«…My feet is my only carriage…»
“
No woman, no cry”
Bob Marley - 1974C’è qualcosa di innaturale nel percorrere ad una certa velocità lunghi tratti di strada, guidando.
Anzi, qualcosa di insano. Come i metodi del colonnello Walter E. Kurz abbarbicato nel suo feudo di apocalittica meta-temporalità cambogiana (…va beh, questo c’entra poco, l’ho detto più per amor di evocazione FrancisFordCoppoliana…).
In questi giorni, per motivi personali che esulano dal presente discorso, sono stato costretto a percorrere tanti chilometri in auto. Intendo: macinato di asfalto ulteriore, rispetto a quello ordinario che mi tocca trangugiare nei periodi normali. Molto più macinato.
Forse quello che sto per dire è assolutamente infondato ed il tutto si spiega molto più semplicemente con la mia storica idiosincrasia per l’automobile, fondamentale ed irrinunciabile strumento della modernità, ma al tempo stesso supremo amplificatore della stupidità umana.
Fatto sta che mi trovavo brut brutto a sfrecciare fra gli Appennini con la mia 313 GT (…è la targa di noi di Gattopoli, per chi non lo sapesse), zigzagando fra calanchi foscoliani e fendendo torrentizi valloni boschivi da far invidia alla mucca Milka, quando mi sono reso conto di provare un non meglio definito disagio.
Era come una sensazione di bellezza sciupata.
Gli antichi non avevano ancora la scienza moderna (…altrimenti, che razza di antichi sarebbero stati?). Quindi, quando sostenevano un’idea, molto spesso non te ne sapevano dimostrare la relativa rava col contorno dell’opportuna fava. Insomma, della riproducibilità sperimentale loro non si preoccupavano più di tanto. Ma nondimeno e non poche volte, ci azzeccavano.
Come per la faccenda del genius loci.
Non è vero che gli spazi si possono misurare in chilometri, metri, centimetri. Cioè, è vero anche quello, ma solo a costo di astrarre ed idealizzare a tutto spiano. Nella concretezza della zollosità terragna, non esiste su tutta la superficie del mondo un centimetro di suolo che misuri uguale a qualsiasi degli altri miliardi di centimetri a disposizione.
Ogni centimetro misura diverso da ogni altro centimetro, proprio perchè ogni luogo ha il proprio genietto. O per dirla diversamente, perché sopra i luoghi è posato uno strato di anima a spessore variabile, che sfuma con gradazioni ben distinte, quando ti sposti anche solo di pochi passi.
Ed è stato a quel punto che, mentre guidavo senza tuttavia mai riuscire a raggiungere il corso dei miei pensieri (anche perché di preferenza, invece di un Tigre, solitamente io nel mio motore ci metto spesso e volentieri un Topo Gigio…), mi è parso di capire l’origine della mia stonatura viaggiante.
Abito, abitudine, abitare: sono tre concetti differenti, ma le corrispettive parole non a caso suonano parenti.
Ogni luogo pretende tempo e ripetizione, chiede di essere “onorato” dalla nostra familiarità, esige che ci vestiamo di esso. Solo allora quel luogo saprà ridarci in cambio la propria energia, la “genialità locale” racchiusa nel suo intimo. E solo attraverso questa ci rendiamo conto che certi pensieri possono essere pensati solo in certi posti e che certi sentimenti sono “sentibili” solo e sempre lì.
Fino a quando, un bel momento, senza neanche saper bene come, ci accorgiamo che il nume tutelare di quel luogo è filtrato in noi aiutandoci nella formazione della nostra identità.
Per questo, il mio pur blando ma spedito viaggiare attraverso una successione rapida di luoghi relativamente nuovi, suonava fesso.
Mi sono sentito come una dama viziata messa dinnanzi al guardaroba più ricco immaginabile, colmo a bizzeffe di mille indumenti dalle infinite fogge differenti. Mi cambiavo, mi agghindavo, uscivo e mi rituffavo di costume in costume, senza sosta, senza posa, senza nemmeno un attimo per darmi un’occhiata nello specchio, snobisticamente annoiata (…ehm, siamo sempre nella metafora della dama, precisiamo…) dall’iperattività del mio stesso mutare d’aspetto.
Avvoltolato intorno alle spire di quattro lontani tornanti, un piccolo paese mi sfiorava appena la coda dell’occhio, perché la pancia del mio sguardo era troppo presa a far in modo, se appena era possibile, di non andarsi a meritare le leggiadre carezze di un Tir che mi stava facendo la barba al cofano.
Chissà, in quel paese avrei forse potuto essere il farmacista locale ed innamorarmi della Dirce, la più bella di tutte le contrade. Lei avrebbe di certo preferito Romildo, un rozzo e prestante boscaiolo, ma poi avrei saputo che la timida Palmira da sempre aveva un debole per me, scoprendo così che l’amore e la modestia della ragazza della porta accanto valgono milioni di volte l’indifferenza della gran gnocca imperiale.
Ma non c’è tempo, non c’è tempo. Nuovi abiti si devono vestire, nuove inquadrature di panorami scorrono nella cornice del parabrezza.
Lungo quel crinale sarei stato l’impavido contrabbandiere galantuomo…ma non c’è tempo, scorre la strada, corre l’asfalto.
In quella casetta sperduta al limitare del bosco, avrei scritto nel più completo eremitaggio i miei bellissimi romanzi, amati dai lettori di tutto il mondo…ma ancora non c’è tempo, ci sono solo chilometri da masticare in tutta fretta, sputando il nocciolo di mille identità mancate.
E alla fine di ogni viaggio, certo, ero ben contento di essere arrivato abbastanza presto a destinazione, sulle pur placide ruote della mia 313 GT. Ma il gusto in bocca era lo stesso di uno stupendo libro purtroppo non letto, di un bacio tanto desiderato e sfortunatamente dalla bocca mai sbocciato.