Ci sono cose che credevo relegate per sempre nel ricordo. E invece il pendolo paesano dell’insignificanza quotidiana le rispolvera a sorpresa, quasi che il tempo non fosse mai passato, o forse nemmeno mai iniziato.
I vecchi in calma attesa del nulla.
Una donna sulla quarantina che impara ad andare in bici.
Piccoli, marginali fenomeni rispuntati fuori quasi intatti direttamente dagli anni ’50 o ’60 (massimo massimo, dai ’70).
L’attesa dei vecchi è nei giardinetti, oppure sui balconi, o sotto casa, all’ombra dei muri. Si godono semplicemente lo stazionamento sul limite tra il fuori e il dentro della familiarità domestica. Di certo pensano. Ma non credo sia essenziale farlo. L’importante è stare lì, e basta. Guardare i rari passanti, fare un cenno di saluto, semmai. Intessere un blando rammendo fra il momento del pranzo e quello della cena.
Hanno un che di ipnotico, i vecchi in attesa di niente. Eppure sono stati relativamente giovani in epoche già parecchio dinamiche e modernizzanti. Ma il genius loci è da sempre insinuato nei loro animi, e dal canto loro non fanno nessuna fatica nell’inverarlo al meglio. Gli viene naturale così, come il silenzio placido che è l’unico ferro del mestiere necessario a praticare l’attesa del niente.
Se vogliono, possono fare altro. Hanno l’orto, la televisione, la bici, o la compagnia di altri loro pari età. Ma è il gusto dell’aspettare niente che vogliono centellinare in quei momenti.
L’aspirante ciclista fuori tempo massimo è invece una ragazzona dell’Est. Per chi nasce nello spiano extra-liscio in riva al Grande Fiume, la bicicletta è come un prolungamento naturale delle gambe e dei piedi. Non c’è anima viva sopra i cinque anni di età, credo, che non sappia saltare in sella alla “brutto boia” (“bad boy”) e iniziare a pedalare come un matto.
Per questo fa un po’ specie, e tanta tenerezza, vedere questa matura e corpulenta donzellona (giunta dall’ex oltre-cortina per “badantesche” necessità), cincischiare coi pedali, litigare con l’equilibrio, tentare la beffa alla forza di gravità. Il suo impiccio più grosso sta nell’avvio. Si serve allora della lieve discesa dell’argine per prendere slancio e smollare alla buon’ora una raffica di libere pedalate.
L’assiste un ex-giovane ancora non rassegnato a mettersi lì, nell’attesa del niente (diversamente dai suoi coetanei, già ben pratici invece dell’hobby nichil-attendista). Un sacco d’anni dividono l’ex giovane dalla ciclista extra-cronologica. Ma lui non ha certo intenzione di vestire i panni del “badato”, bensì aspira a “badare” egli stesso in prima persona. La regge da dietro, nei suoi avvii tremolanti. Una mano gli scappa al vasto uralico tafanario di lei, prima di correggersi un po’ più su, nei paraggi delle spalle e della schiena, profondendosi in un più pudico sostegno. Ripetono l’operazione più e più volte. Fra sorrisi e risate, piccoli urletti, sbandate in abbondanza.
Fino a quando qualche progresso viene messo in archivio, e se ne tornano a casa contenti come due ragazzini. Mentre un’altra giornata sfuma via, col marchio lievissimo dell’attesa del nulla, istoriato ancora una volta dai professionisti di questa specialità, sugli ultimi brandelli di luce preserale.
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