Con le cosiddette «epifanie del lettore» già vi ho fatto «‘na capa tanta» in innumerevoli e ripetute situazioni bloghesche, declinando di volta in volta il concetto nelle sue più strambe varianti. Quello che non mi sarei mai aspettato tuttavia, era di incappare in una «epifania dello scrivente autoindotta».
Questo strano fenomeno si concretizza quando capita di scrivere una frase della cui “fonte d’ispirazione” sapremmo dire poco o nulla.
Proprio per questo motivo, una volta che rileggiamo il periodare da noi stessi prodotto, nel caso di esito felice, possiamo gustarlo con uno stupore distaccato, quasi fosse un’idea trasposta su carta da un'altra persona. Un po’ come quando s’informicola una mano o un piede: sono sempre roba nostra, ma percettivamente paiono quasi una mano o un piede attaccati ad un altro.
Una bagatella narrativa del genere, essendo in pratica involontaria, mi è capitata casualmente ieri mattina, commentando un egregio articolo della sempre brava Farlocca.
Nel suo scritto, Farly parla di quelle persone che nella vita tendono, più o meno di preferenza, a raggiungere gli obiettivi percorrendo regolarmente la strada più tortuosa per arrivare alla meta, dimostrando in questo modo quasi una sorta di “masochistico snobismo” verso le soluzioni lineari, piane, dirette.
La sensazione mi è ben nota, essendo io stesso da annoverare nella schiera dei “percorritor di miglia per fare due passi”.
Nel commento, volevo precisare una mia impressione: è vero che coloro che sono affetti da questa “sindrome della tortuosità” vivono forse con più fatica, ma è altrettanto vero che essi, con le loro continue deviazioni dal tracciato principale, possono essere considerati anche come i motori del cambiamento.
Sia ben chiaro, è solo una mia ipotesi.
Nasce dall’idea che chi si ritrova disperso, anche suo malgrado, per sentieri inizialmente non preventivati, non solo riesce ad osservare le cose da mille angolazioni ulteriori, ma immagazzinando e comparando fra di loro un numero molto più alto di informazioni casuali ed accidentali, può avere l’occasione di combinarle in modo originale, dando vita a nuovi modi di intendere la realtà.
Per farla corta, in sostanza volevo dire a Farly che se non ci fossero quegli zig-zagatori di linee rette, chissà, forse l’umanità si ritroverebbe ancora “indietro come la coda del maiale” (…colorito eufemismo dialettale, col quale a Gillipixiland si suole indicare l’arretratezza sociale e culturale).
Ed ecco cosa mi è uscito fuori:
«…senza individui che ri-problematizzano il mondo in senso creativo, forse saremmo ancora tutti nelle caverne stravaccati su un divano di pietra, a guardare i graffiti sul muro, cercando invano di cambiare canale…».
Ora, cari amici viandanti per pensieri, giuro che non so come questa immagine mi sia venuta in mente. Voglio dire, dove l’ho pescata, proprio non lo so.
E mi scuso anche per la narcisistica autocitazione, ma credetemi che non avrei tirato in ballo tutta questa tiritera, se la frase fosse stata “mia per davvero”.
O meglio, a rigore di logica teorica, si tratta di una frase mia, certo. Non vi voglio mica pigliare per i fondelli. Ma agli effetti pratici (ed è questo il punto che volevo sottolineare), è una frase che mi son sentito nelle mani ancor prima che la mente potesse rendersi ben conto di averla concepita.
Lo so, lo so che a questo punto starete pensando alla battuta finale di una celeberrima barzelletta anni ’70. Quella di quel tale che sparandole grossissime, racconta le sue strabilianti ed inverosimili gesta di guerra ad un amico, il quale, alla fine del racconto, ribatte: «…Ooohhh, che onore essere tuo amico…posso toccarti?...», lieve buffetto su una spalla: «…Ma vaffanculo!...».
Ma vi garantisco che non c’è intenzione auto-celebrativa in tutto ciò. Volevo solo mettere in rilievo questa faccenda delle idee illuminanti, che come dicevo prima, sembrano venire da chissà quale angolo ignoto della nostra sensibilità.
Ora, l’immagine in questione non sarà poi neanche quella gran geniata, ma mi sono accorto che più la rileggevo e più l’apprezzavo, ed anche la stessa Farly ne è stata favorevolmente impressionata).
Mi sembra bella per quel cortocircuito paradossale di sensi e di tempi, che innesca. Il cavernicolo è preso in qualità di rappresentante “proto-tipico” dell’alba dell’uomo, come simbolo di un’umanità che muove i primi passi. L’«Homo Televisivus Absolutus» tiene alta invece la bandiera dell’odierna deriva nell’ottusità mentale (…senza sfumature moralizzatrici: io per primo sono gravemente “televisionario”).
Fondendo i due estremi temporali con questo buffo chiasmo, ad incrociare i rispettivi oggetti caratterizzanti di pertinenza (il divano che si antichizza goffamente pietrificandosi, il graffito statico che si modernizza accampando improbabili pretese d’immagine dinamica e mutevole…), ne esce fuori uno stridore umoristico non meglio precisato fino in fondo, che proprio in questa indeterminatezza trova il suo valore aggiunto di significati possibili.
Un’immagine, una metafora efficaci, non debbono mai essere chiare fino in fondo, ma dovrebbero sempre dire, pur lasciando ampio spazio al “non detto”.
Ed è appunto in virtù di quel “non detto” che lo stesso autore della frase “non sa dire” fino in fondo l’origine della sua pensata. Non perché egli sia un fenomeno dunque (…se la frase è uscita da me, potete star certi dell’assoluta ordinarietà mentale della fonte…), ma perché la frase gli è stata come “suggerita” da una sorta di “nume” narrativo occulto, che è potenzialmente dentro ciascuno di noi.
E detto questo, adesso sì, d’accordo: potete anche toccarmi!
Questo strano fenomeno si concretizza quando capita di scrivere una frase della cui “fonte d’ispirazione” sapremmo dire poco o nulla.
Proprio per questo motivo, una volta che rileggiamo il periodare da noi stessi prodotto, nel caso di esito felice, possiamo gustarlo con uno stupore distaccato, quasi fosse un’idea trasposta su carta da un'altra persona. Un po’ come quando s’informicola una mano o un piede: sono sempre roba nostra, ma percettivamente paiono quasi una mano o un piede attaccati ad un altro.
Una bagatella narrativa del genere, essendo in pratica involontaria, mi è capitata casualmente ieri mattina, commentando un egregio articolo della sempre brava Farlocca.
Nel suo scritto, Farly parla di quelle persone che nella vita tendono, più o meno di preferenza, a raggiungere gli obiettivi percorrendo regolarmente la strada più tortuosa per arrivare alla meta, dimostrando in questo modo quasi una sorta di “masochistico snobismo” verso le soluzioni lineari, piane, dirette.
La sensazione mi è ben nota, essendo io stesso da annoverare nella schiera dei “percorritor di miglia per fare due passi”.
Nel commento, volevo precisare una mia impressione: è vero che coloro che sono affetti da questa “sindrome della tortuosità” vivono forse con più fatica, ma è altrettanto vero che essi, con le loro continue deviazioni dal tracciato principale, possono essere considerati anche come i motori del cambiamento.
Sia ben chiaro, è solo una mia ipotesi.
Nasce dall’idea che chi si ritrova disperso, anche suo malgrado, per sentieri inizialmente non preventivati, non solo riesce ad osservare le cose da mille angolazioni ulteriori, ma immagazzinando e comparando fra di loro un numero molto più alto di informazioni casuali ed accidentali, può avere l’occasione di combinarle in modo originale, dando vita a nuovi modi di intendere la realtà.
Per farla corta, in sostanza volevo dire a Farly che se non ci fossero quegli zig-zagatori di linee rette, chissà, forse l’umanità si ritroverebbe ancora “indietro come la coda del maiale” (…colorito eufemismo dialettale, col quale a Gillipixiland si suole indicare l’arretratezza sociale e culturale).
Ed ecco cosa mi è uscito fuori:
«…senza individui che ri-problematizzano il mondo in senso creativo, forse saremmo ancora tutti nelle caverne stravaccati su un divano di pietra, a guardare i graffiti sul muro, cercando invano di cambiare canale…».
Ora, cari amici viandanti per pensieri, giuro che non so come questa immagine mi sia venuta in mente. Voglio dire, dove l’ho pescata, proprio non lo so.
E mi scuso anche per la narcisistica autocitazione, ma credetemi che non avrei tirato in ballo tutta questa tiritera, se la frase fosse stata “mia per davvero”.
O meglio, a rigore di logica teorica, si tratta di una frase mia, certo. Non vi voglio mica pigliare per i fondelli. Ma agli effetti pratici (ed è questo il punto che volevo sottolineare), è una frase che mi son sentito nelle mani ancor prima che la mente potesse rendersi ben conto di averla concepita.
Lo so, lo so che a questo punto starete pensando alla battuta finale di una celeberrima barzelletta anni ’70. Quella di quel tale che sparandole grossissime, racconta le sue strabilianti ed inverosimili gesta di guerra ad un amico, il quale, alla fine del racconto, ribatte: «…Ooohhh, che onore essere tuo amico…posso toccarti?...», lieve buffetto su una spalla: «…Ma vaffanculo!...».
Ma vi garantisco che non c’è intenzione auto-celebrativa in tutto ciò. Volevo solo mettere in rilievo questa faccenda delle idee illuminanti, che come dicevo prima, sembrano venire da chissà quale angolo ignoto della nostra sensibilità.
Ora, l’immagine in questione non sarà poi neanche quella gran geniata, ma mi sono accorto che più la rileggevo e più l’apprezzavo, ed anche la stessa Farly ne è stata favorevolmente impressionata).
Mi sembra bella per quel cortocircuito paradossale di sensi e di tempi, che innesca. Il cavernicolo è preso in qualità di rappresentante “proto-tipico” dell’alba dell’uomo, come simbolo di un’umanità che muove i primi passi. L’«Homo Televisivus Absolutus» tiene alta invece la bandiera dell’odierna deriva nell’ottusità mentale (…senza sfumature moralizzatrici: io per primo sono gravemente “televisionario”).
Fondendo i due estremi temporali con questo buffo chiasmo, ad incrociare i rispettivi oggetti caratterizzanti di pertinenza (il divano che si antichizza goffamente pietrificandosi, il graffito statico che si modernizza accampando improbabili pretese d’immagine dinamica e mutevole…), ne esce fuori uno stridore umoristico non meglio precisato fino in fondo, che proprio in questa indeterminatezza trova il suo valore aggiunto di significati possibili.
Un’immagine, una metafora efficaci, non debbono mai essere chiare fino in fondo, ma dovrebbero sempre dire, pur lasciando ampio spazio al “non detto”.
Ed è appunto in virtù di quel “non detto” che lo stesso autore della frase “non sa dire” fino in fondo l’origine della sua pensata. Non perché egli sia un fenomeno dunque (…se la frase è uscita da me, potete star certi dell’assoluta ordinarietà mentale della fonte…), ma perché la frase gli è stata come “suggerita” da una sorta di “nume” narrativo occulto, che è potenzialmente dentro ciascuno di noi.
E detto questo, adesso sì, d’accordo: potete anche toccarmi!