giovedì 28 agosto 2014

Zefiro al quoto

Chiunque nutra passione per i rami “cosiddetti” inutili dell’albero della conoscenza (arte e filosofia in primis), sarà di certo incappato prima o poi nel classico amico scassamin…ehm…realista duro e puro. Questo tipo di caro conoscente è senza dubbio una buona persona. Ma quando provate ad esporgli il vostro entusiasmo riguardo alla bellezza di una qualche teoria  assai pindarica nella sua vertiginosa volatilità, con precisione svizzera non mancherà di propinarvi la sua classica obiezione di rito: «...Sì, tutto molto bello, ma a cosa serve?...».

Confesso che di fronte a questa osservazione, pure io che sono uno fra i massimi cultori dell'inutile, mi sono trovato varie volte spiazzato. Hai voglia a tirare in ballo la suprema superfluità della musica, l'inservibile pienezza di un bel pomeriggio trascorso a far nulla, l'inattingibile senso del sapore dei baci. Niente da fare: l'imperterrito utilitarista cocciuto parerà ogni vostro affondo, ribattendo con contro-stoccate a suon di PIL, mercato del lavoro, costo della vita, il tempo è denaro, e così via utilitaristicheggiando.

Esiste tuttavia un argomento che potrebbe sbaragliare anche il pragmatista più incallito. Si tratta di un concetto che per sua natura tende ad esprimere l'inesistenza stessa, e come tale, in teoria, dovrebbe comunicare l'inservibilità al massimo grado. Ma non è così. Questo concetto ha cambiato la storia dell'umanità e si può dire che abbia traghettato quest'ultima verso l'epoca moderna. Mi riferisco all'idea dello “zero”. Sì, proprio lui, l'ineffabile “numero-non-numero” che siamo soliti indicare con un circoletto panciuto e un po' bislungo.

Non si potrebbe forse immaginare qualcosa di meno pratico dello zero, eppure l'acquisizione del concetto di “zero” ha rappresentato una delle rivoluzioni culturali più affascinanti e significative. Senza lo zero non avremmo la matematica moderna, e di conseguenza nemmeno la scienza e tutti i suoi “sottoinsiemi”, come l'ingegneria, l'elettronica, la statistica, l'informatica, ecc.

Non è mia intenzione scrivere qui la storia dell'invenzione dello zero. Ci sono già tanti interventi più documentati del mio reperibili sul web (segnalo queste interessantissime pagine). In breve, dico solo che il concetto lo dobbiamo alla sapienza degli antichi indiani (e sembra che ci fossero arrivati in autonomia anche i Maya). Il primo matematico a codificarlo in un testo ufficiale, nel 540 d.C., fu l'indiano Brahmagupta. Attraverso gli scambi commerciali lungo la Via della seta, pian piano lo “zero” filtrò verso ovest, facendo tappa a Baghdad intorno all'anno 800. Gli arabi svilupparono lo zero in misura decisiva, con tutte le sue potenzialità innovatrici (tanto che oggi, per indicare il tipo di numerazione usata da noi tutti, non a caso ci si riferisce ai “numeri arabi”, anche se a rigore si dovrebbero chiamare “indiani”). L'opera di intermediazione intellettuale che stabilì i primi contatti fra la cultura occidentale e l'inaudito concetto di zero, si deve infine ad un matematico italiano del 1200, Leonardo Fibonacci, figlio di un mercante pisano di tessuti in costante contatto con i porti arabi del nord Africa.

Quello che mi interessa di più, è fare alcune considerazioni di meraviglia riguardo alle implicazioni fascinose dello zero. Lo zero, al pari del nulla, suo presupposto ontologico di fondo, dal punto di vista concettuale è del tutto inafferrabile. Ciascuno può provare, facendo con comodo mente locale: nemmeno se provate a cogliere l'essenza dello zero “smeningiandovi” fino a cappotarvi sulla seggiola, riuscirete a portare a termine le vostre elucubrazioni con qualcosa di più che un pugno di mosche nella mente. Lo zero ci conduce nei territori della “in-concettualità” medesima, del “non-pensabile” in persona. Il vuoto di cui lo zero è portavoce non ha senso alcuno, perché se avesse senso, sarebbe un “qualcosa” invece di un “niente”.

Lo zero è anche strettamente apparentato col concetto di punto geometrico. Per definizione, il punto è l'indicazione di una “posizione incorporea”. Il punto non ha estensione, eppure riesce a darci l'informazione riguardo ad una certa collocazione particolarissima, su tutte le infinite altre possibili nel piano bidimensionale o lungo una retta. Lo zero insomma, come il punto, “è un qualcosa che non è”. Nel meraviglioso capolavoro di Thomas Mann, “La montagna incantata”, simili vagabondaggi per pensieri vengono portati al limite estremo del paragone fra il punto e l'attimo temporale. Così come la retta geometrica, anche lo scorrere del tempo è il frutto della sommatoria di una serie infinita di elementi nulli, ossia gli inconsistenti attimi singoli della cronologia esistenziale di ciascuno. Provate infatti ad afferrare, a fermare un attimo: l'esito sarà identico a quello sortito nel tentativo di cogliere un punto, oppure lo zero stesso. Lo «zero», il «punto» e l'«adesso» sono e non sono nel medesimo tempo. Nell'atto stesso di pensarli, vi sono già sfuggiti.

“Zero” deriva  dalla parola araba “sifr” (poi passata ad indicare in generale ogni numero, col nostro termine “cifra”): significa “vuoto” e pare che i latini, per una suggestiva assonanza, denominassero per un po' di tempo lo “zero” col termine “zefiro”. Non c'entrava nulla, ma è un peccato che si sia persa questa sfumatura: lo “zero”, con la sua leggerezza e fuggevolezza impalpabili, contenuto nel nome di uno dei venti più evocativi, Zefiro, brezza che soffia da ponente, nella mitologia greca figlio di Eolo e di Aurora.

Lo zero è uno spericolato surfista che cavalca la cresta dell'onda, mantenendosi sempre sul filo dell'ineffabile ciuffo di spuma suddiviso con equanime incertezza fra il regno luminoso dei numeri positivi e quello chiaroscuro dei negativi. Non si sa se sta coi più o coi meno, è l'eterno indeciso mai presente. Lo zero è ideale al massimo, eppure ha voce in capitolo in cose praticissime come i calcoli. Sommato ad un vero numero, si fa beffe di lui, piantandolo in asso nel pieno scombussolamento dell'immutato (3 + 0 = 3). Sottratto, dà sempre lo stesso risultato, ma volendo con un sapore ancor più beffardo, vista l'inutilità forse ulteriore dell'operazione (3 - 0 = 3). Moltiplicato, si trasforma in scherzoso illusionista, in grado di far sparire la sostanza stessa assorbendola nella sua medesima nullità (3 x 0 = 0). Ma è nei panni di divisore che compie la sua magia più grande, andando a tirare in ballo uno dei suoi compagni di gioco più fantasiosi, ossia il concetto di infinito (3 / 0 = ∞).

Più si pensa allo zero, insomma, più ne saltano fuori delle belle. In teoria, non c'è forse nulla di più inutile. Ma basta pensare ai Romani, il popolo più concreto e pratico che sia esistito:  senza di “lui”per fare una moltiplicazione con numeri un po' lunghi, ma che oggi non spaventano nemmeno un bambino di quarta elementare, avevano bisogno delle dita di una legione intera di nerboruti omaccioni corazzati.

La prossima volta dunque che un caro amico affetto da utilitarismo benigno, di fronte ad un vostro trasporto di estatica inutilità, vi riproporrà la sua classica obiezione «...Sì, tutto molto bello, ma a cosa serve?...», potrete rispondergli così: «...Ssshhht...calma, calma...va tutto bene, non è successo niente...torna pure a fare i tuoi conticini con l'abaco...».


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