Riuscire a non pensare.
Fermare completamente il lavorio delle idee. Procedere con la leva del cambio mentale rigorosamente lasciata in folle. Interrompere il flusso energetico fra i neuroni. Allentare quasi completamente la stretta elettrica fra le sinapsi.
Chiamatela come vi pare, ma questa è la condizione che ho spesso desiderato. E non fate gli spiritosi, sostenendo che a giudicare da quel che scrivo, la cosa del non pensare mi riesce già benissimo anche così. Il punto non è tanto quel rumore cerebrale che normalmente mi riecheggia nel cranio, dando vita ai miei sproloqui blogheschi. So benissimo che quello di per sé non ha dignità di pensiero alcuna, ma è pur sempre un ronzio di fondo. Per quanto insulsa e marginale, è pur sempre una presenza molesta.
L’ambito stato a cui mi riferisco ha invece piuttosto qualcosa a che vedere con lo svuotamento del sé auspicato dalla spiritualità orientale, quel sentirsi parte continuativa ed indifferenziata dell’essere globale, pur seguitando a giocare il proprio ruolo umano imprescindibile.
Viene spontaneo domandarsi il perché di una simile esigenza: «…Ma non ti potresti accontentare di un week-end al mare ogni tanto, come un bastardo qualsiasi?...», obietteranno i lettori più attenti e pragmatici.
Il nocciolo della faccenda credo stia nel fatto che il lavorio mentale costa fatica. Non è tuttavia solo questione di pigrizia. Certo, un po’ sarà anche quella. Ma andando ancor più a fondo nel significato del fenomeno, mi sembra di poter dire che la sensazione più fastidiosa associata al fermento del pensiero, consista in una sorta di logorio percepito dell’essere.
Quando si pensa, per quanto più o meno intensamente lo si faccia, ci si sente quasi come una montagna erosa lentamente e dilavata da innumerevoli torrenti che percorrono le sue pendici. Ci si sente un “Uno” minacciato dalla scissione in “molti”. Un mucchietto di sabbia sferzato dal vento, con la conseguente dispersione di innumerevoli granelli del sé nell’angosciante immensità degli spazi universali infiniti.
Non a caso il tipo di riposo che il sonno può garantirci non consiste primariamente in un recupero di forze fisiche, bensì sta soprattutto nello spegnimento momentaneo dell’interruttore del pensiero, magari acceso ad intervalli nella modalità di corrente alternata del sogno, che in effetti è proprio equiparabile ad una versione fantasiosa e più divertente di “non pensiero”.
Esisterà, mi sono chiesto allora, una strada per continuare a rimanere esseri senzienti e pensanti, pur prendendosi di tanto in tanto pause di sollievo da quella sensazione opprimente di deflagrazione interiore? Strada che, sia detto per inciso, se appena possibile dovrebbe escludere gioiose deviazioni di percorso su sentieri quali l’elettroshock o la lobotomia.
Insomma, detto in due parole, esisterà una “strada pigra” alla meditazione?
Sì perché, meditare con tutti i crismi, fino a svuotare la mente da ogni suo contenuto transitorio, come prevede la pratica orientale più pura, non è impresa facile. Occorrono anni di pratica e dedizione, che per un povero pigro si traducono in decenni di goffi tentativi dagli incerti esiti.
Mi sono tuttavia reso conto giusto ieri mattina che esiste un mezzo di “quasi svuotamento del pensato”, praticabile pur continuando a pensare. Basta affidarsi ad un piccolo segreto, più o meno di Pulcinella. Il piccolo trucco sta nel lasciare andare il pensiero immersi in un contesto predominato da entità non pensanti. Non a caso lo scenario che mi ha suggerito la cosa era composto dalla riva del fiume rigogliosa d’erbe piovane, una panchina, la corrente dell’acqua con relativo sciabordio, le nere scie di graziose planate d’uccellini, lo stormire dei pioppi pettinati dal vento, i “piumini” rilasciati dai medesimi in grande copia nell’aria, e soprattutto una solitudine rigorosa nel raggio di alcune centinaia di metri.
Calato in quel continuum di non pensiero diffuso e prevalente, percepivo come il mio pensare stesso si faceva meno minaccioso, meno gravido di gravità. La cosa buffa è stata che non era la prima volta che andavo al fiume e me ne stavo lì da solo. Ma solamente ieri mi è sembrato di aver capito perché quel luogo sa sempre regalarmi serenità e sollievo: perché in giro c’era solo “essere” puro, non turbato da riflessioni su di esso, eccezion fatta per le mie vacue elucubrazioni isolate, che diluite in quel mare magnum di “cosità in se stessa”, risultavano più lievi di un piumino di pioppo.
Fermare completamente il lavorio delle idee. Procedere con la leva del cambio mentale rigorosamente lasciata in folle. Interrompere il flusso energetico fra i neuroni. Allentare quasi completamente la stretta elettrica fra le sinapsi.
Chiamatela come vi pare, ma questa è la condizione che ho spesso desiderato. E non fate gli spiritosi, sostenendo che a giudicare da quel che scrivo, la cosa del non pensare mi riesce già benissimo anche così. Il punto non è tanto quel rumore cerebrale che normalmente mi riecheggia nel cranio, dando vita ai miei sproloqui blogheschi. So benissimo che quello di per sé non ha dignità di pensiero alcuna, ma è pur sempre un ronzio di fondo. Per quanto insulsa e marginale, è pur sempre una presenza molesta.
L’ambito stato a cui mi riferisco ha invece piuttosto qualcosa a che vedere con lo svuotamento del sé auspicato dalla spiritualità orientale, quel sentirsi parte continuativa ed indifferenziata dell’essere globale, pur seguitando a giocare il proprio ruolo umano imprescindibile.
Viene spontaneo domandarsi il perché di una simile esigenza: «…Ma non ti potresti accontentare di un week-end al mare ogni tanto, come un bastardo qualsiasi?...», obietteranno i lettori più attenti e pragmatici.
Il nocciolo della faccenda credo stia nel fatto che il lavorio mentale costa fatica. Non è tuttavia solo questione di pigrizia. Certo, un po’ sarà anche quella. Ma andando ancor più a fondo nel significato del fenomeno, mi sembra di poter dire che la sensazione più fastidiosa associata al fermento del pensiero, consista in una sorta di logorio percepito dell’essere.
Quando si pensa, per quanto più o meno intensamente lo si faccia, ci si sente quasi come una montagna erosa lentamente e dilavata da innumerevoli torrenti che percorrono le sue pendici. Ci si sente un “Uno” minacciato dalla scissione in “molti”. Un mucchietto di sabbia sferzato dal vento, con la conseguente dispersione di innumerevoli granelli del sé nell’angosciante immensità degli spazi universali infiniti.
Non a caso il tipo di riposo che il sonno può garantirci non consiste primariamente in un recupero di forze fisiche, bensì sta soprattutto nello spegnimento momentaneo dell’interruttore del pensiero, magari acceso ad intervalli nella modalità di corrente alternata del sogno, che in effetti è proprio equiparabile ad una versione fantasiosa e più divertente di “non pensiero”.
Esisterà, mi sono chiesto allora, una strada per continuare a rimanere esseri senzienti e pensanti, pur prendendosi di tanto in tanto pause di sollievo da quella sensazione opprimente di deflagrazione interiore? Strada che, sia detto per inciso, se appena possibile dovrebbe escludere gioiose deviazioni di percorso su sentieri quali l’elettroshock o la lobotomia.
Insomma, detto in due parole, esisterà una “strada pigra” alla meditazione?
Sì perché, meditare con tutti i crismi, fino a svuotare la mente da ogni suo contenuto transitorio, come prevede la pratica orientale più pura, non è impresa facile. Occorrono anni di pratica e dedizione, che per un povero pigro si traducono in decenni di goffi tentativi dagli incerti esiti.
Mi sono tuttavia reso conto giusto ieri mattina che esiste un mezzo di “quasi svuotamento del pensato”, praticabile pur continuando a pensare. Basta affidarsi ad un piccolo segreto, più o meno di Pulcinella. Il piccolo trucco sta nel lasciare andare il pensiero immersi in un contesto predominato da entità non pensanti. Non a caso lo scenario che mi ha suggerito la cosa era composto dalla riva del fiume rigogliosa d’erbe piovane, una panchina, la corrente dell’acqua con relativo sciabordio, le nere scie di graziose planate d’uccellini, lo stormire dei pioppi pettinati dal vento, i “piumini” rilasciati dai medesimi in grande copia nell’aria, e soprattutto una solitudine rigorosa nel raggio di alcune centinaia di metri.
Calato in quel continuum di non pensiero diffuso e prevalente, percepivo come il mio pensare stesso si faceva meno minaccioso, meno gravido di gravità. La cosa buffa è stata che non era la prima volta che andavo al fiume e me ne stavo lì da solo. Ma solamente ieri mi è sembrato di aver capito perché quel luogo sa sempre regalarmi serenità e sollievo: perché in giro c’era solo “essere” puro, non turbato da riflessioni su di esso, eccezion fatta per le mie vacue elucubrazioni isolate, che diluite in quel mare magnum di “cosità in se stessa”, risultavano più lievi di un piumino di pioppo.
4 commenti:
Gilly l'immagine del fiume, della quiete, del senso di fusione con quell'angolo di universo è meravigliosa. Zazen di campagna, ma sempre zazen rimane
Bacio chimerico-meditativo
PS "Il punto non è tanto quel rumore cerebrale che normalmente mi riecheggia nel cranio, dando vita ai miei sproloqui blogheschi. So benissimo che quello di per sé non ha dignità di pensiero alcuna" mo te meno! che cavolo il pensiero inutile è postulato fondamentale del blogger, porca zozza me lo hai insegnato tu...
@->Farly: ehehehe :-) grazie Farly...ma dicevo che non ha dignità di pensiero proprio in virtù della sua inutilità...vedi che tutto il discorso torna?...O no? :-)
Bacini attorcigliati :-)
e no! e la dignità sublime dell'inutile dove la mettiamo?la fondamentale poesia di ciò che sembra non servire a nulla, di un attimo buttato lì in un pensiero di una o dieci righe che sia, che però apre una porta tra i neuroni ingarbugliati e permette alla vita di entrare? non è sostenibile, tutto il pensiero, sopratutto quando ripulito del rumore di fondo, ha enorme dignità... pure quando evoca la terza media ;-)
Concordo Farly, e non mi resta che associarmi alla saggezza di blogspot: adskergo, ossia mia inchino all'evidenza della logica :-)
Anzi, dirò di più: oggi più che mai, mentre le menti dei più sono obnubilate dall'utilitarismo più bieco, c'è bisogno di cantori dell'inutilità :-)
Quasi quasi ci scrivo uno scrittino, in proposito :-) vediamo, dai :-)
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