Qualche tempo fa vi dissi che dopo aver affrontato l’impegnativo ed entusiasmante doppio tomo di William Shirer, «Storia del Terzo Reich», per un po’ mi sarei tenuto lontano da letture particolarmente lunghe. Mantenendo infatti fede al mio tradizionale e rigorosissimo senso della coerenza, di lì a poco mi sono addentrato nei perigliosi meandri narrativi della “Recherche” proustiana (fra i quali, a dire il vero, per il momento mi sono un po’ smarrito…).
Pochi giorni or sono, per ribadire con decisione la logica stringente delle mie scelte, ho poi pensato bene di buttarmi sulla lettura di un agile “pamphlet”: «Anna Karenina» (…di Lev Tolstoj, ma cosa ve lo dico a fare?...).
A parte tutto questo, quando ti appresti ad affrontare un libro così ponderoso, speri di farlo nelle migliori condizioni di comfort possibili. E’ come per una lunga escursione in montagna: mica ti metti per il sentiero con i tacchi a spillo ed il tanga di carta vetrata, se appena c’è la maniera…
Scegliere un’edizione consona all’impegno, in questi casi non è dunque un dettaglio.
Ma con «Anna Karenina», è proprio qui che l’asino gillipixiano è miseramente cascato.
Preciso che non citerò i nomi effettivi delle case editrici in questione, perché non voglio imbarcarmi in nessuna forma di pubblicità, né di spubblicità. Userò solo due nomignoli sostitutivi, con radice etimologicamente “sinonimata” e desinenza vicendevolmente scambiata, così i più fantasiosi potranno dilettarsi ad indovinare (…un po’ come succedeva con la dolce Euchessina, pensata per i bambini buoni, mentre quelli cattivi, va beh: che spingessero pure!…sempre per non fare pubblicità…).
Basterà addentrarsi in una piccola esegesi della “radice” del primo nome, ed usare la desinenza del secondo, e viceversa.
L’edizione di «Anna Karenina» che avevo in casa è della “Nettanti”. Me l’ero procurata anni fa, senza l’intenzione di leggermela subito. Con questi classiconi russi è un po’ come con le bottiglie di liquore: te li metti in casa e poi capita sempre l’occasione buona per stappare. Già all’epoca però, mi accorsi che si era trattato di un acquisto improvvido: la copia che avevo pescato era difettosa, perché appena dopo la copertina, dove uno si aspetta tutte le paginette introduttive col titolo interno, il traduttore, l’anno d’edizione, il titolo originale, ecc., c’era il vuoto. Il libro iniziava ex abrupto dall’introduzione.
La cosa mi aveva innervosito, spingendomi con ancor più fermezza a lasciar perdere temporaneamente la lettura del discreto tometto tolstojano, che è stato così ad invecchiare fra i miei libri, fino ad arrivare, come accennavo sopra, ad alcuni giorni fa, quando mi ha preso la voglia di stappare quella buona bottiglia di liquore narrativo russo.
Ogni libro ha il suo momento nella vita di un lettore, e sentivo che era venuto il momento giusto tra me ed «Anna Karenina». Non mi sbagliavo, perché fin dalle prime pagine ho assaporato subito la bellezza che gronda da quelle pagine.
Ma…c’era un grosso “ma”.
La mancanza delle pagine iniziali non era il solo difetto della mia edizione “Nettanti”.
Di man in mano che mi addentravo nella storia, mi accorgevo di un fatto a dir poco fastidioso, che rischiava di tramutare il piacere della lettura in uno stracciamento di maroni e fiotti di nervosismo come piovesse.
I caratteri di stampa erano così mal impressi ed a tratti addirittura monchi, da rendere la mia impresa di lettore una vera e propria pena. La sensazione era proprio quella menzionata prima, dell’indossare un tanga in pura carta vetrata, e nemmeno di quella a grana fine.
La cosa volendo ancor più odiosa, al di là delle parole prive di piccole porzioni di lettere o di interi caratteri, era lo scempio che la macchina tipografica aveva fatto delle virgole: in moltissimi casi erano prive del piedino, tanto da confondersi con i punti. Per cui non si capiva dove finiva il periodo, oppure in certi casi pensavi finisse due volte nel giro di pochissime sillabe, però non vedendo poi la maiuscola ci capivi ancor meno, e ci voleva la pazienza ogni volta di interpretare se si trattasse di un punto o di una virgola, o di qualche altro segno di punteggiatura.
Credetemi cari amici viandanti per pensieri, una roba da sbattere il libro contro il muro.
Così, dopo una cinquantina di pagine di questo strazio, facendo violenza alla mia parsimonia campagnola che mi avrebbe indotto a sopportare il dolore pur di non concedermi il lusso di due copie dello stesso libro in casa, me ne sono andato in libreria e mi sono accattato l’edizione “Bendatori” (interpreta la “radice” ed usa la desinenza della prima edizione fittizia).
Fin dalla prima analisi sommaria, ero ben contento della mia nuova acquisizione: qui le lettere erano ben impresse, le pagine dell’«ante-libro» c’erano tutte, ma soprattutto le virgole erano virgole e i punti erano punti, siano lodati i sacri Numi del Ciclostile!
Nemmeno a dirlo, mi sono così buttato a capofitto nella nuova edizione “Bendatori”.
C’era tuttavia una cosa piacevole che mi ricordavo dal primo abbozzo di lettura con l’altra versione: il fatto di aver colto subito di che pasta sia fatta la poetica di Tolstoj.
A dirla in “rozzese” puro, il vecchio Leone è in realtà piuttosto un raffinatissimo segugio da tartufo psicologico. Possiede una capacità straordinaria di cogliere certe sfumature sottilissime del reale, o meglio, di come la realtà si “compone” nella mente umana. E’ questa la sua magia principale: far emergere il pensato dal concreto, le idee dalle cose così come la sensibilità umana le sa intendere. Nel mondo tolstojano, non c’è soluzione di continuità fra spiritualità e materia: dalla prima scaturisce la seconda, nell’atto stesso di percepirla, non meno di quanto la seconda informi la prima, col suo straripamento di dati sensoriali.
Ci sono brani su brani di «Anna Karenina» (per quel che ne ho letto finora) che potrei citare ad esempio di questo essenziale tratto del narrato tolstojano, ma uno fra tutti, con la sua bizzarra marginalità ed insospettabilità, mi aveva colpito già dalla prima lettura sulla prima edizione frulla-pallesca.
La scena è presto detta: due dei protagonisti della vicenda, Stepan Arkadevic (fratello della Karenina) e Konstantin Levin, si recano insieme al ristorante. Ed ecco come Stepan, habitué del locale, viene accolto da un cameriere tartaro che indica alla coppia il tavolo:
«…”Per di qua, Eccellenza, s’accomodi. Qui sua Eccellenza non sarà disturbata” disse un vecchio tartaro ossequioso, slavato in viso e con le anche così carnose che le falde del suo frac non potevano stare accostate…».
Questa è la traduzione dell’edizione “Nettanti”, la nervosifera con virgolopenia diffusa.
Sarò strano io, ma in queste poche parole ci ho trovato un tasso di genialità altissimo. Più precisamente è stato quel particolare delle falde del frac che non potevano stare accostate a causa delle anche carnose, a regalarmi lo stupore narrativo.
Beh, ditemi che sono ancor più stonato, ma trovo questa immagine di una “evocatività” estrema. In quel minimo dettaglio mi è parso quasi di poter leggere l’intera biografia del vecchio cameriere tartaro: ci ho letto la sua infanzia di goffo bimbo spesso preso in giro dagli amichetti, la sua decisione di fare il cameriere come lavoro di ripiego per ovviare alla sua scarsa valentia fisica, oppure per il motivo esattamente opposto, ossia come rivalsa sociale nell’affrancamento dalle fatiche più basse; e poi ci ho letto ancora il successo agguantato “a metà” in quel tentativo di rivincita sociale, perché pur riuscendo a diventare cameriere, lo ha fatto senza essere in grado di scrollarsi di dosso la propria scompostezza naturale, che trova riflesso nelle sue movenze “paperesche” particolarmente evocative del servilismo caratteriale corrispettivo.
Non appena ho avuto in mano la nuova edizione “Bendatori”, mi sono naturalmente precipitato a confrontare com’era riportato il mio passo prediletto e…ecco cosa ho scoperto:
«…”Di qua, vostra eccellenza, prego, qui non vi disturberanno, vostra eccellenza” diceva un vecchio tartaro incanutito, con il bacino largo e le falde del frac aperte, che si era appiccicato loro in modo particolare…»
Aaarrrgh! Ovvove! Della pinguinesca identità caratteriale del cameriere tartaro non c’era più nemmeno la benché minima traccia. L’espressione potentissima di quelle «…anche così carnose…», vero e proprio “motore immobile” dell’impossibile congiungimento secondo le regole dell’eleganza delle falde del frac, era stata banalizzata con un insignificante «…bacino largo…». L’effetto strabiliante della frase secondo la prima versione, diviene nella seconda quello sconsolante di un bicchiere di un vino pregiato maldestramente annacquato.
Per di più quel «…che si era appiccicato loro in modo particolare…» comparso dal nulla nella seconda traduzione, mi ha fatto dubitare circa l’aleatorietà delle scelte dei traduttori: erano proprio due frasi diversissime.
Dopo esser stato parzialmente risarcito dalla seconda edizione, con la curiosa nota che informava del fatto che i tartari venivano preferiti nella mansione di camerieri anche in quanto musulmani, e come tali interdetti dalle tentazioni della vodka, non ho osato andare oltre nel confrontare altri brani, per non dovermi render conto che mi sarebbe toccato leggermi da cima a fondo il gran tomo tolstojano per due volte.
Quale morale si può chiamare in causa dunque a suggello di questa faceta avventura di lettore?
Forse solamente questa: chi lascia la mutanda vecchia per la nuova, sa dove non si scartavetra più, ma non sa quale “bolletta” si ritrova.
(ndt: “bolletta” = termine dialettale usato a Gillipixiland e dintorni, che sta ad indicare talune macchie di non meglio precisata origine, individuabili talvolta in determinate e prevedibili porzioni dei capi d’abbigliamento intimo, volgarmente detti mutande).
Pochi giorni or sono, per ribadire con decisione la logica stringente delle mie scelte, ho poi pensato bene di buttarmi sulla lettura di un agile “pamphlet”: «Anna Karenina» (…di Lev Tolstoj, ma cosa ve lo dico a fare?...).
A parte tutto questo, quando ti appresti ad affrontare un libro così ponderoso, speri di farlo nelle migliori condizioni di comfort possibili. E’ come per una lunga escursione in montagna: mica ti metti per il sentiero con i tacchi a spillo ed il tanga di carta vetrata, se appena c’è la maniera…
Scegliere un’edizione consona all’impegno, in questi casi non è dunque un dettaglio.
Ma con «Anna Karenina», è proprio qui che l’asino gillipixiano è miseramente cascato.
Preciso che non citerò i nomi effettivi delle case editrici in questione, perché non voglio imbarcarmi in nessuna forma di pubblicità, né di spubblicità. Userò solo due nomignoli sostitutivi, con radice etimologicamente “sinonimata” e desinenza vicendevolmente scambiata, così i più fantasiosi potranno dilettarsi ad indovinare (…un po’ come succedeva con la dolce Euchessina, pensata per i bambini buoni, mentre quelli cattivi, va beh: che spingessero pure!…sempre per non fare pubblicità…).
Basterà addentrarsi in una piccola esegesi della “radice” del primo nome, ed usare la desinenza del secondo, e viceversa.
L’edizione di «Anna Karenina» che avevo in casa è della “Nettanti”. Me l’ero procurata anni fa, senza l’intenzione di leggermela subito. Con questi classiconi russi è un po’ come con le bottiglie di liquore: te li metti in casa e poi capita sempre l’occasione buona per stappare. Già all’epoca però, mi accorsi che si era trattato di un acquisto improvvido: la copia che avevo pescato era difettosa, perché appena dopo la copertina, dove uno si aspetta tutte le paginette introduttive col titolo interno, il traduttore, l’anno d’edizione, il titolo originale, ecc., c’era il vuoto. Il libro iniziava ex abrupto dall’introduzione.
La cosa mi aveva innervosito, spingendomi con ancor più fermezza a lasciar perdere temporaneamente la lettura del discreto tometto tolstojano, che è stato così ad invecchiare fra i miei libri, fino ad arrivare, come accennavo sopra, ad alcuni giorni fa, quando mi ha preso la voglia di stappare quella buona bottiglia di liquore narrativo russo.
Ogni libro ha il suo momento nella vita di un lettore, e sentivo che era venuto il momento giusto tra me ed «Anna Karenina». Non mi sbagliavo, perché fin dalle prime pagine ho assaporato subito la bellezza che gronda da quelle pagine.
Ma…c’era un grosso “ma”.
La mancanza delle pagine iniziali non era il solo difetto della mia edizione “Nettanti”.
Di man in mano che mi addentravo nella storia, mi accorgevo di un fatto a dir poco fastidioso, che rischiava di tramutare il piacere della lettura in uno stracciamento di maroni e fiotti di nervosismo come piovesse.
I caratteri di stampa erano così mal impressi ed a tratti addirittura monchi, da rendere la mia impresa di lettore una vera e propria pena. La sensazione era proprio quella menzionata prima, dell’indossare un tanga in pura carta vetrata, e nemmeno di quella a grana fine.
La cosa volendo ancor più odiosa, al di là delle parole prive di piccole porzioni di lettere o di interi caratteri, era lo scempio che la macchina tipografica aveva fatto delle virgole: in moltissimi casi erano prive del piedino, tanto da confondersi con i punti. Per cui non si capiva dove finiva il periodo, oppure in certi casi pensavi finisse due volte nel giro di pochissime sillabe, però non vedendo poi la maiuscola ci capivi ancor meno, e ci voleva la pazienza ogni volta di interpretare se si trattasse di un punto o di una virgola, o di qualche altro segno di punteggiatura.
Credetemi cari amici viandanti per pensieri, una roba da sbattere il libro contro il muro.
Così, dopo una cinquantina di pagine di questo strazio, facendo violenza alla mia parsimonia campagnola che mi avrebbe indotto a sopportare il dolore pur di non concedermi il lusso di due copie dello stesso libro in casa, me ne sono andato in libreria e mi sono accattato l’edizione “Bendatori” (interpreta la “radice” ed usa la desinenza della prima edizione fittizia).
Fin dalla prima analisi sommaria, ero ben contento della mia nuova acquisizione: qui le lettere erano ben impresse, le pagine dell’«ante-libro» c’erano tutte, ma soprattutto le virgole erano virgole e i punti erano punti, siano lodati i sacri Numi del Ciclostile!
Nemmeno a dirlo, mi sono così buttato a capofitto nella nuova edizione “Bendatori”.
C’era tuttavia una cosa piacevole che mi ricordavo dal primo abbozzo di lettura con l’altra versione: il fatto di aver colto subito di che pasta sia fatta la poetica di Tolstoj.
A dirla in “rozzese” puro, il vecchio Leone è in realtà piuttosto un raffinatissimo segugio da tartufo psicologico. Possiede una capacità straordinaria di cogliere certe sfumature sottilissime del reale, o meglio, di come la realtà si “compone” nella mente umana. E’ questa la sua magia principale: far emergere il pensato dal concreto, le idee dalle cose così come la sensibilità umana le sa intendere. Nel mondo tolstojano, non c’è soluzione di continuità fra spiritualità e materia: dalla prima scaturisce la seconda, nell’atto stesso di percepirla, non meno di quanto la seconda informi la prima, col suo straripamento di dati sensoriali.
Ci sono brani su brani di «Anna Karenina» (per quel che ne ho letto finora) che potrei citare ad esempio di questo essenziale tratto del narrato tolstojano, ma uno fra tutti, con la sua bizzarra marginalità ed insospettabilità, mi aveva colpito già dalla prima lettura sulla prima edizione frulla-pallesca.
La scena è presto detta: due dei protagonisti della vicenda, Stepan Arkadevic (fratello della Karenina) e Konstantin Levin, si recano insieme al ristorante. Ed ecco come Stepan, habitué del locale, viene accolto da un cameriere tartaro che indica alla coppia il tavolo:
«…”Per di qua, Eccellenza, s’accomodi. Qui sua Eccellenza non sarà disturbata” disse un vecchio tartaro ossequioso, slavato in viso e con le anche così carnose che le falde del suo frac non potevano stare accostate…».
Questa è la traduzione dell’edizione “Nettanti”, la nervosifera con virgolopenia diffusa.
Sarò strano io, ma in queste poche parole ci ho trovato un tasso di genialità altissimo. Più precisamente è stato quel particolare delle falde del frac che non potevano stare accostate a causa delle anche carnose, a regalarmi lo stupore narrativo.
Beh, ditemi che sono ancor più stonato, ma trovo questa immagine di una “evocatività” estrema. In quel minimo dettaglio mi è parso quasi di poter leggere l’intera biografia del vecchio cameriere tartaro: ci ho letto la sua infanzia di goffo bimbo spesso preso in giro dagli amichetti, la sua decisione di fare il cameriere come lavoro di ripiego per ovviare alla sua scarsa valentia fisica, oppure per il motivo esattamente opposto, ossia come rivalsa sociale nell’affrancamento dalle fatiche più basse; e poi ci ho letto ancora il successo agguantato “a metà” in quel tentativo di rivincita sociale, perché pur riuscendo a diventare cameriere, lo ha fatto senza essere in grado di scrollarsi di dosso la propria scompostezza naturale, che trova riflesso nelle sue movenze “paperesche” particolarmente evocative del servilismo caratteriale corrispettivo.
Non appena ho avuto in mano la nuova edizione “Bendatori”, mi sono naturalmente precipitato a confrontare com’era riportato il mio passo prediletto e…ecco cosa ho scoperto:
«…”Di qua, vostra eccellenza, prego, qui non vi disturberanno, vostra eccellenza” diceva un vecchio tartaro incanutito, con il bacino largo e le falde del frac aperte, che si era appiccicato loro in modo particolare…»
Aaarrrgh! Ovvove! Della pinguinesca identità caratteriale del cameriere tartaro non c’era più nemmeno la benché minima traccia. L’espressione potentissima di quelle «…anche così carnose…», vero e proprio “motore immobile” dell’impossibile congiungimento secondo le regole dell’eleganza delle falde del frac, era stata banalizzata con un insignificante «…bacino largo…». L’effetto strabiliante della frase secondo la prima versione, diviene nella seconda quello sconsolante di un bicchiere di un vino pregiato maldestramente annacquato.
Per di più quel «…che si era appiccicato loro in modo particolare…» comparso dal nulla nella seconda traduzione, mi ha fatto dubitare circa l’aleatorietà delle scelte dei traduttori: erano proprio due frasi diversissime.
Dopo esser stato parzialmente risarcito dalla seconda edizione, con la curiosa nota che informava del fatto che i tartari venivano preferiti nella mansione di camerieri anche in quanto musulmani, e come tali interdetti dalle tentazioni della vodka, non ho osato andare oltre nel confrontare altri brani, per non dovermi render conto che mi sarebbe toccato leggermi da cima a fondo il gran tomo tolstojano per due volte.
Quale morale si può chiamare in causa dunque a suggello di questa faceta avventura di lettore?
Forse solamente questa: chi lascia la mutanda vecchia per la nuova, sa dove non si scartavetra più, ma non sa quale “bolletta” si ritrova.
(ndt: “bolletta” = termine dialettale usato a Gillipixiland e dintorni, che sta ad indicare talune macchie di non meglio precisata origine, individuabili talvolta in determinate e prevedibili porzioni dei capi d’abbigliamento intimo, volgarmente detti mutande).
2 commenti:
insomma il cameriere culone, se lo si nobilita con i giusti aggettivi diventa un eroe, senza è solo un banale cameriere... peccato non conoscere il russo, chi ha letto tolstoj in originale ne parla con gli occhi che gli brillano... forse bisognerebbe scrivere alla nettanti e dirgli di sistemare quella geniale traduzione :-) baci poetici
@->Farly: è vero, cara Farly, la questione della traduzione è sempre una spina nel fianco del lettore :-) chissà che preziosità ci perdiamo non avendo la possibilità molte volte di cogliere le sfumature nelle diverse lingue originali...consoliamoci tuttavia pensando che lo possiamo fare con tanti capolavori nostrani (La Commedia e il Decameron in primis) laddove quasi tutto il resto del mondo è tagliato fuori :-)
Bacini intraducibili :-) che, mi suggerisce blogspot, pare si chiamino grefszp :-)
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