C’è un importante filosofo americano del ‘900, del quale non avevo mai sentito parlare. Questa non sarebbe una gran notizia, perché i margini d’ignoranza sui quali posso fare affidamento sono spesso assai ampi e variegati. Quel che fa più specie tuttavia, è che in generale, escludendo la cerchia degli addetti ai lavori, si conosce troppo poco di questo pensatore, a dispetto dell’importanza delle sue idee. Sto parlando di John Rawls (Baltimora, 1921 – Lexington, 2002).
La ricerca di Rawls si è sviluppata in particolare nell’ambito della filosofia morale e politica. La sua opera più famosa, pubblicata nel 1971, s’intitola “Una teoria della giustizia”. Mi piacerebbe tentare qui di illustrare alcune idee fondamentali del pensiero del filosofo americano. Non ho certo la pretesa di esporre una trattazione esaustiva. Anzi, per forza di cose essa risulterà oltremodo semplificata. Il mio scopo è solo quello di sottolineare alcuni concetti che mi hanno particolarmente impressionato e suscitare un po’ di curiosità sulla figura di Rawls.
In tutto il suo percorso di studioso, John Rawls si è interrogato su una questione fondamentale: come fare funzionare al meglio la società. I presupposti della sua indagine si rifanno al cosiddetto “contrattualismo” teorizzato nel ‘600 e ‘700 da filosofi come Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau. Ogni organizzazione sociale può essere vista come una forma di contratto, stipulato fra i singoli e la propria collettività di riferimento: acconsentendo a rispettare le regole dettate dall’organizzazione, il singolo cede parti della propria libertà personale, in cambio di benefici che gli deriveranno dal fatto di essere inquadrato nei ranghi sociali (ad esempio: la società si impegna a proteggere i suoi membri dai soprusi, a garantire equità nei rapporti fra i singoli, stabilisce i limiti delle libertà reciproche, di modo che non si verifichino interferenze e indebite “invasioni di campo”, predispone servizi collettivi, e così via).
Fin qui, tutto bene, tutto bello. I problemi tuttavia sono sempre sorti, nel corso della storia, “al momento” di mettersi d’accordo sul modello di società che si voleva impostare, ossia all’atto di determinare le “clausole del contratto”. Sorge infatti “fin da subito” un ostacolo non da poco: a chi spetta il diritto di stabilire e delineare le regole di funzionamento della società? L’esperienza storica ci insegna che questo privilegio se l’è praticamente sempre accaparrato la classe sociale egemone, dettando ovviamente norme, principi e consuetudini favorevoli ai propri interessi. Si capisce bene che, per questa strada, difficilmente le cose potranno mai funzionare con sufficiente equità. Grandi difficoltà si sono dunque sempre presentate nella ricerca di un presunto “bene comune”, con due problematiche “tipo” conseguenti.
Con la forma cosiddetta “utilitaristica” (incentrata grosso modo sulla priorità assegnata all’«individuo»), si è mirato a ottenere il maggior benessere per il numero più ampio possibile di cittadini. Questa “soluzione” ha sempre implicato penalizzazioni, talvolta in misure anche intollerabili, per i settori più svantaggiati della società (per intenderci, esemplificando e semplificando molto: è il modello concretizzato spesso nelle cosiddette società occidentali).
Quando invece si è ricercata una media distribuita fra costi e benefici da applicare (spostando dunque l’obiettivo sulla “collettività”), si sono verificate difficoltà di segno opposto, con l’appiattimento delle potenzialità dei più dotati di talento e qualità umane (ancora per intenderci esemplificando, e sempre semplificando molto: è il modello concretizzato spesso nelle società che hanno sperimentato il cosiddetto “socialismo reale”).
Rawls s’interroga su come si possa ottenere una società giusta, salvaguardando al tempo stesso le naturali “differenze di valore” sussistenti nella sua composizione. In ogni organizzazione sociale, esistono persone più capaci, e questo fatto è da un certo punto di vista una risorsa importante: è sempre stato grazie ai loro migliori “talenti umani” che le società hanno progredito e si sono sviluppate. Com’è possibile fare in modo che questa normale disposizione rimanga un vantaggio per il progresso sociale, evitando al tempo stesso che sfoci in forma di egemonia sociale a danno dei meno dotati?
Rawls suggerisce una modalità non priva di un suo fascino intellettuale, nonché, al contempo, di una nobile carica utopica (interessante ricordare che fra i suoi “modelli umani” di riferimento, c’erano anche il reverendo Martin Luther King e il Mahatma Gandhi). Per prefigurare un modello di società più giusta, Rawls suggerisce una sorta di “azzeramento della consapevolezza”.
Chi è chiamato a stabilire cosa sia giusto e equo per la società, sarà inevitabilmente a sua volta già calato in un ruolo sociale e tenderà a privilegiare gli interessi della propria classe sociale di appartenenza.
Per ovviare a questo vizio di fondo, Rawls suggerisce un esperimento filosofico-mentale molto sottile: nel pensare alla società giusta, ci si deve calare nell’ottica di chi non possiede ancora nessuna determinazione sociale precisa. In altre parole: chi ha il “compito” di definire il miglior modello possibile di società, deve momentaneamente dimenticare di avere egli stesso un ruolo e una fisionomia sociale ben definita. Se è ricco, povero, nobile, plebeo, dirigente, impiegato, operaio, vecchio, giovane, uomo, donna, e così via: deve liberarsi mentalmente di queste categorie applicate a se stesso, e pensare come se si trovasse in una “posizione originaria” (così Rawls la definisce) di perfetta neutralità e “impersonalità” sociale.
Solo in questo modo, si potranno superare gli interessi di parte e agire invece solo nel nome di criteri generali di equità e giustizia. Rawls aggiunge che così facendo, la naturale tendenza di ciascuno sarà di pensare a una società particolarmente attenta alle esigenze dei più svantaggiati. A pensarci bene, è del tutto logico: se non so ancora quale sarà il mio posto nella società che si va formando, farò di tutto per premunirmi di fronte all’eventualità più sfavorevole che si potrà verificare, ossia di andare a finire negli strati più bassi e disagiati.
Quella prefigurata da Rawls, è dunque una società che non pretende di appiattire le “naturali” differenze di potenziale umano presenti in essa (che come abbiamo detto, sono anche una risorsa). Ma al tempo stesso, una simile società richiede continuamente ai suoi componenti più fortunati e privilegiati di essere sempre in grado di “giustificare” il proprio privilegio. Ossia, chi ha acquisito vantaggi e privilegi in virtù del proprio maggior talento, deve essere giunto a questi risultati sempre nell’ottica di un operare a beneficio generale dell’intera società, e dunque in particolare, anche a favore delle classi “meno fortunate”.
Se ci fate caso, questo passaggio del ragionamento è di triste attualità proprio se rapportato alla situazione dell’Italia odierna e anche del più o meno recente passato. Nel nostro Paese infatti ormai da troppo tempo, le “regole” sono dettate da una classe egemone che potremmo genericamente definire “dirigenziale” (in essa rientrano sia i politici, ma anche altre figure in qualche modo occupanti posti di responsabilità rispetto alla cosa pubblica e ai grandi interessi economici), e tale classe egemone gode di privilegi spropositati e ingiustificati, rispetto alla scarsa ricaduta sociale che è stata in grado di produrre. In parole povere: questa classe privilegiata italiana ha avuto tanto dall’organizzazione sociale, ma in cambio ha restituito pochissimo alla collettività, con ovvio incremento del tasso di ingiustizia sociale e di danno per le classi meno favorite. E tutto questo, se inquadrato nell’ottica degli schemi teorici rawlsiani, è una vera e propria aberrazione.
Sono queste insomma le due o tre cosette che vi volevo raccontare del pensiero di John Rawls. Si tratta solo di brevi cenni, rispetto alla complessità e alla vastità delle sue idee, ma spero siano ad ogni modo utili per stimolanti riflessioni e magari invitino ad approfondire la figura di questo grande filosofo.
Chiudo riportando una bellissima frase, che pur non pronunciata testualmente da Rawls in questa precisa formulazione, felicemente sintetizza lo spirito del suo pensiero. Si tratta di un mesto, ma al tempo stesso vivificante interrogativo, che suona grosso modo così: come si può essere felici, se altri sono infelici?
Nessun commento:
Posta un commento