domenica 11 maggio 2014

Il sorriso di Carly Simon

Quando si profilano momenti prolungati di aridità narrativa (un po’ come in questo periodo), sento che mi manca molto scrivere. Il punto è che c’è poco da fare. O meglio, si può provare a buttare giù qualche frase così, tanto per tenersi a galla. Ma la vera forma scrittoria, l’inventiva, la freschezza delle parole che sgorgano vivaci dalle dita…beh, tutto quello è ben altra roba.

Ho immaginato di andare a chiedere consiglio a qualcuno. Più precisamente, ai miei beniamini letterari di sempre. Tutti gli scrittori hanno dovuto combattere prima o poi con l'ottusità della pagina bianca. Chi meglio di loro dunque poteva offrirmi qualche suggerimento al proposito? 

In pratica, ho preso in mano a caso alcuni dei miei libri più amati, li ho sfogliati e ci ho guardato dentro per vedere se era possibile rinvenire qualche traccia, qualche frase illuminante. Non sempre le risposte che ho avuto sono risultate coerenti con l'argomento che mi assilla. Anzi, ho trovato più che altro passaggi che non trattano affatto di problemi relativi allo scrivere o all'ispirazione. Non sempre la scrittura è un'operazione coerente. Non ci sono e, per fortuna, non ci possono essere ricette per riempire una pagina bianca in modo degno, ma la letteratura è un universo di riverberi, in cui una parola detta si mette in risonanza con tutte le altre e col senso generale della vita. 

Ecco cosa aveva da dirmi Emily Dickinson, con una sua bella poesia del 1862: 

«...Io vivo nella Possibilità,
Una casa più bella della prosa,
Di finestre più adorna
e più superba nelle sue porte.

Ha stanze simili a cedri
Impenetrabili allo sguardo
E per tetto la volta
Perenne del cielo.

L'allietano visite dolcissime
E la mia vita è questa:
Allargare le esili mani
Per accogliervi il Paradiso...»

Uno dei testi fondamentali della secolare sapienza indiana, la “Bhagavadgītā”, mi ha invece ricordato:

«...Rinunciando mentalmente ad ogni azione, l'anima incarnata, padrona di sé, sta felice nella fortezza delle nove porte senza “agire” né “fare agire”...».

Con un grande sbalzo temporale, mi sono poi ritrovato fra i “roaring twenties” del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald, pronto ad ammonirmi:

«...Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. “Quando ti viene voglia di criticare qualcuno” mi disse “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuti i privilegi che hai avuto tu”...».

Ancora scartabellando fra gli scaffali della libreria, mi è capitato in mano “L'idiota” di Dostoevskij. Anche lui aveva una cosa importante da rimarcare:

«...Il difetto di originalità dappertutto, nel mondo intero, e da tempo immemorabile, fu sempre considerato come il primo requisito e la miglior raccomandazione dell'uomo attivo, fattivo, pratico...[...]... Gli inventori e i geni, quasi sempre, all'inizio della loro carriera (e molto spesso anche alla fine), non furono tenuti dalla società se non in conto di sciocchi...»

Dentro a “Il profumo” di Patrick Süskind (1985), ho rispolverato questa perla mai dimenticata:

«...si sa di uomini che cercano la solitudine: penitenti, falliti, santi o profeti. Si ritirano di preferenza nel deserto, dove vivono di locuste e di miele selvatico...[...]... Lo fanno per essere più vicini a Dio. Si mortificano con l'isolamento, e se ne servono per far penitenza...[...]... Nulla di tutto questo valeva per Grenouille. Dio non gli passava neanche per la testa. Non faceva penitenza e non si aspettava illuminazioni dall'alto. Si era isolato dagli uomini soltanto per il proprio particolare piacere, soltanto per essere vicino a se stesso. Era immerso nella propria esistenza, non più distratta da altre cose, e lo trovava splendido. Giaceva nella tomba di roccia come il cadavere di se stesso, respirando appena, quel tanto per far battere il suo cuore...e tuttavia viveva in modo così intenso e sfrenato, come mai un uomo di mondo aveva vissuto nel mondo...».

E proprio sulle difficoltà dello scrivere, ancora, un bel brano di Osvaldo Soriano, intitolato proprio “Paura di scrittore”, spulciato fuori dai suoi “Racconti degli anni felici – 1974-1996”:

«...Tu che ora ti trovi in difficoltà, ricordi la calma tesa di Calvino...[...]...in Rapidità (una delle “Lezioni americane”), egli definisce il racconto...[...]: “La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità di cui si parla è una velocità mentale. I difetti del narratore maldestro enumerati da Boccaccio sono soprattutto offese al ritmo; oltre a difetti di stile, perché non usa le espressioni appropriate ai personaggi e alle azioni, cioè a ben vedere, anche nella proprietà stilistica si tratta di prontezza di adattamento, agilità dell'espressione e del pensiero”. Ora siediti a scrivere. Insisti, finché il cavallo non avrà preso un trotto regolare e armonioso. Dopo viene il galoppo...».

Ma il suggerimento più bello, è stato l'ultimo scovato. L'ho rinvenuto su di un bellissimo libro di Kurt Vonnegut, “Ghiaccio-nove”(1963). Suona esattamente così:

«...Uno dei tanti beoni
Addormentati nel parco
E un cacciator di leoni
Nella giungla al varco
E un dentista cinese
E una regina inglese -
Tutti quanti incastrati
Nel medesimo arnese
Bello, bello, molto bello
Bello, bello, molto bello -
Tanta gente differente
Nel medesimo orpello...».

Perché i libri sanno sempre raccontarti le cose giuste, ti parlano di quello che vuoi, nel momento opportuno. I libri si presentano felicemente inattesi, come il sorriso di Carly Simon.

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