venerdì 20 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: l’arte Moghul (1526-1707)

Puntata un po’ particolare oggi della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Il tema proposto da Kika per inseguire le proprie fascinazioni di moda, è infatti alquanto misterioso. Si tratta di una stampa risalente con ogni probabilità all’epoca dell’impero islamico-indiano Moghul (1526-1707), o perlomeno è nello stile di quel periodo attraversato dalla lunga civiltà indiana che va inquadrata. Vista la “rarefazione” dell'argomento, per non rischiare di dire inesattezze madornali, evito di avventurarmi in analisi critiche o storiche di dettaglio, e per un inquadramento di massima dell'epoca di cui stiamo parlando, vi rimando alla relativa voce di wikipedia (dalla quale ho tratto anche i termini temporali indicativi del periodo di maggior splendore di questo regno).

Per quel che riguarda la stampa in questione, voglio fare invece una breve considerazione, più connessa alla “storia della rappresentazione”. Osservando l'immagine dal nostro punto di vista “occidentale”, possiamo notare un aspetto, per così dire, visivamente anomalo. I personaggi, e anche tutto il contesto del paesaggio, non sono calati nello spazio con il tipo di distribuzione prospettica che più ci è familiare (se si eccettua l'arte moderna, ma qui il discorso si complicherebbe a dismisura). I vari elementi della scena rappresentata seguono invece una sorta di “gradiente spaziale” proprio, di volta in volta “contrattato” con l'osservatore. 

Cerco di spiegarmi meglio con alcuni esempi. Gli occhi dei due personaggi seguono il profilo generale dei volti, ma le dimensioni ricalcano piuttosto quelle di uno sguardo frontale, fatto questo accentuato ancor più dalla notevole lunghezza del sopracciglio. Questa particolare commistione tra profilo e frontalità, si ripropone anche nei due corpi, quasi appiattiti (e ad ogni modo “innaturali” nella postura), per seguire una loro “logica” di eleganza a se stante, e in maniera particolarmente evidente nel piede della ragazza, in parte visto di profilo, ma che, per la porzione che concerne le dita oltre l'alluce, sembra sottostare a tutt'altro ordine spaziale. Simili annotazioni si possono fare guardando le foglie della vegetazione che fa da contorno all'idillio dei due giovani, che sembrano disposte come se dovessero essere “enumerate” e non descritte con le modalità dirette di un osservatore immerso in questo tipo di scena.

Tutto questo per dire forse che gli artisti indiani elaboravano le loro rappresentazioni a partire da una minore perizia tecnica e compositiva? Assolutamente no. La distinzione non è infatti di carattere tecnico, ma riguarda l'approccio concettuale alla scena. Generalizzando e semplificando molto (e tenendo conto che le schematizzazioni sono pur sempre insufficienti a spiegare), possiamo vedere tutta la vicenda della storia dell'arte come un'oscillazione fra due poli: da una parte, c'è “un'arte” che tende a rappresentare della realtà ciò che “si vede” (espressione massima di questo tipo di “oggettualità” si è avuta con la prospettiva rinascimentale); dall'altra, si pone “un'arte” che tende a rendere la realtà facendo prevalere quanto di essa “si sa” (questo tipo di visione artistica del mondo, è stato privilegiato ad esempio dall'arte medievale; una sintesi somma fra le due, si è avuta invece col classicismo greco, con la sua idealizzazione suprema delle forme reali). 

Con tutte le magagne di questa classificazione, possiamo dunque far rientrare la nostra odierna immagine indiana proprio nel secondo gruppo. In questa immagine conta più ciò che si sa, o forse ciò che “si sente”, di ciò che si vede. Nello specifico dell'immensa cultura indiana, il discorso si farebbe oceanico, e soprattutto molto periglioso per un inesperto del tema, quale io sono. 

Mi limito dunque a citare  alcune frasi da un bel libro intitolato “Passioni d'Oriente – Eros ed emozioni in India e Tibet” (a cura di Giuliano Boccali e Raffaele Torella – Einaudi – 2007). In particolare, gli stralci sono presi da un saggio (contenuto nel testo citato) di David Smith, “La rappresentazione delle emozioni nella scultura indiana - Il corpo, lo spirito”, che pur riferendosi ad un'epoca molto precedente, possono fornire alcuni elementi in più riguardo alle particolarità dell'estetica indiana tradizionale: 

«...Il testo chiave su pittura e scultura, di tarda epoca Gupta, cioè la terza sezione del Visriudharmottara-purana (circa 600 d. C.), è raccontato al mitico re Vajra, archetipo del dotto mecenate. Il Visnudharmottara-purana inizia la sua dissertazione su pittura e scultura affermando che la danza è alla base di queste due forme d'arte e che la musica è alla base della danza. In seguito il testo spiega che la teoria letteraria dell'esperienza estetica (rasa), che facilmente si addice a danza e musica, si applica anche alle arti visive. La teoria dei rasa sostiene che la rappresentazione delle emozioni sul palcoscenico e in poesia conduca i fruitori ad assaporare l'emozione (rasa) con raffinata consapevolezza. Joanna Williams ha prudentemente accennato al fatto che nelle arti visive di epoca post-Gupta si fa riferimento sempre di più a questa teoria..[...]...Il principale problema nell'occuparsi di estetica indiana, tuttavia, è il fatto che la predilezione indiana per l'astrazione sembra remare contro la possibilità di trovare dettagliati esempi pratici di quanto elaborato in sede teorica...[...]...In ogni modo, un gradito tentativo di presentare in modo dettagliato i rasa fu intrapreso da B. N. Goswamy con la mostra che egli curò per il Festival dell'India nel 1986, raggruppando sculture e dipinti sotto i titoli dei nove diversi rasa...[...]...Goswamy appropriatamente avverte della difficoltà del progetto: Dal momento che le associazioni di pensiero sono diverse e che le rifrazioni dei significati non possono essere catturate con la stessa ricchezza in un differente contesto culturale, alcuni spettatori, sia in India sia altrove, potrebbero essere inclini a vedere certune opere come, probabilmente, connesse a un rasa diverso da quello con cui sono state qui messe in relazione. Tali divergenze o preferenze non sono inattese poiché, come dicono i testi, noi tutti importiamo nelle opere d'arte le nostre associazioni mentali, le “impressioni dovute all'esistenza precedente” e le nostre energie...».

Raffinata consapevolezza dell'emozione (Rasa), sensualità, spiritualismo, rifrazione di significati, pittura e scultura investite dell'essenza di danza e musica, energie, associazioni mentali, impressioni di vite precedenti: l'universo artistico-culturale indiano è veramente troppo sconfinato per esser tratteggiato in poche righe da un umile detective fisiognomico, che passa dunque ad occuparsi dell'indagine che più gli compete, nella speranza di aver fornito anche stavolta alcuni elementi utili per approfondire l'argomento.

La particolarità dei visi dei protagonisti di questa stampa indiana, mi ha dato agio di fare una ricerca piuttosto divertente. Mi sono sbizzarrito in piena libertà fisiognomica e ne sono scaturiti tre volti femminili dei giorni nostri, con un buffo corollario per quello maschile.

Ecco il primo esito femminile a cui è giunta la mia indagine:

Settiman-enigmisticheggiando, se non l'avete riconosciuta, ve lo dico io: è la più piccola delle sorelle Goggi, Daniela, che personalmente associo sempre al fanciullesco motivetto che si apriva coi memorabili versi: “...a Zigo-Zago c'era un mago con la faccia blu...”.

Proseguendo con le elucubrazioni fisiognomiche, sono approdato sui lidi della comicità:

Questa è Caterina Guzzanti, sorella di Sabina e Corrado, interprete di tanti divertenti personaggi di satira social-politica e di costume

Lasciando poi andare la barca fin che va, sono incappato in questo altro volto famosissimo:

E qui, che cosa ve lo dico a fare...altri non è che l'Oriettona Berti di “Io, tu e le rose” e tantissimi altri successi extra-nazional-popolari.

Chiudiamo poi col botto, con un'ipotesi stranissima, riguardante il personaggio maschile:

Avreste mai immaginato di andare a scovare in un dipinto indiano, niente meno che il volto del ruspante “bocconiano” di “Drive in”, Sergio Vastano? Beh, adesso potrete dire che vi è capitata pure questa...

Ed ora, tutti insieme sul blog di Kika, per scoprire quali fantasmagorie di moda ci ha riservato oggi, prendendo le mosse dalla misteriosa cultura indiana. Prima però, avete anche facoltà di rinnovare il johnny-stecchiniano grido di battaglia tradizionalmente utilizzato per criticare le mie proposte fisiognomiche. Parafrasando il personaggio odierno, il bocconiano sprezzante del minimo dei voti da istoriare sul libretto universitario (“...Digiotto? LO REFIUTO!!!...”), potete similmente all'unisono rinfacciarmi: “...Queste somiglianze? LE REFIUTO!!!...”.

2 commenti:

Kika ha detto...

E bravo Gilli, anche stavolta sei riuscito a tirar fuori una serie di cose interessanti dal cappello dell'arte, anche la più lontana dai nostri lidi! Il libro che hai citato è davvero prezioso per capire come interpretare lo stile e il soggetto amoroso di quest'opera. E' quel genere di arte che da noi occidentali potrebbe essere definita "naif", ma che nascendo in una cultura completamente diversa va valutata in altro modo. Non che l'arte naif nostrana non si apprezzabile, anzi, a me piace e credo che di fondo ci sia proprio questo modo puro, emozionale, non incanalato in sovrastrutture, di approcciarsi alla visione del mondo - e alla sua rappresentazione. Non a caso molti pittori occidentali creatori di correnti tra fine '800 e '900 si sono ispirati alla libertà formale di culture esotiche (Africa, Oriente,...), portando nell'arte una seconda rivoluzione dopo quella che era stata a suo tempo l'introduzione della prospettiva.

Venendo alle somiglianze fisiognomiche, anche stavolta sei stato un ottimo ricercatore :)
Io per la donna non ero riuscita a pensare nulla, mentre l'uomo mi ha subito dato un'idea... che però non è quella del tipo di Drive In, ma cavoli è proprio vero! Nella seconda foto ha un'espressione che lo rende uguale!! :))
Sai a chi avevo pensato io invece?
Al "nostro amico" Max Gazzè!

Gillipixel ha detto...

@->Kika: grazie, Kika :-) diciamo che stavolta il sottotitolo del blog ("...dell'arte del forzar concetti...") l'ho onorato abbastanza bene :-) sono andato a recuperare questo bel libro che avevo sul comodino :-) forze il nesso che ho voluto cercare è alquanto ardito, i veri esperti dell'argomento potrebbero storcere il naso di brutto :-) le due epoche che raffronto sono molto distanti, ma ho voluto rischiare ugualmente il ragionamento...tutt'al più, avrò detto qualche fre...fresca imprecisione :-)

E' vero, solo l'arte moderna poi ci ha invitato ad aprire gli orizzonti culturali, ad accogliere influenze da altre civiltà...per ritrovare una figura umana di profilo, con l'occhio frontale, abbiamo dovuto aspettare il cubismo :-)

E' vero!!! Max Gazzè :-) Non ci avevo pensato, è somigliantissimo, giusto, Kika :-) Per le sosia femminili, va beh, io ci ho provato, come al solito :-)

Ciao Kika, alle prossime avventure artistiche incrociate :-)

Bacini dal cappello dell'arte :-)