sabato 31 ottobre 2009

Cum'ieran bèi, cum'ieran bòn...

Non mi piaceva tanto il numero sette (...i miei interventi ottobrini qui su), così spariglio questo mese scarsamente scrivereccio sul mio bloghetto, con un brano di goliardica carnascialità (...qualsiasi minchia ciò stia a significare...).
Otto e ottobre vanno più d'accordo.
E poi siamo anche sotto Allo Vino e ci sta pure bene...Hallo-weeno...ahahahahahha :-)


mercoledì 28 ottobre 2009

Epifanie gastronomiche del delta


«…Sotto il tiglio là nella landa
noi rompemmo fiori ed erba,
voi che passate potete vedere
dove io posai la testa.
Se saprete che lei era con me
questo non sarà certo mai vergogna,
era lei la donna che volevo
per essere chiamato col mio nome…»
Sotto il tiglio
Angelo Branduardi - 1976

Mi fanno impazzire (nel senso bello del termine) certi versi di poesie o canzoni, oppure taluni brevi lacerti di brani narrativi, che sotto il manto di una disarmante semplicità comunicativa apparente, sanno evocarti miniere di senso.
Non saprei dire di preciso per quale strano meccanismo semantico questo fenomeno certe (poche) volte si verifica, mentre per la restante maggior parte delle volte non scatta.
Ad esempio, prendete questo minimale, effimero doppio rigo della canzone di Branduardi citata sopra:
«…era lei la donna che volevo
per essere chiamato col mio nome…».
Ecco, so che per la maggior parte della gente, questa frase dirà poco o nulla più del suo significato ordinario.
Io invece l’ho adorata dal primo momento che la sentii. E’ strano a dirsi, ma mi è sempre suonata di una profondità incredibile.

A voler proprio stringere il concetto, ci sono due modi fondamentali di usare le parole. Il modo di base è il modo “gastronomico”, così definito dagli esperti perché si può riassumere anche con il famoso adagio popolare «…parla come mangi…» (sto menando un po’ il gigionesco cane della fantasia per l’aia paraculturale…per non dire paraculare…si vede?...).
Quando ti esprimi in modalità gastronomica ti attieni dunque fedelmente al codice ufficiale della lingua che usi.
«…Il cane abbaia…», «…Sta nevicando…», «…Passami il sale, per cortesia…», «…C’è un elefante in garage…»: questi sono solo alcuni esempi di espressioni “gastronomiche”. Qui, ciò che le parole esprimono va in una singola direzione: tra suono e senso c’è una corrispondenza pressoché biunivoca. In linea di Massimo (…un mio caro amico, grande maniaco della forma fisica), nell’espressione gastronomica, ad un suono corrisponde un solo significato e viceversa.
Non a caso, la modalità espressiva gastronomica è nota anche come “parlar con foce ad estuario”: il corso del flusso espressivo si sfoga nell’oceano del significare con un solo canale d’uscita.
Poi c’è il modo di usare le parole che sempre gli esperti di prima (sempre quelli dell’aia, ancora col cane lì in giro) definiscono il “parlar con foce a delta”. Le parole utilizzate sono tali e quali a quelle usate quando ci si esprime gastronomicamente, ma vuoi per un certo modo di combinarle fra loro, vuoi per gli abbinamenti inusuali ed evocativi che si possono escogitare, finiscono per dire mille cose ulteriori rispetto al loro significato ufficiale codificato.
Nel “parlar con foce a delta”, le parole, dal mero punto di vista “sonoro e sillabico”, sono le stesse della modalità gastronomica, ma il loro fluire è costruito in modo tale che una volta prossime al mare, ci si immettono in mille rivoli quasi ingovernabili.

Ma vi dicevo di Branduardi e del suo tiglio. Se quei due versi della canzone mi esaltano così tanto, forse è proprio perché si pongono a metà strada tra la forma gastronomica e il “parlar con foce a delta”. La frase di per sé è gastronomica a più non posso: «…era lei la donna che volevo per essere chiamato col mio nome…».
«…Beh, chiaro…» viene quasi spontaneo sbottare, «…cosa volevi che ti chiamasse col tuo codice IBAN?!?!?!…».
Ma non fatevi ingannare dalle apparenze, cari amici viandanti per pensieri: spesso l’epifania più raffinata si cela dietro la più menzognera delle spiazzanti banalità.
Vagheggiare che la donna attesa mi chiamasse col mio nome, vuol dire aver predisposto da tempo l’animo all’idea di una persona capace di donare preziosità alla parte più scontata di me stesso. Solo lei è stata in grado di dare quel risalto particolare ed unico ad un gesto che mille volte svariate altre persone avevano compiuto nei miei confronti.
Branduardi è cantautore dalle note “simpatie” medievaleggianti e leggendarie. Forse allora non è una coincidenza il fatto che questo concetto di una rinnovata verginità del nominare, ricordi così da vicino certi “luoghi narrativi” classici di quelle atmosfere: solo l’eletto potrà estrarre la spada dalla roccia; “uno” solo sarà il bacio in grado di ridestare la Bella Addormentata oppure di far tornare al ranocchio la leggiadria che gli compete. Gesti alla portata di tutti, ma del tutto inutili finché non eseguiti dalla persona voluta dall’«essenza delle cose».
Allo stesso modo, solo la “mia” donna saprà chiamarmi davvero col “mio” nome.

Ecco allora perché, cari amici, ho voluto parlarvi oggi delle “epifanie gastronomiche del delta”: perchè sono tra le più raffinate possibili. Al di là del fatto che quella analizzata nella fattispecie vi sia garbata più o meno, bisogna riconoscere il valore assoluto di certi “gastronomi del delta” (mi viene in mente un nome per tutti, forse il più grande: Ernest Hemingway). Perché ciò che riescono a fare è la pratica in assoluto più difficile, per chiunque si cimenti nella produzione di materiale creativo-espressivo: saper spalancare universi di bellezza attraverso l’utilizzo degli strumenti essenziali a disposizione di tutti.
Servendosi di parole che tutti sanno usare, usandole pressoché nel modo da tutti usato, i “gastronomi del delta” portano alla luce l’unicità del dire.

Anzi, sapete cosa vi dico?
Mi avvoltolo sul finale in un triplo salto mortale metaforico carpiato, riassuntivo di tutti i significati espressi nel presente scrittino, e vi saluto concludendo che è esattamente il “gastronomo del delta” il vero e proprio estrattore della spada della bellezza dalla roccia dell’arte.



domenica 25 ottobre 2009

This land is my land

Si tende quasi sempre a sottovalutare i luoghi della propria quotidianità.
Soprattutto se, come me, si vive in un piccolo paese ordinario, di una semplice provincia ordinaria, in una normale regione ordinaria.
Semplicemente ci si scorda di guardare. Per eccesso di familiarità, per distrazione, per gli assili giornalieri che ci distolgono con le loro pressanti esigenze di attenzione.
Ma basta mettere da parte un attimo le depistanti pretese di grandezza, i sogni di lontananza e le utopie di fuga.
Pulire lo sguardo e osservare col cuore. Questo è ciò che serve.
E ci si accorge che non conta tanto quello che si ha davanti agli occhi, ma come lo si osserva.






Oh...e poi...cosa pretendete di più da un giretto in bici e quattro foto fatte col cell?



mercoledì 21 ottobre 2009

Triplo concentrato di genius loci


«…My feet is my only carriage…»
No woman, no cry
Bob Marley - 1974

C’è qualcosa di innaturale nel percorrere ad una certa velocità lunghi tratti di strada, guidando.
Anzi, qualcosa di insano. Come i metodi del colonnello Walter E. Kurz abbarbicato nel suo feudo di apocalittica meta-temporalità cambogiana (…va beh, questo c’entra poco, l’ho detto più per amor di evocazione FrancisFordCoppoliana…).

In questi giorni, per motivi personali che esulano dal presente discorso, sono stato costretto a percorrere tanti chilometri in auto. Intendo: macinato di asfalto ulteriore, rispetto a quello ordinario che mi tocca trangugiare nei periodi normali. Molto più macinato.
Forse quello che sto per dire è assolutamente infondato ed il tutto si spiega molto più semplicemente con la mia storica idiosincrasia per l’automobile, fondamentale ed irrinunciabile strumento della modernità, ma al tempo stesso supremo amplificatore della stupidità umana.
Fatto sta che mi trovavo brut brutto a sfrecciare fra gli Appennini con la mia 313 GT (…è la targa di noi di Gattopoli, per chi non lo sapesse), zigzagando fra calanchi foscoliani e fendendo torrentizi valloni boschivi da far invidia alla mucca Milka, quando mi sono reso conto di provare un non meglio definito disagio.
Era come una sensazione di bellezza sciupata.

Gli antichi non avevano ancora la scienza moderna (…altrimenti, che razza di antichi sarebbero stati?). Quindi, quando sostenevano un’idea, molto spesso non te ne sapevano dimostrare la relativa rava col contorno dell’opportuna fava. Insomma, della riproducibilità sperimentale loro non si preoccupavano più di tanto. Ma nondimeno e non poche volte, ci azzeccavano.
Come per la faccenda del genius loci.
Non è vero che gli spazi si possono misurare in chilometri, metri, centimetri. Cioè, è vero anche quello, ma solo a costo di astrarre ed idealizzare a tutto spiano. Nella concretezza della zollosità terragna, non esiste su tutta la superficie del mondo un centimetro di suolo che misuri uguale a qualsiasi degli altri miliardi di centimetri a disposizione.
Ogni centimetro misura diverso da ogni altro centimetro, proprio perchè ogni luogo ha il proprio genietto. O per dirla diversamente, perché sopra i luoghi è posato uno strato di anima a spessore variabile, che sfuma con gradazioni ben distinte, quando ti sposti anche solo di pochi passi.
Ed è stato a quel punto che, mentre guidavo senza tuttavia mai riuscire a raggiungere il corso dei miei pensieri (anche perché di preferenza, invece di un Tigre, solitamente io nel mio motore ci metto spesso e volentieri un Topo Gigio…), mi è parso di capire l’origine della mia stonatura viaggiante.

Abito, abitudine, abitare: sono tre concetti differenti, ma le corrispettive parole non a caso suonano parenti.
Ogni luogo pretende tempo e ripetizione, chiede di essere “onorato” dalla nostra familiarità, esige che ci vestiamo di esso. Solo allora quel luogo saprà ridarci in cambio la propria energia, la “genialità locale” racchiusa nel suo intimo. E solo attraverso questa ci rendiamo conto che certi pensieri possono essere pensati solo in certi posti e che certi sentimenti sono “sentibili” solo e sempre lì.
Fino a quando, un bel momento, senza neanche saper bene come, ci accorgiamo che il nume tutelare di quel luogo è filtrato in noi aiutandoci nella formazione della nostra identità.
Per questo, il mio pur blando ma spedito viaggiare attraverso una successione rapida di luoghi relativamente nuovi, suonava fesso.
Mi sono sentito come una dama viziata messa dinnanzi al guardaroba più ricco immaginabile, colmo a bizzeffe di mille indumenti dalle infinite fogge differenti. Mi cambiavo, mi agghindavo, uscivo e mi rituffavo di costume in costume, senza sosta, senza posa, senza nemmeno un attimo per darmi un’occhiata nello specchio, snobisticamente annoiata (…ehm, siamo sempre nella metafora della dama, precisiamo…) dall’iperattività del mio stesso mutare d’aspetto.

Avvoltolato intorno alle spire di quattro lontani tornanti, un piccolo paese mi sfiorava appena la coda dell’occhio, perché la pancia del mio sguardo era troppo presa a far in modo, se appena era possibile, di non andarsi a meritare le leggiadre carezze di un Tir che mi stava facendo la barba al cofano.
Chissà, in quel paese avrei forse potuto essere il farmacista locale ed innamorarmi della Dirce, la più bella di tutte le contrade. Lei avrebbe di certo preferito Romildo, un rozzo e prestante boscaiolo, ma poi avrei saputo che la timida Palmira da sempre aveva un debole per me, scoprendo così che l’amore e la modestia della ragazza della porta accanto valgono milioni di volte l’indifferenza della gran gnocca imperiale.
Ma non c’è tempo, non c’è tempo. Nuovi abiti si devono vestire, nuove inquadrature di panorami scorrono nella cornice del parabrezza.
Lungo quel crinale sarei stato l’impavido contrabbandiere galantuomo…ma non c’è tempo, scorre la strada, corre l’asfalto.
In quella casetta sperduta al limitare del bosco, avrei scritto nel più completo eremitaggio i miei bellissimi romanzi, amati dai lettori di tutto il mondo…ma ancora non c’è tempo, ci sono solo chilometri da masticare in tutta fretta, sputando il nocciolo di mille identità mancate.

E alla fine di ogni viaggio, certo, ero ben contento di essere arrivato abbastanza presto a destinazione, sulle pur placide ruote della mia 313 GT. Ma il gusto in bocca era lo stesso di uno stupendo libro purtroppo non letto, di un bacio tanto desiderato e sfortunatamente dalla bocca mai sbocciato.

sabato 17 ottobre 2009

Io...non so...perchè...è tutto così vero

Eravamo arrivati in ritardo, quella sera, nel "nostro" locale.
Il concerto era già iniziato da un po'.
Capitammo in sala nella pausa fra un brano e l'altro. Fendendo luci viola e fuscia, corpi sudati di ragazze in maglietta, strati ondosi di fumo, quella voce prese a cantare, abbagliandomi lo sguardo come una lama di sensuale malinconia.
Non mi era mai capitato di innamorarmi in un tempo così ristretto: da zero a cento gradi di cottura in due note nette.


martedì 13 ottobre 2009

Il post che non avrei mai voluto scrivere

Ciao amici.
Stasera sono triste.
Il miciotto che avete visto tante volte nella piccola foto divenuta ormai la mia immagine ufficiale di blogger e anche in altre fotografie messe a corredo di diversi scrittini, ora non c'è più.
Non vi voglio tediare con i particolari, che tra l'altro per me risulterebbero emotivamente alquanto faticosi.
Un gatto che vive in campagna gode di una libertà stupenda. E' un piccolo imperatore in pelliccia che può spaziare in lungo e in largo nel suo regno fatto di campi, prati, giardini, orti, arrampicandosi su ogni tipo di albero immaginabile, dando la caccia ai più svariati tipi di bestioline di terra, di cielo e di acqua.
Però è sottoposto a mille pericoli. E uno di questi fottuti pericoli si è portato via il mio micio.

Era un gatto semplice, un campagnolo come me.
Non era nemmeno "mio" nel senso "padronale" del termine. In questo senso era ancora più felinamente libero e senza un padrone ufficiale.
Uno dei suoi divertimenti preferiti era vagare per mezzi pomeriggi nel prato di erba medica, aspettare per lunghi attimi e poi spiccare balzi incredibili al muoversi di una farfallina o di altre piccole prede.
Oppure passare le ore fresche della giornata, in quest'estate appena trascorsa, all'ombra del rosmarino, sotto la finestra, sonnecchiando saggiamente.
Tutto così.
Semplicemente.
Come solo i mici sanno fare, con quella loro grazia che noi umani nemmeno in altri ottomila secoli di civiltà riusciremo mai ad imparare.

Ti saluto, piccola palletta di pelo.
Ti sei portato anche un po' di me al di là della barricata.
Ma parte del tuo calore importante rimarrà sempre nel mio cuore.




giovedì 8 ottobre 2009

Starry starry Vincent

E' stato un inizio ottobre Van Goghiano per me.
Ascoltando sul lettorino mp3 il podcast della bellissima trasmissione di Radio2 "Alle otto della sera", nella serie dedicata alla vita di Vincent (raccontata da Giordano Bruno Guerri), ho pedalato a lungo sulla mia bici, assorbendo le incredibili vicende di questo infelicissimo uomo che ha vissuto disperatamente con il solo desiderio di trovare una strada di sopportazione al senso di infinito che gli opprimeva l'anima.
Ed oggi alla radio, in macchina, più inopinata di un vortichio stellare, questa canzone, come curiosa coincidenza di bellezze...



Starry, starry night.
Paint your palette blue and grey,
Look out on a summer's day,
With eyes that know the darkness in my soul.
Shadows on the hills,
Sketch the trees and the daffodils,
Catch the breeze and the winter chills,
In colors on the snowy linen land.

Now I understand what you tried to say to me,
How you suffered for your sanity,
How you tried to set them free.
They would not listen, they did not know how.
Perhaps they'll listen now.

Starry, starry night.
Flaming flowers that brightly blaze,
Swirling clouds in violet haze,
Reflect in Vincent's eyes of china blue.
Colors changing hue, morning field of amber grain,
Weathered faces lined in pain,
Are soothed beneath the artist's loving hand.

Now I understand what you tried to say to me,
How you suffered for your sanity,
How you tried to set them free.
They would not listen, they did not know how.
Perhaps they'll listen now.

For they could not love you,
But still your love was true.
And when no hope was left in sight
On that starry, starry night,
You took your life, as lovers often do.
But I could have told you, Vincent,
This world was never meant for one
As beautiful as you.

Starry, starry night.
Portraits hung in empty halls,
Frameless head on nameless walls,
With eyes that watch the world and can't forget.
Like the strangers that you've met,
The ragged men in the ragged clothes,
The silver thorn of bloody rose,
Lie crushed and broken on the virgin snow.

Now I think I know what you tried to say to me,
How you suffered for your sanity,
How you tried to set them free.
They would not listen, they're not listening still.
Perhaps they never will...



domenica 4 ottobre 2009

Un'indimostrabile domenica

Un compaesano (spesso a pranzo a casa mia)

Oggi era domenica.
Ed io ho una mia teoria.
Sul primo fatto siamo tutti d'accordo e ve lo potrei anche dimostrare.
Riguardo alla mia teoria invece temo che saremo d'accordo un po' in meno. Ma quel che è certo: non ve la saprei dimostrare.

Mi ero attardato un po' in piazza verso tarda mattinata, fra le piacevoli chiacchiere con gli amici domenicali, per l'appunto.
C'era una riunione di cavallerizzi, appassionati di Bucefali e Ronzinanti dei giorni nostri, una piacevole invasione di destrieri che hanno allegramente costellato le strade del paese e del circondario con pittoresche impallinature fumanti.
Va beh, chi poi si è ritrovato a pulire non l'avrà presa giù così poeticamente, ma questo è il mio "regno delle parole", voi siete miei ospiti e ci possiamo permettere ogni fantasmagoria narrativa.
Alla fine ho tardiato un po' a rientrare a casa e l'ho fatto prendendo su la strada del viale.

Era ora di pranzo inoltrata ed è stato lì che ho sentito l'energia in atto.
Le strade erano deserte.
Non che usualmente ci sia gran traffico nel mio paesello, ma qualche anima viva in giro la si riesce ad avvistare nelle ore diurne fra i diversi pasti, sia essa appiedata, in auto o inforcante un velocipede.
In quel momento invece ero solissimo sotto l'ampia verzura dei tigli.
E dalle case, attraverso i muri, fendendo gli spiragli degli infissi, promanava una chiara ed evidente forza domestica.
Era l'energia di tutti i pranzi domenicali che erano in atto al momento, che si sommava e si distribuiva per l'etere campagnolesco.

La mia teoria è questa insomma.
Quando gli uomini sono tutti uniti nel compiere un gesto quotidiano comune, quando le loro singolarità si fondono e si rispecchiano, pur senza vedersi, attraverso una sorta di sacralità rituale del dettaglio giornaliero, ne nasce un flusso energetico che fa aumentare il senso di bellezza umana diffuso per il mondo.
Ci sono certi sabati mattina, oppure sabati sera, o ancora domeniche mattina, che se ci state bene attenti ed alzate le apposite antenne di non so quale sensibilità (vi dicevo che è una teoria indimostrabile, per cui anche gli strumenti per misurarla non ve li so dire), potrete sentire che nel mondo un'infinità di gente sta facendo l'amore.
Questa è una cosa che non vi so spiegare, ma la sento. Che poi il più delle volte io non sia della partita ("simpatizzante non trombante"?), è un'altro paio di maniche. Ma la sento.
Qualcosa di simile succede in occasione della finale dei mondiali di calcio, a maggior ragione se capita che l'Italia sia protagonista.

Come dicevo, tutto ciò non lo posso dimostrare ed infatti non ci penso nemmeno.
Per cui mi posso permettere il lusso di aggiungere una postilla ancor meno "confortabile" con qualsivoglia tipo di prova razionale. Ossia, il fatto che questo fenomeno presenti intensi risvolti Joyceiani.
Sì, è così. Il pranzo domenicale dei miei compaesani mi ha fatto capire meglio Joyce. O almeno credo.
Sto leggendo "The dubliners" e in passato ho fatto alcuni tentativi, anche se piuttosto infruttuosi, con l'Ulisse. Ed è questo alla fine, mi pare di aver capito, ciò che Joyce tenta di cogliere: quelle "sommatorie di umano" disperse nel mondo.
Ognuno dei suoi personaggi è nel contempo sia singolo individuo, sia "sommatoria di umano". E' quasi come se Joyce fosse invitato a tutti i pranzi domenicali del mondo, riuscendo a sedersi nello stesso momento a tutte le tavole imbandite possibili.

Ecco, questo mi è parso di capire.
O forse sarà solo colpa della mezza bottiglia di rosso che mi son trincato a cena (sempre sommandomi alla universale "cenità" del mondo).