Oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” si occupa di un poco noto omonimo di altro personaggio illustre.
Kika ha scelto infatti per l’occasione un delizioso dipinto intitolato “Le bolle di sapone”, realizzato da Charles Chaplin (Les Andelys, 1825 – Parigi, 1891). Come si potrà dedurre con facilità, questo artista non ha niente a che fare col celeberrimo Charlot, col quale condivide soltanto il nome e, pur essendo nato e vissuto in Francia, anche le origini inglesi.
Riguardo a Charles Chaplin pittore, di per sé, non ci sarebbe moltissimo da dire. E' senz'altro uno di quegli autori che si pongono nel flusso della tradizione, tanto che ancora in pieno Ottocento, la sua espressività si rifaceva agli stilemi propri del periodo rococò, con riferimento in particolare alle delicatezze tecniche di autori quali
Jean-Baptiste Chardin (1699-1779) e
Jean-Étienne Liotard (1702-1789).
Mi piacerebbe allora affrontare un discorso che, pur prendendo le mosse dall'opera di Charles Chaplin, spazia poi verso orizzonti un po' più generali. L'arte, fra gli strumenti culturali, è quello che per eccellenza invita a porsi delle domande, siano esse dirette, o “trasversali” rispetto alle tematiche evocate di volta in volta dalle varie opere. Nel caso di Charles Chaplin, partiamo dalla definizione di “art pompier”, che spesso viene tirata in ballo per pittori del suo genere.
Curiosa la storia di questo termine, non molto lusinghiero a dire la verità, riferito «...originariamente ai pittori e agli scultori neoclassici francesi, per allusione agli elmi con cui solevano rappresentare i personaggi del mondo classico, paragonati scherzosamente ai caschi dei pompieri. In seguito è passato a indicare in senso lato gli ammessi ai Salons, in contrapposizione agli “indipendenti” ai “ribelli”, e dunque l'arte ufficiale e accademica della seconda metà del sec. XIX contro l'avanguardia rappresentata dagli impressionisti, la pittura di storia, convenzionale e solenne, contro l'innovazione e la sperimentazione. I pompier prediligevano [...] la piacevolezza delle immagini, la precisione dei dettagli, l'esecuzione accurata, elementi che insieme alla celebrazione dei valori collettivi condivisi […] o l'ossequio a mode imperanti come l'esotismo, assicuravano loro il consenso del pubblico, della critica, dei collezionisti e delle istituzioni...» (“L'Universale – La Grande Enciclopedia Tematica” - Vol. 9 “Arte” - Rizzoli, 2003).
Vista questa importante premessa, vengo alla riflessione indiretta che mi è stata suggerita dai quadri dell'autore di oggi. Ogni volta che Kika sceglie uno di questi artisti poco famosi e poi passo in rassegna velocemente le sue opere per farmi un'idea, mi viene sempre da pensare: «...Però...sarà anche un artista minore, ma non è male...non mi dispiacciono proprio i suoi quadri...». Non solo: quando un paio di puntate fa ho provato a fare un “parallelo cronologico” fra alcune opere del semi-sconosciuto Jules-Joseph Lefebvre (1836-1912) e altre del celeberrimo Paul Cézanne (1839-1906), le mie considerazioni si sono “aggravate”. Al primissimo impatto, avrei senza dubbio ammesso di gradire molto di più i dipinti di Lefebvre.
Cosa c'è che non funziona, dunque? Dove sta il nodo critico di tutto il discorso? A mio avviso, il punto cruciale risiede proprio nell'indole “pompieresca” che questi cosiddetti artisti minori (se non tutti, perlomeno molti di quelli visti) presentano come loro fattore comune. Propensione che si può riassumere bene nel loro comune tratto della ricerca del “consenso”. Qui si nasconde il loro apparente punto di forza, che ce li fa apparire subito “graditi al palato”. Se davanti agli occhi mi viene messa una levigata fanciulla tutta spumeggiante nel suo serico incarnato, atteggiata ad indulgere fra le mollezze di un suggerito interludio erotico (con pecoreccia malizia, vien quasi da domandarsi: in quale nido preferirà posarsi l'uccellino?), è chiaro che non avrò dubbi nel preferirla, ad un primo impatto, allo spigoloso e corpacciuto bagnante proposto da Cézanne.
"Ragazza con un nido" (1889) - Charles Chaplin
"Bagnante" (1885) - Paul Cézanne
Dove sta allora il problema? Perché non dovremmo gustarci in santa pace le donnine di Chaplin, dichiarandoci appagati dall'innegabile trastullo per gli occhi che ci concedono?
"Dopo il ballo in maschera" - Charles Chaplin
"Fantasticherie" - Charles Chaplin
"Dopo il ballo" - Charles Chaplin
Queste domande mi hanno fatto tornare alla mente un classico dell'indagine “socio-estetica”, da me già altre volte citato. Mi riferisco al bellissimo testo “Apocalittici e integrati” (1964) di Umberto Eco. Fra gli ultimi paragrafi del libro, ce n'è uno in particolare che s'intitola “Strategia del desiderio”. Con una leggera forzatura del discorso (tenendo conto soprattutto delle diversità fra le epoche), m'è parso di cogliere in questo capitoletto del libro di Eco, alcuni interessanti paralleli con l'opera del nostro artista odierno e di tutti i “pompieri” in generale.
“Strategia del desiderio” è il titolo di un testo scritto nel 1963 da Ernest Dichter, che Eco prende appunto in esame nel suo scritto. Dichter è stato uno dei precursori dello studio del moderno concetto di marketing, fondatore nel 1946, a Croton-on-Hudson (New York), dell'Istituto per le Ricerche Motivazionali. Gli studi di Dichter posero l'attenzione sull'innegabilità di tanti fenomeni psicologici divenuti in seguito a tutti assai familiari per l'evidenza pervasiva con cui li cogliamo ormai nella vita quotidiana planetaria. L'uomo è senza dubbio un “essere desiderante” e Dichter fu tra i primi a comprendere come il desiderio umano possa essere gestito e guidato sulla base di una serie di regole e strumenti, deducibili in pratica con precisione scientifica dall'attività sperimentale.
Sembrerebbe tutto bello, tutto lineare, come nei dipinti di Chaplin. Ma Umberto Eco ci mette in guardia riguardo ad alcune “sfumature” del discorso: «...la ricerca motivazionale è uno strumento, e come tale è neutro, tutto dipende da come lo si usa...[Dichter]...ha applicato la sua strategia del desiderio alla vendita di dentifrici, alle campagne per l'igiene, al miglioramento delle relazioni tra le razze e allo smussamento delle tensioni tra padronato e sindacati. [...] la sua decisione sarebbe giustificabile sul piano più freddamente realistico (ciascuno fa il suo mestiere), se Dichter non tendesse invece a elaborare, da tutto ciò, una filosofia. Una filosofia semplice e ottimista: la vita è tensione, mutamento, acquisizione di nuove possibilità di benessere psicologico e materiale. Dunque occorre stimolare e dirigere i desideri dei nostri simili per portarli a realizzare ciò che inconsciamente desiderano. Dice Dichter: se l'acquistare una nuova automobile, anche se quella vecchia funziona ancora, arricchisce la mia esperienza, serve ad affermare la mia personalità, aumenta la mia dose di felicità, perché non devo farlo? E perché non deve esserci qualcuno che mi spinge a farlo? Il ragionamento è impeccabile...[...] Ma ora chiedete a Dichter di specificare un po' meglio cosa intenda per esperienze “buone” e “positive”, quale senso concreto dia al termine “felicità”, in altre parole quali fini precisi egli ponga a quella sua visione dello sviluppo continuo; poiché se questi fini non sono chiari, non vi sarà neppure la possibilità di distinguere una esperienza buona da un'altra esperienza buona, e dire quale sia la migliore; e il bere caffè invece di tè, l'acquistare una saponetta piuttosto che un'altra avranno lo stesso senso che amare, piuttosto che odiare, i portoricani, e viceversa. Ora, salvo un generico liberalismo e un egualitarismo alquanto formale, Dichter rivela a questo punto la sua carenza ideologica. E in sintesi, lascia capire che gli mancano due qualità, purtroppo fondamentali: la capacità di giudicare in termini storico-economici i fenomeni su cui indaga e la capacità di mettere in discussione le premesse di tutto il suo discorso...».
Conclude Umberto Eco, con toni un po' sessantotteschi, ma che fanno riflettere molto ancora oggi: «...Nella misura in cui i mezzi di produzione non mi appartengono, ed io ne sono o l'oggetto o lo strumento di persuasione - e nella misura in cui non sottopongo questo rapporto a una critica costante - sarà sempre il potere a persuadere me, non io a persuadere il potere. Così le strutture, entro le quali funziona la strategia del desiderio, le tolgono la qualifica di tecnica neutrale usata per la felicità di tutti. È uno strumento di potere. E poiché le pagine di Dichter non sono state sfiorate da questo sospetto, il suo libro diventa una sorta di utopia negativa, la descrizione di un agghiacciante paesaggio industriale abitato da automi felici e irresponsabili. Davvero un libro che non ci lascerà dormire...».
Possono sembrare discorsi ormai offuscati dalla pesante nebbia di un'obsolescenza ideologica “d'antan”, ma a mio avviso non è così. Se questi concetti ci appaiono per caso superati, è proprio perché l'assuefazione causata da tutti gli aspetti denunciati da Eco ha ormai preso il sopravvento nel sentire diffuso. Un solo, semplice, ma evidentissimo esempio, credo riesca a porre in fulminea ed immediata comunicazione tra di loro, una serie di idee suggerite in “negativo” dal nostro autore odierno, e gli aspetti sottolineati dalle parole di Eco. Pensiamo alle televisioni commerciali, che è poi come dire, visto l'andazzo ormai generalizzato, praticamente tutto il modo attuale di fare tv (con qualche risicato lembo superstite di comunicazione ancora intesa come servizio pubblico). Cosa deve prevalere come motore trainante di queste tv per forza di cose, per la natura interna stessa dell'impresa a cui danno vita? La persuasione, la cattura del consenso. I “messaggi” trasmessi devono essere trattati alla stregua di merci da far desiderare, con buona pace del giudizio critico o di eventuali intenti formativi di carattere culturale, estetico e così via.
Ma il ragionamento si farebbe troppo lungo (e già lo è stato a sufficienza). Mi accontento di aver seminato qui e là qualche spunto, sperando di non aver fatto a mia volta troppa confusione.
Per quel che riguarda invece la mia odierna indagine fisiognomica, sono riuscito a rintracciare due volti plausibili da abbinare alla leggiadra soffiatrice di bolle chapliniana. Uno di questi volti l'ho già utilizzato in un'altra occasione. Chiedo venia per la ripetizione, ma mi sembrava che cadesse a puntino anche per il presente caso.
Ecco la prima soffiatrice di bolle rivisitata ai giorni nostri:
Si tratta di una simpatica attrice nostrana, Cecilia Dazzi, protagonista di alcune commedie e di diverse serie televisive (la ricordo ad esempio in una puntata del poliziesco cult “L'ispettore Coliandro”).
Questo è invece il volto già sfruttato un'altra volta. Anche se siamo ancora lontani dal Natale, lo riciclo un po' alla maniera di un regalo:
E' ancora una volta l'affascinante volto dell'attrice statunitense Mary Louise Parker, fra le protagoniste del film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991).
E anche per oggi è tutto, cari amici viandanti per pensieri.
Ora la parola passa a Kika e alle sue magie modiaole: vediamo come ha saputo riabbigliare la signorina delle bolle, con il suo classico e inconfondibile tocco kikesco.