso il cammino con la medesima speranza dei forti.