sabato 26 giugno 2010

L’uomo è una bestia!...Iniziata…


Oggi vi propongo un preclaro “argomento-vaccata”, per fare due sorrisi. Poi prometto di uscire dal tunnel dell’arredo idrosanitario (nel senso della cosa scritta l'altro ieri...).

Ma veniamo a noi.
Mi trovavo alcuni giorni addietro a seguire un corso di aggiornamento. Mi vedeste in faccia infatti, che razza di aspetto aggiornato mi ritrovo. Adesso, alla gente che mi chiede: «…come stai?...», non rispondo più né “bene”, né “male”, e neanche “normale”, pensate un po’.
Mi limito solo a dire: «…Mi sento aggiornato...».
Insomma, ero lì a questo corso, quando, in una pausa della lezione, mi reco alla ritirata (espressione altrimenti detta: «…int’óhó cèss!...»). Sul finir della mia performance a “doppio appoggio” (ossia su due piedi, da distinguersi rispetto a quella a “triplo appoggio”: due piedi più il “resto”), son lì che mi sto producendo in una “sgrullatio” liftata a rientrare, quando mi cade l’occhio su di un ammennicolo cessistico posto a latere del water.
Quello che mi colpisce subito è la scritta sovrimpressa sull’oggetto. Non si capisce bene se si tratta della marca o del modello, ma poco importa. Ciò che conta è che, a modo suo, ha qualcosa di geniale: “initial”.
Se vi spiego la funzione dell'oggetto, un po' cominciate a capirmi meglio. In parole povere, si trattava di uno scatolino, appiccicato al muro, e contenente delle salviettine per spazzare preventivamente la tavoletta, onde renderla idonea, nel caso di un “triplo appoggio”, all’uopo presupposto da quel loco seminascosto.
Il fatto che “con poco mi ha fatto divertire molto”, è stato immedesimarmi nei moventi psicologici del personaggio che aveva ideato quella sorta di slogan o pseudo logo che dir si voglia.
Chissà se si sarà trattato di un giovane pubblicitario di buone speranze alle prese col suo primo incarico di “m...”, oppure del modesto impiegato di questa ipotetica fabbrichetta della prima periferia, cui era toccato in sorte l’onere di escogitare il fatidico nomignolo, come “ricompensa” per essere rimasto per ultimo in ufficio, la sera che la “creazione” ebbe luogo.

Fatto sta che la parola “initial”, applicata ad un simile contesto, a me è parsa subito impregnata di una gran rugiada di significati ridanciani e simil-pretenziosi.
Cosa di preciso si sarà mosso nella mente del nostro “fine dicitore” commerciale, è difficile a dirsi. Probabilmente, la prima cosa a cui ha pensato è stato il fatto che doveva in qualche modo sforzarsi di rendere dignitosa una “situazione” solitamente illustrata dai soggetti “più civili” con la specificazione “di m…”.
Sulle prime forse avrà pensato che “Initial” rendesse l’idea di un’iniziazione. Se utilizzi quelle salviettine, puoi considerarti “iniziato” ed addentrarti nella “dimensione misterica” per cui hai varcato quella soglia: la missione non può più spaventarti, ora che, grazie ad “Initial”, sei entrato a far parte della schiera degli eletti.
Il “nostro” dev’esser stato poi anche un acuto osservatore della psicologia umana. Lo si evince da come si è avvinghiato concettualmente al momento cruciale della permanenza media dentro un bagno pubblico. E’ all’inizio infatti, nel momento in metti il primo piede dentro, che si gioca tutto.
Diciamocelo con tutta franchezza, cari amici viandanti per pensieri, anche se spiace abbassarsi a livelli così prosaici: il 90 per cento degli ingressi in un cesso pubblico implicano per ognuno una tale frustata “esperienziale”, che i ricordi di eventuali traumi infantili patiti si fanno al confronto piacevoli pizzicotti del destino. E’ un vero e proprio muro olfattivo e visivo, quello che il più delle volte ci si para innanzi, minaccioso e beffardo, sgradevole e schernente. Ed è giusto in quella piaga lì, che l’acume della “poetica imprenditoriale” ha saputo mettere il dito, in una sorta di invito alla rassegnazione e al coraggio, che tanto in pochi minuti passa tutto.
“Initial”: «…E’ l’inizio, amico, che ti dà più da fare, lì dentro. Poi, superato quello, tutto scorre, tutto fluisce…».
Ma bando ai fraintendimenti: non era mia intenzione, con quanto scritto sopra, infierire più di tanto, su chi, come il nostro simpatico creativo in erba, si è ritrovato ad affrontare l’arduo compito di nominare l’«innominabile», di dare una sagoma riconoscibile a ciò che “storicamente” non è mai stato concettualmente circoscrivibile, né “addomesticabile”.

Mi sono tornati così alla mente diverse reminescenze “culturali” legate a siffatta «indicibilità». La più goliardica riguarda l’istrionico Giorgio Bracardi, che nei panni dello strampalato farmacista dottor Onorato Spadone, ci ha ricordato spesso come l’uomo possa elevarsi ai ruoli più nobili riservati dall’esistenza, da onorevole, a scienziato, a musicista, ecc., ma pur rimanendo sempre una “bestia”, in virtù della sua esigenza periodica di andarsi a sedere sul “vater claus”.



Di conseguenza ho riflettuto su come forse solo l’ironia sia capace di difenderci talvolta dalle cose della vita che proprio non riusciremo mai a capire, o delle quali mai troveremo una spiegazione lineare e completa. Al che mi è tornato alla mente anche uno spazzolino da bagno visto una volta su di una rivista di design, a cui l’eclettico suo disegnatore aveva affibbiato il favolistico nomignolo di “Smerdolino”.

Ma soprattutto ho ripensato a questo passo, una delle cose più “umane” e filosoficamente potenti che mi sia mai capitato di leggere:

«…Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Dorè, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi e il naso e una lunga barba, e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva avere gli intestini. Quell’idea mi faceva venire subito i brividi, perché io, pur appartenendo a una famiglia più o meno atea, sentivo che l’idea degli intestini di Dio era una bestemmia.
Senza alcuna preparazione teologica, spontaneamente, capivo quindi già da bambino l’incompatibilità tra la merda e Dio e, di conseguenza, la discutibilità della tesi fondamentale dell’antropologia cristiana secondo la quale l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. O l’uno o l’altro: o l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e allora Dio ha gli intestini, oppure Dio non ha intestini e l’uomo non gli somiglia…[…]…
Dietro tutte le fedi europee, religiose e politiche, c’è il primo capitolo della Genesi dal quale risulta che il mondo è stato creato in maniera giusta, che l’essere è buono e che quindi è giusto moltiplicarsi. Chiamiamo questa fede accordo categorico con l’essere.
Se ancora fino a poco tempo fa nei libri la parola merda era sostituita dai puntini, ciò non avveniva per ragioni morali, a meno che non vogliate sostenere che la merda è immorale! Il disaccordo con la merda è metafisico. Il momento delle defecazione è la prova dell’inaccettabilità della Creazione. O l’uno o l’altro: o la merda è accettabile (e allora non chiudetevi a chiave nel bagno!), oppure il modo in cui siamo stati creati è inaccettabile.
Da ciò deriva che l’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch…[…]…il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile…».

L’insostenibile leggerezza dell’essere
Milan Kundera - 1984

Ah…in conclusione, solo due brevi constatazioni finali, se proprio non vi fidate della parola di Milan Kundera. Solamente ora mi sono reso conto di aver scritto, io stesso, appena sopra, merda coi puntini. E ultima cosa: mi sono accorto che pure “word”, quando scrivi la parola “merda” per esteso, te la sottolinea con la classica riga ad ondina rossa, che segnala gli errori.
Per il momento vi saluto, cari amici viandanti per pensieri, invitandovi magari a rileggere ancora le considerazioni di Kundera riportate sopra, alla luce del fatto, ora, che pure per la Microsoft la merda non esiste.


giovedì 24 giugno 2010

Voulez-vous vuzela avec moi?...


Oggi in ufficio, durante una pausa bagno, ho combinato un guaio: ero sceso in campo con la paura nelle gambe e senza la giusta concentrazione...mi aspettavo che andasse molto diversamente, ci ho pure messo tutto l'impegno, ma è andata finire che l'ho fatta abbondantemente fuori.

Però dopo, alla donna delle pulizie ho detto: «...Me ne assumo tutte le responsabilità!...».

*******

P.S.:
Mi sa che questo mio scrittino brufoloso, non è stato inteso come intendevo :-)...riporto di seguito la risposta che ho dato a Paolo, nel suo commento, per chiarirne il senso:

«...lo sapevo che la mia metafora romanzata sarebbe stata poco comprensibile :-) In realtà non mi è successo nulla di tutto ciò che ho raccontato, Paolo...chiedo scusa per la poca chiarezza, credevo che l'immagine e il titolo, e soprattutto la frase detta fra virgolette (sentita fino alla nausea l'altro giorno pronunciata dal ct Lippi, e riecheggiata da mille giornalisti) fossero sufficienti a far comprendere il mio racconto allegorico :-)
In realtà era un riferimento alla sconfitta della nazionale...a come quella frase di Lippi, seppur facendogli onore ed essendo tutta degna di rispetto, mi era in sostanza suonata un po' fessa...il senso del mio lieve appunto ironico, era: cosa vuol dire "mi assumo tutte le mie responsabilità", se poi ti porti a casa la tua saccata di milioni come se nulla fosse?
Nell'ipotetica mia avventura, aveva lo stesso senso che dire così alla donna delle pulizie, tanto pulisce lei :-)

Ecco, era questo...scusate se era troppo contorto e se non son stato chiaro :-)...»


domenica 20 giugno 2010

Il gusto vellutato della sconfitta


Dedicato a tutti gli sconfitti.
Come me.


Ci ho sempre trovato qualcosa di malsano nella competizione pura, intesa nel senso esasperato di cui è stata caricata dalla modernità in particolare.
Un retrogusto subdolo di immaturità, ci si può assaporare.
La competizione così concepita, generalmente contempla un vincitore ed uno sconfitto.
Con nettezza.
Detta in altri termini: la competizione, per sua stessa essenza, prevede di sfociare nella creazione di una parte di bene apparente (goduto dal vincitore) e di una parte di male effettivo (patito dallo sconfitto).

«…Cosa fai, vuoi rifondare la costituzione su cui si fondano le leggi della vita?...», obietterà l’attento lettore, «…mai sentito parlare di Darwin o di Aldo Biscardi?...».
Certo, certo…calma, cari amici viandanti per pensieri. Lo so benissimo che è questa realtà stessa in cui siamo calati ad imporci, in misura più o meno accentuata, continue lotte quotidiane, continui motivi di confronto, continui spunti per sfide e messe in discussione di noi stessi.

Quello che intendevo dire è che la competizione dovrebbe essere intesa rivedendone le finalità. L’obiettivo non sarebbe così più da ricercarsi nella vittoria finale, bensì nella ricerca della bellezza. Solo così intendendo i confronti che costantemente la vita ci pone di fronte, si potrebbe giungere a superare la condizione della “sconfitta”, e con essa, la quota di male insita nella competizione intesa in senso distorto.
Le sfide della vita, elevate al livello più nobile della loro accezione, diventerebbero in questo modo non più un faticoso viatico per primeggiare sull’«altro», ma una nuova via per poter vedere nell’«altro» un cooperante, solamente attestato dall’altra parte della barricata, ma impegnato al nostro pari nel raggiungimento dell’espressione di un qualche esito di bellezza.

Solo così, la differenza tra vincitore e sconfitto si potrebbe trasformare in un dettaglio pressoché insignificante: conterebbero solo la bellezza degli sforzi sostenuti nel tragitto e la creazione di un “quantum vitale” nuovo, ottenuto alla fine della sfida, con tutti i contendenti elevati a pari dignità.

Il gioco costruisce, la guerra distrugge.
Solo se il vincitore, chinando alla fine il capo di fronte allo sconfitto, nel rendergli merito con grande senso dell’onore, giungerà a provare una sottile punta di invidia per le sfumature di esistenza che alla sua percezione sono precluse e che invece lo sconfitto ha il privilegio di poter assaporare, si potrà rivalutare la competizione nel senso gioioso del gioco, sminuendone nel contempo la peggiore deriva “guerresca” che attualmente tende ad assumere.

In generale, mi sembra di poter concludere, dal basso della mia insipienza campagnola, che quando il vincitore non possiede quella dose di nobiltà d’animo mista ad una grande “saggezza estetica” in grado di farlo sentire nel medesimo tempo anche un po’ sconfitto, tutti alla fine potranno ritenersi sempre miseramente perdenti.


lunedì 14 giugno 2010

Porco PIL!!!


Cari amici viandanti per pensieri, son tempi duri, per poeti e perdigiorno.
Ad andar per pensieri, mi rimane poco tempo, di questi dì. Mi va ancora bene se non me ne vado direttamente affanculo, altro che per pensieri!
C'è da far andare su il PIL, mica cotica.
Ma si stancheranno di bere Lusconi. Al popolo oboe, e dagli da bere Lusconi oggi, e dagli da bere Lusconi domani, va a finire che l'affetto gli si craxia...Ma saranno monetine sue, al momento debito...

Verranno tempi migliori, per poter tornare insieme a fraseggiar sul nulla, giulivi ed inconsapevoli, come orsetti lavatori islandesi e spensierati.

Per adesso, volevo dirvi che non vi sto trascurando scientemente, son solo vittima delle circostanze.
Appena ritrovo uno straccio d'idea e due spiccioli di tempo fine a se stesso, tornerò puntuale ad occuparmi di voi (...non prendetela come una minaccia, però....).
Nel frattempo, vogliate gradire un classico del "pestoduro", sempre gradito alle menti indirizzate all'assoluta libertà dell'«inutile».



mercoledì 9 giugno 2010

Il romanzo didascalico


Non so se vi ho mai parlato dei romanzi didascalici (in realtà lo so: no, non ve ne ho mai parlato…era solo un piccolo artifizio retorico per attaccar bottone…).

Se appena è possibile, un romanzo, o un racconto, non dovrebbero essere didascalici.
Con la specificazione “didascalico” intendo quel tipo di narrativa che segue il filo del proprio racconto esattamente come se stesse ponendo in sequenza le descrizioni di tante foto, una dietro all’altra.
A dire il vero, un romanzo didascalico non è necessariamente un’opera narrativa scadente: è solo un romanzo che manca di aderire in pieno alla propria essenza di romanzo.

L’arte del romanzo più genuina è equiparabile ad una ricerca filosofica effettuata in presa diretta sul materiale di cui è composta la vita stessa, ossia le “storie” degli uomini. Ciò che rende unica l’indagine romanzesca sta nella sua proprietà di saper conciliare ad un tempo gli aspetti universali e quelli individuali dell’esistenza. Il romanzo propriamente compiuto, mi sa parlare sia di «me», sia dell’«Uomo».

Per ottenere questa sua finalità primaria, il romanzo propriamente compiuto fonde in un tutt’uno parola ed immagine evocata. In pratica, non si coglie più soluzione di continuità alcuna fra le due componenti: la parole straripano nelle loro immagini “di pertinenza”, che a loro volta tornano a contaminare come un’eco le parole da cui hanno preso vita, con arricchimenti di significato. Nei casi più felici, «scritto» ed «evocato» diventano una cosa sola.
Tornando alla metafora iniziale, succede che non si distingue più la foto dalla didascalia, perché tutto è foto, ma tutto è anche didascalia. Si innesca in questo modo un circolo virtuoso generatore di significati (dalla parola all'immagine evocata, e ritorno), dalle potenzialità praticamente senza fine.

Il romanzo didascalico invece è come una sfilata di manifestanti taciturni che reggono dei cartelli: quel che hanno da dire è rimandato in automatico alle cose scritte sulle proprie insegne. Non c’è molta sorpresa, ciò che si vuol dire sta tutto sui cartelli. Giustamente il manifestante se ne sta in silenzio: «…’zzo vuoi da me?...», sembra quasi suggerire con la sua tacita espressione, «…leggiti il cartello e non rompere...».

Non vi avrei mai propinato questo sproloquio semi-indecifrabile, se non mi stesse capitando di leggere proprio in questi giorni un romanzo didascalico. Perlomeno, a me sembra tale: non è mai facile stabilirlo.
Si tratta di «Piano meccanico» (1952), di Kurt Vonnegut.
Tutto sommato, lo reputo un buon romanzo: come accennavo prima, anche quelli didascalici lo possono essere. La sua “didascalicità” consiste tuttavia nel far succedere i fatti narrati come se dovessero sostenere tesi precise, ben delimitate e “squadrate”. L’evocazione, la possibilità d’interpretare, di percorrere sfumature di senso personali, sembrano cercate solo in parte.

La vicenda è una cosiddetta “antiutopia”: si svolge in un futuro più o meno prossimo in cui le macchine stanno gradualmente scalzando l’uomo nel maggior numero di professioni possibili. La società è spaccata in due. Da una parte i tecnocrati: selezionati fin da piccoli in base al quoziente intellettivo, posseggono il sapere necessario per gestire le macchine, e dunque hanno in mano il potere; dall’altra parte, tutti quelli dal QI basso, immiseriti nella propria identità perché spinti verso mestieri sempre meno qualificanti, di man in mano che la necessità dell’intervento umano in quello che era il proprio lavoro di un tempo, viene resa obsoleta dall’automatizzazione.

E’ un libro che sto leggendo volentieri, ci tengo a precisarlo. Potrei quasi dire che mi sta prendendo. Ma le cose che vuol dire, le dice linearmente “per didascalie”. Le vicende sono cristallinamente riferite a dei significati, c’è poco o niente spazio per la suggestione.
Ad esempio c’è un passo in cui viene inscenato uno spettacolo “propagandistico” per i tecnocrati: il copione prevede un personaggio in scena, addobbato con gli stilemi tipici del Dio più familiare (vecchietto dalla barba lunga bianca, veste azzurra, ecc.), che dall’alto di un firmamento scenografico fa cadere di man in mano le “stelle” andate fuori moda, che recano istoriato sopra i relativi nomi: sindacalismo, socialismo, liberismo, individualismo, comunismo, ecc.
L'episodio rimanda così al significato e i conti tornano, quasi come in un teorema.

Sto forse con questo sostenendo che Kurt Vonnegut è scrittore di scarso valore?
Tutt’altro.
Perché nella recente lettura di un’altra sua opera (più nota e matura), «Mattatoio n. 5» (1969), ho notato che a partire da una linearità narrativa molto simile, sa far scaturire la suggestività più ampia.
E questo cambio di registro è prerogativa solo dei migliori.
Inoltre, il suo modo di narrare ha un altro pregio che non saprei meglio spiegare: appena ti ci avvicini, sembra molto insipido, ma al tempo stesso non riesci a distaccartene, e più vai avanti nella lettura, più ti senti calamitato.
Chi è capace di un simile prodigio, dev'essere un narratore di razza.

Come sempre, le vie del romanzo sono proprio infinite.

Per concludere, non ho capito bene nemmeno io quello che ho scritto, ma almeno ho provato a raccontarvelo…



domenica 6 giugno 2010

Larvatus prodeo


«...Life is just what happens to you,
While your busy making other plans...»
Beautiful boy”, John Lennon - 1980


Parafrasando un po’ alla larga gli stupendi versi del poeta, si potrebbe dire che i libri son giusto quella cosa che ti viene a spiegare la vita mentre tu sei indaffarato a viverla.

Non che io abbia mai fatto grandi piani, per tirare avanti. Sono piuttosto il tipo che naviga a vista, in tutte le cose che fa. Però uno straccio di rotta, uno schifo di carta nautica, anche il più sprovveduto dei barcaioli le deve pur improvvisare.

E così mi è successo infatti, anche di man mano che questa piccola grande avventura dello scrivere un blog andava procedendo. E’ partita all’insegna della casualità più assoluta, da principio ho solo provato a mettere per iscritto quello che mi passava per la mente. Andando avanti, non è che la faccenda sia cambiata di molto, ma almeno si sono delineate nella mia idea di blog certe preferenze riguardo cosa scrivere e riguardo come pormi rispetto al lettore. Che poi sono le due coordinate irrinunciabili ed imprescindibili che si devono fissare quando si decide d’iniziare a scrivere.

Cosa scrivere.
Andando di pensiero in pensiero, mio intervento dopo mio intervento sul blog, mi sono accorto che le tematiche da me sviluppate riuscivano meglio se calate a pieno in un’atmosfera di disimpegno e di “filosofeggiamento” simil-poetico, gratuito ed incondizionato.
La questione l’ho già affrontata in diverse occasioni, ma mi piace ritornarci ogni tanto. A volte mi vengono non pochi scrupoli a riguardo. M’immagino un lettore casuale che si imbatta nell’inutilità delle mie riflessioni e si domandi: «...Ma questo Gillipixel, ma cos’è un gran semo imperiale o cosa?...Ci è o ci fa? Con tutti i problemi seri, gli argomenti pressanti che l’attualità ci mette sotto gli occhi ogni giorno, lui non trova niente di meglio da fare che parlare di nulla, sempre e solo di niente?...».
Come ho già detto in altre occasioni, questo blog è una parentesi fra le parole scritte.
Non sono un idiota irresponsabile con gli occhi foderati di prosciutto romanticista, che non si avvede di quanto male si annidi nel mondo. Questo spazio di mie scritture è un tentativo di attuare uno stato di sospensione rispetto a tutta quella “roba seria”, con l’aggiunta della convinzione che i sentieri di una certa “ricerca poetica” (anche del genere più sgangherato, come nel mio caso) siano a volte in grado di scoprire sfumature di senso fra le pieghe della realtà, talvolta precluse persino al ragionamento diretto ed analiticamente più rigoroso.

Come pormi rispetto al lettore, poi.
Questo secondo fattore è venuto di conseguenza al primo. Così come avevo ormai stabilito di affidarmi ad un “manifesto dei contenuti” parallelo al reale, non troppo mescolato con esso, allo stesso modo ne è conseguito che la mia stessa persona vera doveva sparire il più possibile fra queste righe. Mi sono detto che sarebbe stato giusto scrivere come se la mia identità concreta quasi non esistesse. Staccato dal pc e dal monitor, rimanevo pur sempre quel tizio là.
Ma una volta infilate le gambe sotto il tavolino e posate le dita sulla tastiera, diventavo Gillipixel e basta. Solo le mie parole sarebbero “state” in mia vece.
L’intento non è facile, perché alla fine, chiunque scriva e a proposito di qualunque argomento lo faccia, finisce sempre per parlare di sé.

E ora, vi chiedo ancora un grammo di pazienza da spendere col seguente brano tratto da una mia recente lettura. Alla fine, ditemi un po’ voi se la parentela fra quanto ho detto finora e ciò che queste parole vi evocheranno, non è un fatto sorprendente, un’epifania bell’e buona in piena regola:

«…Tranquillità, ordine, equilibrio, comodità: contemplati all’interno di una semplice cornice biografica essi appaiono come pure preferenze, peculiarità psicologiche, inclinazioni. Nella strategia sociale cartesiana, denunciano semplicemente il desiderio di passare inosservati per meglio preservare la propria indipendenza. “Larvatus prodeo”, aveva scritto lo stesso Descartes in un suo appunto, confessando non tanto di indossare una maschera, quanto di voler procedere celato agli sguardi altrui.
Inseriti però nella griglia del sistema filosofico […cartesiano…] in corso di elaborazione, essi acquisiscono un diverso spessore, fino a proporsi come punti di riferimento di un disegno concettuale, di una visione scientifica ed esistenziale assai più vasta.
Il tema principale resta quello del corpo, da cui la mente deve liberarsi affinché il pensiero possa controllarlo e sfruttarne la matericità.
“Considererò me stesso come se non avessi mani, occhi carne, sangue, come se non avessi nessun senso pur credendo falsamente di avere tutte queste cose”, scriveva Cartesio nella prima delle Meditationes, aggiungendo però subito dopo: “Ma è un disegno penoso e faticoso, questo, e una certa pigrizia mi trasporta insensibilmente nell’alveo della mia vita ordinaria”. Non resta quindi che smorzare tutte le passioni, i desideri, le esigenze istintive, attraverso una confortevolezza del vivere riassunta principalmente in quella dell’abitare. Il corpo non deve soffrire né godere eccessivamente, in modo che la mente possa procedere libera da ogni impaccio, distrazione, inganno…».
“Dell’abitare”
Maurizio Vitta – 2008

Larvato, procedo, dunque.
Dice: «…e va beh, ma te mica sei Cartesio…».
Dico: «…e c’hai ragione anche te!…».


mercoledì 2 giugno 2010

Cheese music


Questa mattina presto, immerso nell’avviluppante abbraccio delle lenzuola, fatte complici per l’occasione di uno di quei soavi “sogni-veglia” che ti colgono nel secondo sonno dei giorni che non devi andare al lavoro, ho sentito di nuovo scaricare le “formagge”.
Di per sé non sarebbe un evento eccezionale, se non fosse per il fatto che il vecchio caseificio di un tempo, e semplice magazzino di formaggio in seguito, posto proprio sul limitare della mia avita magione, da diversi anni ha smesso la sua attività.
Nelle contrade calcate da calcagni di ben più alto lignaggio, nelle nordiche lande teatro di gesta eroiche e di romanticismi supremi, l’orecchio dell’impressionabile sognatore suole usualmente prestare la propria suscettibilità a sussurri di fantasmi, a fruscii cagionati da apparizioni non meglio determinate, a folate di venti soprannaturali sprigionati dall’antro dell’«indicibile» all’uopo di giungere a narrare l’«inimmaginabile».
Nella ben più placida Gillipixiland, un modesto animo poetico si accontenta invece dell’eco lunga di un antico gesto frutto della laboriosità popolana, risuonato lungo la scia degli svaporati tempi della mia infanzia, per venirmi ancora a parlare un po’ di essa.

«…Stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» faceva quel suono. Non ho mai saputo bene a quale operazione precisa fosse abbinato. Nella mia fantasia “cinematograf-onirizzante” è sempre stato associato a qualche manovra di spostamento delle procaci forme formaggiose. Dai lunghissimi scaffali del magazzino a qualche carrello trasportatore apposito; oppure dal carrello medesimo ad altri pianali ancora, sempre appositi, ma stavolta disposti dentro un camioncino. Non è importante ormai conoscere l’origine di quei suoni, anche perché sarebbe difficile appurarla a questo punto, ora che tutto l’andirivieni caseario non è più.
Eppure mi capita, di risentirli. Non sono ovviamente più loro. Magari si tratta di altri rumori, provenienti da altri tipi di trambusti domestici che si diffondono nei paraggi. E’ per questo che mi serve una condizione di semi-incoscienza, tipo quella procurata dal sonno, per tornare a confondere questi nuovi indeterminati tonfi, con quelle beneamate sinfonie in do minore per formaggia e casaro.

«…Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere…»: questa frase di Bruce Chatwin, che ritengo una delle cose più belle mai scritte da quando l’uomo conosce l’uso della parola vergata, sa dire tanto anche sulla predilezione nutrita dai fannulloni per la laboriosità, a patto che si tratti di quella altrui.
Anche in questo senso lo «…stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» di allora mi era familiare e caro. Fin da bambino possedevo infatti già sviluppatissimo in me l’istinto del pensionato assiso al cospetto dei lavori in corso. Guardare gli altri lavorare, mi è sempre piaciuto, purché lo facessero loro. E quel sottofondo ritmico dettato dal lavorio di tante persone, mi rassicurava e mi informava costantemente che di là dal grande muro di cinta brulicava vita, passione e volontà di arrivare a sera con l’orgoglio di poter dire “anche oggi ho combinato la mia parte”.

Io non ho fatto in tempo a vedere il caseificio vero e proprio. Quando ero bimbetto, la produzione effettiva era già stata dismessa, mantenendo solo il grande magazzino come base di un florido commercio. Oggi le imposizioni dell’economia hanno “iper-mercatizzato” anche tutta la trafila della produzione del formaggio. Adesso ogni “unità creativa” non sta più in piedi se non sforna come minimo ogni giorno una quantità di forme sufficienti a scongiurare l’osteoporosi di una mandria di elefanti.
Ma tanto tempo fa i “caselli” (voce locale che sta per “caseifici”) sorgevano come funghi, qua e là per il paese. C’era tutto un ciclo connesso, che partiva dalla mucca e attraverso il latte e poi il formaggio, si concludeva col maiale e i conseguenti salami. Ogni caseificio aveva il suo bel “parco porci” annesso, perché i suinetti sono ghiotti dei rimasugli della lavorazione del formaggio, e così tutti i conti tornavano.

Nella fase in cui l’ho conosciuto io, del vecchio caseificio era rimasto solo, e si fa per dire, un ragguardevole magazzino, con tutte le abitazioni annesse e gli edifici che gli facevano da corona, intorno alla grande laboriosa aia. Quel micro-quartiere variegato di architetture cresciute lente nel tempo a seconda delle esigenze di espansione e delle successioni di figliolanze, accoglieva due famiglie in pianta stabile, ed era il centro di gravità per un altro piccolo numero di addetti impiegati nelle faccende formaggesche.
Dalla parte dei “padroni”, ricordo la figura del capofamiglia, eroe hemingwayano ai miei occhi di bambino. Tipo deciso, si era fatto valere nel mondo col suo fiuto per gli affari, e nelle mie fantasie imberbi era legato anche a leggendarie gesta compiute in ambiti sportivi che solo in pochi all’epoca potevano concedersi.
I due figli, come chiunque abbia maturato la prima giovinezza nel cuore degli anni ’70, apparivano altrettanto fascinosi alle mie immaginifiche considerazioni infantili. Bravi negli sport, calcio e tennis in primis, già studenti in città, e protagonisti di “james-deaniane” scorribande per il paese sulla sella del loro “Caballero Fantic Motor 50 cc.”, sogno proibito di tutti i bulletti squattrinati del periodo.

Oltre al ciclo “mucca-latte-forme-maiali”, un'altra importante sequenza biologica dipendeva dalle sorti del microcosmo caseario. Questa forse ancor più nobile e foriera di implicazioni narrative. Mi riferisco alla fatidica triangolazione agro-favolistica “formaggio-topo-gatto”, fonte inesauribile per la fantasia dei raccontatori di novelle di ogni epoca.
L’esercito felino in forza al caseificio dei miei vicini ha significato tantissimo nella mia lunga esperienza di amicizie con questi simpatiche tigri da salotto. Molti dei gatti della mia vita sono derivati da quell’insigne famiglia di guerrieri “topi-fughi”. La loro schiera è sempre stata piuttosto folta e succedeva che qualcuna delle ungulate sferette di pelo addette al safari fra le grattuggiabili sagome, decidesse di stabilire il proprio doppio domicilio dividendosi un po’ fra il caseificio e Gillipixihome.
Se dovessi raccontare tutti i bei ricordi legati ai tanti gatti del caseificio condivisi con sano spirito di buon vicinato, si confonderebbero di certo con le altrettante reminiscenze legate a tutte le brave persone di quella casa, con le quali si sono spartiti nel tempo ottimi rapporti di buon “felinato”.

Di tutto quel che fu il glorioso caseificio della mia infanzia, rimangono praticamente solo le mura, oggi. Le famiglie di allora, sono andate per il mondo, ma sono sicuro che i grandi stanzoni in cui un tempo erano ospitati gli altissimi e lunghi pianali di legno, odorano ancora fortemente dell’oleoso aroma tanto caro a generazioni di topastri avventurosi.

Ma non era tanto per venirvi a raccontare che una volta era meglio di adesso, che mi son messo a scrivere queste cose oggi. “Una volta” è stata, ormai, ed è ferma là, in un posto dove nessuno la può più toccare. Il distanziatore del tempo poi, si sa, tutto edulcora, tutto indora.
Adesso tocca pensare e godere dell’adesso, e se vi ho raccontato queste cose oggi, è stato solo perché nel dormiveglia, stamattina, ho sentito ancora una volta scaricare le “formagge”.