Secondo
Ludwig Wittgenstein non è dato
mondo che non passi attraverso il
pensiero. Allo stesso modo, non è dato
pensiero che non passi attraverso il
linguaggio. Come conseguenza inevitabile, le regole del
mondo e quelle del
linguaggio vengono a coincidere.
Ci sarebbe dunque da iniziare ad insospettirsi, e non poco, quando ci si accorge che qualcuno si è messo a manipolare il linguaggio. Se tanto mi dà tanto, si sarà messo nel contempo anche a manipolare il mondo.
Un campanello, che non era quello della ricreazione, bensì d’allarme (anche se sarebbe stato perfettamente in tema), si è messo a suonare qualche tempo fa intorno al mondo della scuola.
Proprio durante il periodo in cui la scuola iniziava a dar segni di voler andare assai volentieri in vacca, i nomi delle “categorie scolastiche” sono magicamente cambiati. Una volta c’erano l’asilo nido, l’asilo “e basta”, le elementari, le medie, le superiori. Erano nomi bei distinti, chiari per tutti. Quando ne citavi uno, si capiva al volo a quale fascia di età ti riferivi. Poi, ad un certo punto, ecco sbucare quelle minchia di diciture uniformanti, anonime ed appiattite: scuola per l’infanzia, primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado, o non so bene nemmeno io.
Copio pari pari, dalla relativa voce di Wikipedia (che immagino sia stata compilata da un qualche burocrate scolastico), il quadro riassuntivo dei periodi in cui sono state suddivise le vecchie elementari e medie:
«...Oggi la scuola primaria, con quella secondaria di primo grado, si compone di cinque periodi didattici:
• un monoennio iniziale, che comprende la 1ª classe della scuola primaria.
• il 1º biennio che comprende la 2ª e la 3ª classe della scuola primaria.
• il 2º biennio che comprende la 4ª e 5ª classe della scuola primaria.
• il 3º biennio che comprende la 1ªe 2ª classe della scuola secondaria di primo grado.
• il periodo didattico finale che comprende la 3ª classe della scuola secondaria di primo grado...».
A parte la ridondante macchinosità del tutto, vorrei mettere in guardia chiunque abbia un bimbo da mandare a scuola di questi tempi: tenete sempre ben presente che state affidando ogni giorno vostro figlio alle mani di gente che usa la parola “monoennio”!!!
Pensateci…secondo me non c’è troppo da stare sereni…
La burocrazia esistenziale, insomma: toglie ogni colore alle parole e alla vita, uccide la lingua prima, e chi ce l’ha in bocca per usarla, poi. Il “politically correct” sarebbe più preciso chiamarlo “politically infected”: il mondo infettato dalla labirintica asfissia del politichese. Intendendo per “politici”, molto in generale, tutta la classe dirigenziale, coloro che hanno possibilità decisionali di un certo livello ed influenza.
Ve lo ricordate il caro e vecchio netturbino, o al limite spazzino? (...e non pretendo la sublimità del dialettale “spasòn”, no, sarebbe chiedere troppo...). E il bidello? Cosa c’era di male a chiamarli così? Non è che se li chiami operatore ecologico e collaboratore scolastico, lasciando il loro stipendio uguale per trent’anni, quelli si mettono a godere come dei ricci filologici.
Sembravano già questi sintomi gravi, ma bisogna constatare che la diffusione del morbo ha ormai toccato gradi di intensità estrema.
La cosa è ben più grave di quanto non sembri. Perché tra l’utilizzo sciatto e la mistificazione, molto spesso il passo è assai breve. Tra i maggiori fomentatori dell’insciattimento della nostra, altrimenti, bellissima lingua, ci sono i giornalisti (di bassa lega) e i politici (di bassa e media lega). Operando in combutta, seppur spesso involontariamente, cambiando piano piano il linguaggio, erodendo lentamente certi suoi aspetti, modificandone la superficie “sonora”, senza intaccarne minimamente la profondità “significante”, ecco come ti sfornano caldo e croccante il “gonzo blandito” (sembra una simpatica ricetta, ma purtroppo ci sono in gioco i cervelli delle persone).
La punta di diamante, l’eccellenza sciattona suprema, si è toccata con il recente balletto dei nomi delle tasse. Forse mai prima era stata percepita una simile deriva linguistica, come da quando hanno cominciato ad imperversare quei nauseabondi “acronimuzzi” micragnosi. Già erano odiosi suoni come ICI e IMU (al confronto, la vecchia IVA è un’attempata signora alla quale ci si sente di portare “quasi” rispetto), ma poi si è abbandonato ogni pudore, dando sfogo al delirio puro, farfugliando su uno «straparlìo» sgangherato dei più «traveggolanti», ed ecco sbocciare tutto un florilegio di orrori: TRISE, TASI, TUC. Si è trattato di un crescendo rossiniano nella gara a concepire la sequenza di lettere più improbabile (derivata, certo, dalla denominazione per esteso), per approdare al gran botto “conclusivo” (ma fino a quando?) che ha partorito la possibile definizione della nuova tassa del futuro: la IUC.
I politicanti del vecchio corso avranno avuto di certo tutte le loro magagne, ed anche grosse, ma perlomeno padroneggiavano la cultura “umanistica” in misura ben più solida rispetto agli attuali. Mai si sarebbero concessi d’incappare nella ridicolaggine di una gaffe disneyana così eclatante. Ma forse è giusto così, alla fine il linguaggio, se lo tratti male, te la fa pagare.
Come ben sa chiunque abbia un minimo di rudimenti topolineschi, «...Yuk!...» è precisamente l’esclamazione preferita da Pippo, quando vuole esprimere i più disparati ed imprecisati sentimenti e stati d’animo. Anche se la fatidica parolina si differenzia nella grafia rispetto al nuovo balzello recentemente battezzato, di fatto suona preciso identico, di modo che l’effetto straniante è garantito. Anzi, forse è pure peggio. Perché d’ora in avanti, quando toccherà sborsare quattrini nel nome di questo novello lacciuolo tributario, parrà di esser chiamati a farlo da gente non solo suonata come Pippo, ma che nemmeno sa scrivere!