«…Tutte le famiglie felici si assomigliano;
ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo…»
“Anna Karenina” Lev Tolstoj - 1877
«…Call me Ishmael…»
“Moby Dick – or, The whale” Herman Melville - 1851
Chiamatemi pure Ismaele, ma resta il fatto che uno dei luoghi narrativi più frequentati dall’uomo fin da quando ha posseduto la parola unita alla facoltà di raccontare storie, è stato senz’altro quello della sfida con l’ignoto, mescolata alla sospensione su di un senso d’attesa indefinito, fonte al contempo di attrazioni e timori contraddittori.
Avrei potuto dire da subito che uno dei luoghi narrativi più frequentati di sempre è la vita stessa, che si sarebbero risparmiate parecchie ciance. Ma allora “qui” non si chiamerebbe più “andarperpensieri”, bensì “diario di bordo di una mente lineare”.
Dalla Bibbia a Don Chisciotte, passando attraverso l’Odissea, per arrivare sino alla modernità di Melville ed Hemingway, tutte le “Storie più belle della Storia” debbono pagare un tributo più o meno grande a questo fondamentale “angolo” dei territori dell’arte del raccontare.
Si racconta, facendo leva sulla forza attrattiva di una calamita della cui esistenza non si è nemmeno certi. E non sarà forse questo anche il senso della vita stessa?
In ogni caso, a cos’è dovuto codesto mio pippone introduttivo che potrebbe essere posto a cappello di qualsiasi cosa vi volessi raccontare da qui in avanti?
Forse è dovuto semplicemente al fatto che, parafrasando un altro celeberrimo incipit della letteratura mondiale, “tutti i campagnoli felici si assomigliano, mentre ogni campagnolo dalla mente contorta è diversamente normale a modo suo”.
Venendo dunque al nocciolo del mio ben più modesto narrare, dovete sapere che anche io ho recentemente trovato la mia Moby Dick.
Non so se vi è mai capitato di aver a che fare per la prima volta con un concetto, col dato di conoscenza (anche piccolo e modesto) di una porzione di realtà, e ritrovarvelo poi fra i piedi una seconda ed una terza volta nel giro di pochissimo tempo dal momento della presa d’atto della sua esistenza.
Ecco, con la mia Moby Dick, che alla fine scoprirete chiamarsi in realtà Ghiandy Dick, le cose sono andate proprio in questo modo.
Mio fratello mi ha parlato di un uccellino che vedeva spesso nel suo giardino. Me lo ha descritto di dimensioni e fattezze molto simili a quelle di una gazza, però col manto marroncino chiaro, la testolina corredata con un delizioso caschetto variegato e le ali completate da graziose sfumature azzurrine, bianche e nere.
Gli ho naturalmente detto che non avevo la più pallida idea di come si chiamasse. Come già detto in altre occasioni, oltre che contorto mentalmente, sono anche un campagnolo da due soldi: della natura e dei suoi derivati ne so proprio poco. So solo che mi piace esservi più o meno immerso, ma conosco pochissimi nomi di piante e fauna assortita. Di questa cosa mi rammarico e non poco: è un’occasione perduta da vero fesso, lo ammetto. Mi rendo conto di avere a disposizione tutto intorno a me del più bel libro scritto con foglie, rami, pellicce e penne, e non mi sono mai preoccupato più di tanto di approfondirne a dovere la lettura.
Il punto gli è poi che non ho per nulla una mente tassonomica, mi scordo subito i nomi, anche se me li dicono.
Insomma, indovinate un po’ cosa ho fatto, da bravo campagnolo anomalo intriso di coattitudine para-intellettualoide e postmodernista, per saperne qualcosa di più su quell’uccellino: invece che nel giardino o nelle vicinanze del bosco, sono andato a cercare su google. Multimediale, Watson!
Alla fine ho scoperto che l’uccelletto misterioso era ed è una ghiandaia. Ooohhh…stupore!!! Proprio bellina, mi sono detto, ammirandola nelle mille ed una inquadratura che la immortalavano fra le finestrelle sbocciate a iosa dopo aver digitato il suo nome.
La cosa sembrava finita lì, con solo qualche riflessione a strascico circa il fatto che era un po’ una tristezza ‘sta cosa di non averla mai vista dal vivo ma solo dal google.
Era stata comunque già una piccola soddisfazione aver svelato il mistero del nome, quando qualche mattina dopo, un sabato o una domenica, non ricordo bene, mentre reduce da una ronfata professionale sonnecchiavo sbadiglievolmente dinnanzi alla finestra che dà sul giardino, chi non ti vedo far bella mostra di sé sopra un cespugliozzo a pochi metri da casa? Ebbene sì, cari viandanti per pensieri, avreste dovuto esserci: era proprio lei!!! La cara e vecchia Ghiandy in persona, piume e becco tutti compresi nel prezzo della sorpresa.
La potevo ammirare nel suo fulgore, la distanza era favorevolissima, e nella foga dell’esaltazione ho pensato bene di fissarla nel tempo con una bella foto. Sapevo di avere pochissimo tempo, era questione di due battiti d’ala: corro di là, agguanto la macchina, ma devo mettere su il 200 mm., che come tele è ben modesto, ma è pur sempre la massima bocca da fuoco focale attualmente a mia disposizione. Smonto lo zoomino, tolgo ogni tappo stappabile, agguanto il 200 e lo imbocco sulla macchina alla velocità di 1,2 secondi netti, compreso lo scatto del bottoncino apposito, con una celerità da fare invidia al Fantozzi dei tempi d’oro impegnato nella sostituzione della stringa strappata della scarpa mattutina pre-lavorativa.
Torno alla finestra e zac! Ghiandy se n’era già andata. Ma non pensate a chissà quali distanze siderali: l’aggraziata vigliacca s’era spostata solo un poco più in là, posandosi su di un pilastrino che regge le rete di recinzione del giardino, ma giusto quel tanto da portarsi fuori portata del mio teleobiettivo non propriamente roccosiffredeo. Ho azzardato infatti ugualmente l’inquadratura, ma nel fotogramma risultava un pennuto minuscolo che non avresti saputo dire se fosse una gazza ladra in uscita premio, il primo cugino di uno storno o un piccolo merletto nel suo mantellino carbone.
Ed è stato in quel momento che è nata la mia personale leggenda di Ghiandy Dick.
Esagerato, direte voi, è stato tutto un caso, e poi chissà se la rivedrai mai più…
Che sia stato un caso, ne possiamo pure discutere, ma sul fatto di non rivederla più…mah…state a sentire ancora…
Non erano passati che pochi giorni, quando, un’altra mattina di buon ora, stavolta però lavorativa e pendolaresca, me ne andavo brut brutto come d’abitudine verso la città, alla guida della mia classica inutilitaria 313 GT. Son lì che percorro una delle strade sul limitar di Gillipixiland, quando da una folta macchia erbosa a corona di un fossato, si leva in volo una qualche creatura non meglio definita. L’esserino esegue una perfetta planata sopra il mio cofano, quasi da spericolata ed esperta scansatrice del traffico, e lambendo praticamente la sommità del parabrezza con la punta delle remiganti primarie, si porta in perfetta vista, ben inquadrata sopra lo schermo del vetro.
A questo punto c’è forse bisogno che vi venga a dire di chi si trattava? Devo proprio perdere del tempo per ribadire che era ancora lei, la vecchia Ghiandy, più in forma e più Dick che mai?
Da allora, va beh, non l’ho più avvistata.
Ma ormai l’epopea di Ghiandy Dick e del Capitano Gillichab aveva avuto inizio, ed io la considero tuttora una storia viva ed attuale.
Bada a te, scaltra Ghiandy Dick! E’ vero, non sarà di certo dall’arpione o dalla lancia ricolma di marinai vocianti che ti dovrai guardare, leggiadra puzzona impiumettata! Mi limiterò a puntarti contro l’obiettivo, se mai ti incontrerò di nuovo nel grande oceano della gillipixitudine, ma sarà pur sempre una cattura, in qualche modo.
E d’altra parte, mica potrei pretendere di più: io nemmeno ce l’ho la gamba di legno. Al massimo ti devi accontentare della mia schiena discretamente cigolante.
ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo…»
“Anna Karenina” Lev Tolstoj - 1877
«…Call me Ishmael…»
“Moby Dick – or, The whale” Herman Melville - 1851
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Chiamatemi pure Ismaele, ma resta il fatto che uno dei luoghi narrativi più frequentati dall’uomo fin da quando ha posseduto la parola unita alla facoltà di raccontare storie, è stato senz’altro quello della sfida con l’ignoto, mescolata alla sospensione su di un senso d’attesa indefinito, fonte al contempo di attrazioni e timori contraddittori.
Avrei potuto dire da subito che uno dei luoghi narrativi più frequentati di sempre è la vita stessa, che si sarebbero risparmiate parecchie ciance. Ma allora “qui” non si chiamerebbe più “andarperpensieri”, bensì “diario di bordo di una mente lineare”.
Dalla Bibbia a Don Chisciotte, passando attraverso l’Odissea, per arrivare sino alla modernità di Melville ed Hemingway, tutte le “Storie più belle della Storia” debbono pagare un tributo più o meno grande a questo fondamentale “angolo” dei territori dell’arte del raccontare.
Si racconta, facendo leva sulla forza attrattiva di una calamita della cui esistenza non si è nemmeno certi. E non sarà forse questo anche il senso della vita stessa?
In ogni caso, a cos’è dovuto codesto mio pippone introduttivo che potrebbe essere posto a cappello di qualsiasi cosa vi volessi raccontare da qui in avanti?
Forse è dovuto semplicemente al fatto che, parafrasando un altro celeberrimo incipit della letteratura mondiale, “tutti i campagnoli felici si assomigliano, mentre ogni campagnolo dalla mente contorta è diversamente normale a modo suo”.
Venendo dunque al nocciolo del mio ben più modesto narrare, dovete sapere che anche io ho recentemente trovato la mia Moby Dick.
Non so se vi è mai capitato di aver a che fare per la prima volta con un concetto, col dato di conoscenza (anche piccolo e modesto) di una porzione di realtà, e ritrovarvelo poi fra i piedi una seconda ed una terza volta nel giro di pochissimo tempo dal momento della presa d’atto della sua esistenza.
Ecco, con la mia Moby Dick, che alla fine scoprirete chiamarsi in realtà Ghiandy Dick, le cose sono andate proprio in questo modo.
Mio fratello mi ha parlato di un uccellino che vedeva spesso nel suo giardino. Me lo ha descritto di dimensioni e fattezze molto simili a quelle di una gazza, però col manto marroncino chiaro, la testolina corredata con un delizioso caschetto variegato e le ali completate da graziose sfumature azzurrine, bianche e nere.
Gli ho naturalmente detto che non avevo la più pallida idea di come si chiamasse. Come già detto in altre occasioni, oltre che contorto mentalmente, sono anche un campagnolo da due soldi: della natura e dei suoi derivati ne so proprio poco. So solo che mi piace esservi più o meno immerso, ma conosco pochissimi nomi di piante e fauna assortita. Di questa cosa mi rammarico e non poco: è un’occasione perduta da vero fesso, lo ammetto. Mi rendo conto di avere a disposizione tutto intorno a me del più bel libro scritto con foglie, rami, pellicce e penne, e non mi sono mai preoccupato più di tanto di approfondirne a dovere la lettura.
Il punto gli è poi che non ho per nulla una mente tassonomica, mi scordo subito i nomi, anche se me li dicono.
Insomma, indovinate un po’ cosa ho fatto, da bravo campagnolo anomalo intriso di coattitudine para-intellettualoide e postmodernista, per saperne qualcosa di più su quell’uccellino: invece che nel giardino o nelle vicinanze del bosco, sono andato a cercare su google. Multimediale, Watson!
Alla fine ho scoperto che l’uccelletto misterioso era ed è una ghiandaia. Ooohhh…stupore!!! Proprio bellina, mi sono detto, ammirandola nelle mille ed una inquadratura che la immortalavano fra le finestrelle sbocciate a iosa dopo aver digitato il suo nome.
La cosa sembrava finita lì, con solo qualche riflessione a strascico circa il fatto che era un po’ una tristezza ‘sta cosa di non averla mai vista dal vivo ma solo dal google.
Era stata comunque già una piccola soddisfazione aver svelato il mistero del nome, quando qualche mattina dopo, un sabato o una domenica, non ricordo bene, mentre reduce da una ronfata professionale sonnecchiavo sbadiglievolmente dinnanzi alla finestra che dà sul giardino, chi non ti vedo far bella mostra di sé sopra un cespugliozzo a pochi metri da casa? Ebbene sì, cari viandanti per pensieri, avreste dovuto esserci: era proprio lei!!! La cara e vecchia Ghiandy in persona, piume e becco tutti compresi nel prezzo della sorpresa.
La potevo ammirare nel suo fulgore, la distanza era favorevolissima, e nella foga dell’esaltazione ho pensato bene di fissarla nel tempo con una bella foto. Sapevo di avere pochissimo tempo, era questione di due battiti d’ala: corro di là, agguanto la macchina, ma devo mettere su il 200 mm., che come tele è ben modesto, ma è pur sempre la massima bocca da fuoco focale attualmente a mia disposizione. Smonto lo zoomino, tolgo ogni tappo stappabile, agguanto il 200 e lo imbocco sulla macchina alla velocità di 1,2 secondi netti, compreso lo scatto del bottoncino apposito, con una celerità da fare invidia al Fantozzi dei tempi d’oro impegnato nella sostituzione della stringa strappata della scarpa mattutina pre-lavorativa.
Torno alla finestra e zac! Ghiandy se n’era già andata. Ma non pensate a chissà quali distanze siderali: l’aggraziata vigliacca s’era spostata solo un poco più in là, posandosi su di un pilastrino che regge le rete di recinzione del giardino, ma giusto quel tanto da portarsi fuori portata del mio teleobiettivo non propriamente roccosiffredeo. Ho azzardato infatti ugualmente l’inquadratura, ma nel fotogramma risultava un pennuto minuscolo che non avresti saputo dire se fosse una gazza ladra in uscita premio, il primo cugino di uno storno o un piccolo merletto nel suo mantellino carbone.
Ed è stato in quel momento che è nata la mia personale leggenda di Ghiandy Dick.
Esagerato, direte voi, è stato tutto un caso, e poi chissà se la rivedrai mai più…
Che sia stato un caso, ne possiamo pure discutere, ma sul fatto di non rivederla più…mah…state a sentire ancora…
Non erano passati che pochi giorni, quando, un’altra mattina di buon ora, stavolta però lavorativa e pendolaresca, me ne andavo brut brutto come d’abitudine verso la città, alla guida della mia classica inutilitaria 313 GT. Son lì che percorro una delle strade sul limitar di Gillipixiland, quando da una folta macchia erbosa a corona di un fossato, si leva in volo una qualche creatura non meglio definita. L’esserino esegue una perfetta planata sopra il mio cofano, quasi da spericolata ed esperta scansatrice del traffico, e lambendo praticamente la sommità del parabrezza con la punta delle remiganti primarie, si porta in perfetta vista, ben inquadrata sopra lo schermo del vetro.
A questo punto c’è forse bisogno che vi venga a dire di chi si trattava? Devo proprio perdere del tempo per ribadire che era ancora lei, la vecchia Ghiandy, più in forma e più Dick che mai?
Da allora, va beh, non l’ho più avvistata.
Ma ormai l’epopea di Ghiandy Dick e del Capitano Gillichab aveva avuto inizio, ed io la considero tuttora una storia viva ed attuale.
Bada a te, scaltra Ghiandy Dick! E’ vero, non sarà di certo dall’arpione o dalla lancia ricolma di marinai vocianti che ti dovrai guardare, leggiadra puzzona impiumettata! Mi limiterò a puntarti contro l’obiettivo, se mai ti incontrerò di nuovo nel grande oceano della gillipixitudine, ma sarà pur sempre una cattura, in qualche modo.
E d’altra parte, mica potrei pretendere di più: io nemmeno ce l’ho la gamba di legno. Al massimo ti devi accontentare della mia schiena discretamente cigolante.
2 commenti:
sono giorni che volevo salutarti achab-gilly e dire a ghiandy-dick che in fondo non sarebbe per lei pericoloso lasciarsi catturare :-)
baci stanchi metà chimera
@->Farly: grazie, cara Farly :-) solo ora il mio scrittino è completo :-) Se riuscirò a "catturare" Ghiandy, l'evento sarà qui sopra istoriato...e poi, è vero, non sarà pericoloso, anche perchè chi avrebbe cuore di far del male a Ghiandy? :-)
bacini pacifisti :-)
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