Questa mattina presto, immerso nell’avviluppante abbraccio delle lenzuola, fatte complici per l’occasione di uno di quei soavi “sogni-veglia” che ti colgono nel secondo sonno dei giorni che non devi andare al lavoro, ho sentito di nuovo scaricare le “formagge”.
Di per sé non sarebbe un evento eccezionale, se non fosse per il fatto che il vecchio caseificio di un tempo, e semplice magazzino di formaggio in seguito, posto proprio sul limitare della mia avita magione, da diversi anni ha smesso la sua attività.
Nelle contrade calcate da calcagni di ben più alto lignaggio, nelle nordiche lande teatro di gesta eroiche e di romanticismi supremi, l’orecchio dell’impressionabile sognatore suole usualmente prestare la propria suscettibilità a sussurri di fantasmi, a fruscii cagionati da apparizioni non meglio determinate, a folate di venti soprannaturali sprigionati dall’antro dell’«indicibile» all’uopo di giungere a narrare l’«inimmaginabile».
Nella ben più placida Gillipixiland, un modesto animo poetico si accontenta invece dell’eco lunga di un antico gesto frutto della laboriosità popolana, risuonato lungo la scia degli svaporati tempi della mia infanzia, per venirmi ancora a parlare un po’ di essa.
«…Stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» faceva quel suono. Non ho mai saputo bene a quale operazione precisa fosse abbinato. Nella mia fantasia “cinematograf-onirizzante” è sempre stato associato a qualche manovra di spostamento delle procaci forme formaggiose. Dai lunghissimi scaffali del magazzino a qualche carrello trasportatore apposito; oppure dal carrello medesimo ad altri pianali ancora, sempre appositi, ma stavolta disposti dentro un camioncino. Non è importante ormai conoscere l’origine di quei suoni, anche perché sarebbe difficile appurarla a questo punto, ora che tutto l’andirivieni caseario non è più.
Eppure mi capita, di risentirli. Non sono ovviamente più loro. Magari si tratta di altri rumori, provenienti da altri tipi di trambusti domestici che si diffondono nei paraggi. E’ per questo che mi serve una condizione di semi-incoscienza, tipo quella procurata dal sonno, per tornare a confondere questi nuovi indeterminati tonfi, con quelle beneamate sinfonie in do minore per formaggia e casaro.
«…Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere…»: questa frase di Bruce Chatwin, che ritengo una delle cose più belle mai scritte da quando l’uomo conosce l’uso della parola vergata, sa dire tanto anche sulla predilezione nutrita dai fannulloni per la laboriosità, a patto che si tratti di quella altrui.
Anche in questo senso lo «…stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» di allora mi era familiare e caro. Fin da bambino possedevo infatti già sviluppatissimo in me l’istinto del pensionato assiso al cospetto dei lavori in corso. Guardare gli altri lavorare, mi è sempre piaciuto, purché lo facessero loro. E quel sottofondo ritmico dettato dal lavorio di tante persone, mi rassicurava e mi informava costantemente che di là dal grande muro di cinta brulicava vita, passione e volontà di arrivare a sera con l’orgoglio di poter dire “anche oggi ho combinato la mia parte”.
Io non ho fatto in tempo a vedere il caseificio vero e proprio. Quando ero bimbetto, la produzione effettiva era già stata dismessa, mantenendo solo il grande magazzino come base di un florido commercio. Oggi le imposizioni dell’economia hanno “iper-mercatizzato” anche tutta la trafila della produzione del formaggio. Adesso ogni “unità creativa” non sta più in piedi se non sforna come minimo ogni giorno una quantità di forme sufficienti a scongiurare l’osteoporosi di una mandria di elefanti.
Ma tanto tempo fa i “caselli” (voce locale che sta per “caseifici”) sorgevano come funghi, qua e là per il paese. C’era tutto un ciclo connesso, che partiva dalla mucca e attraverso il latte e poi il formaggio, si concludeva col maiale e i conseguenti salami. Ogni caseificio aveva il suo bel “parco porci” annesso, perché i suinetti sono ghiotti dei rimasugli della lavorazione del formaggio, e così tutti i conti tornavano.
Nella fase in cui l’ho conosciuto io, del vecchio caseificio era rimasto solo, e si fa per dire, un ragguardevole magazzino, con tutte le abitazioni annesse e gli edifici che gli facevano da corona, intorno alla grande laboriosa aia. Quel micro-quartiere variegato di architetture cresciute lente nel tempo a seconda delle esigenze di espansione e delle successioni di figliolanze, accoglieva due famiglie in pianta stabile, ed era il centro di gravità per un altro piccolo numero di addetti impiegati nelle faccende formaggesche.
Dalla parte dei “padroni”, ricordo la figura del capofamiglia, eroe hemingwayano ai miei occhi di bambino. Tipo deciso, si era fatto valere nel mondo col suo fiuto per gli affari, e nelle mie fantasie imberbi era legato anche a leggendarie gesta compiute in ambiti sportivi che solo in pochi all’epoca potevano concedersi.
I due figli, come chiunque abbia maturato la prima giovinezza nel cuore degli anni ’70, apparivano altrettanto fascinosi alle mie immaginifiche considerazioni infantili. Bravi negli sport, calcio e tennis in primis, già studenti in città, e protagonisti di “james-deaniane” scorribande per il paese sulla sella del loro “Caballero Fantic Motor 50 cc.”, sogno proibito di tutti i bulletti squattrinati del periodo.
Oltre al ciclo “mucca-latte-forme-maiali”, un'altra importante sequenza biologica dipendeva dalle sorti del microcosmo caseario. Questa forse ancor più nobile e foriera di implicazioni narrative. Mi riferisco alla fatidica triangolazione agro-favolistica “formaggio-topo-gatto”, fonte inesauribile per la fantasia dei raccontatori di novelle di ogni epoca.
L’esercito felino in forza al caseificio dei miei vicini ha significato tantissimo nella mia lunga esperienza di amicizie con questi simpatiche tigri da salotto. Molti dei gatti della mia vita sono derivati da quell’insigne famiglia di guerrieri “topi-fughi”. La loro schiera è sempre stata piuttosto folta e succedeva che qualcuna delle ungulate sferette di pelo addette al safari fra le grattuggiabili sagome, decidesse di stabilire il proprio doppio domicilio dividendosi un po’ fra il caseificio e Gillipixihome.
Se dovessi raccontare tutti i bei ricordi legati ai tanti gatti del caseificio condivisi con sano spirito di buon vicinato, si confonderebbero di certo con le altrettante reminiscenze legate a tutte le brave persone di quella casa, con le quali si sono spartiti nel tempo ottimi rapporti di buon “felinato”.
Di tutto quel che fu il glorioso caseificio della mia infanzia, rimangono praticamente solo le mura, oggi. Le famiglie di allora, sono andate per il mondo, ma sono sicuro che i grandi stanzoni in cui un tempo erano ospitati gli altissimi e lunghi pianali di legno, odorano ancora fortemente dell’oleoso aroma tanto caro a generazioni di topastri avventurosi.
Ma non era tanto per venirvi a raccontare che una volta era meglio di adesso, che mi son messo a scrivere queste cose oggi. “Una volta” è stata, ormai, ed è ferma là, in un posto dove nessuno la può più toccare. Il distanziatore del tempo poi, si sa, tutto edulcora, tutto indora.
Adesso tocca pensare e godere dell’adesso, e se vi ho raccontato queste cose oggi, è stato solo perché nel dormiveglia, stamattina, ho sentito ancora una volta scaricare le “formagge”.
Di per sé non sarebbe un evento eccezionale, se non fosse per il fatto che il vecchio caseificio di un tempo, e semplice magazzino di formaggio in seguito, posto proprio sul limitare della mia avita magione, da diversi anni ha smesso la sua attività.
Nelle contrade calcate da calcagni di ben più alto lignaggio, nelle nordiche lande teatro di gesta eroiche e di romanticismi supremi, l’orecchio dell’impressionabile sognatore suole usualmente prestare la propria suscettibilità a sussurri di fantasmi, a fruscii cagionati da apparizioni non meglio determinate, a folate di venti soprannaturali sprigionati dall’antro dell’«indicibile» all’uopo di giungere a narrare l’«inimmaginabile».
Nella ben più placida Gillipixiland, un modesto animo poetico si accontenta invece dell’eco lunga di un antico gesto frutto della laboriosità popolana, risuonato lungo la scia degli svaporati tempi della mia infanzia, per venirmi ancora a parlare un po’ di essa.
«…Stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» faceva quel suono. Non ho mai saputo bene a quale operazione precisa fosse abbinato. Nella mia fantasia “cinematograf-onirizzante” è sempre stato associato a qualche manovra di spostamento delle procaci forme formaggiose. Dai lunghissimi scaffali del magazzino a qualche carrello trasportatore apposito; oppure dal carrello medesimo ad altri pianali ancora, sempre appositi, ma stavolta disposti dentro un camioncino. Non è importante ormai conoscere l’origine di quei suoni, anche perché sarebbe difficile appurarla a questo punto, ora che tutto l’andirivieni caseario non è più.
Eppure mi capita, di risentirli. Non sono ovviamente più loro. Magari si tratta di altri rumori, provenienti da altri tipi di trambusti domestici che si diffondono nei paraggi. E’ per questo che mi serve una condizione di semi-incoscienza, tipo quella procurata dal sonno, per tornare a confondere questi nuovi indeterminati tonfi, con quelle beneamate sinfonie in do minore per formaggia e casaro.
«…Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere…»: questa frase di Bruce Chatwin, che ritengo una delle cose più belle mai scritte da quando l’uomo conosce l’uso della parola vergata, sa dire tanto anche sulla predilezione nutrita dai fannulloni per la laboriosità, a patto che si tratti di quella altrui.
Anche in questo senso lo «…stu-tumpf… stu-tumpf… stu-tumpf…» di allora mi era familiare e caro. Fin da bambino possedevo infatti già sviluppatissimo in me l’istinto del pensionato assiso al cospetto dei lavori in corso. Guardare gli altri lavorare, mi è sempre piaciuto, purché lo facessero loro. E quel sottofondo ritmico dettato dal lavorio di tante persone, mi rassicurava e mi informava costantemente che di là dal grande muro di cinta brulicava vita, passione e volontà di arrivare a sera con l’orgoglio di poter dire “anche oggi ho combinato la mia parte”.
Io non ho fatto in tempo a vedere il caseificio vero e proprio. Quando ero bimbetto, la produzione effettiva era già stata dismessa, mantenendo solo il grande magazzino come base di un florido commercio. Oggi le imposizioni dell’economia hanno “iper-mercatizzato” anche tutta la trafila della produzione del formaggio. Adesso ogni “unità creativa” non sta più in piedi se non sforna come minimo ogni giorno una quantità di forme sufficienti a scongiurare l’osteoporosi di una mandria di elefanti.
Ma tanto tempo fa i “caselli” (voce locale che sta per “caseifici”) sorgevano come funghi, qua e là per il paese. C’era tutto un ciclo connesso, che partiva dalla mucca e attraverso il latte e poi il formaggio, si concludeva col maiale e i conseguenti salami. Ogni caseificio aveva il suo bel “parco porci” annesso, perché i suinetti sono ghiotti dei rimasugli della lavorazione del formaggio, e così tutti i conti tornavano.
Nella fase in cui l’ho conosciuto io, del vecchio caseificio era rimasto solo, e si fa per dire, un ragguardevole magazzino, con tutte le abitazioni annesse e gli edifici che gli facevano da corona, intorno alla grande laboriosa aia. Quel micro-quartiere variegato di architetture cresciute lente nel tempo a seconda delle esigenze di espansione e delle successioni di figliolanze, accoglieva due famiglie in pianta stabile, ed era il centro di gravità per un altro piccolo numero di addetti impiegati nelle faccende formaggesche.
Dalla parte dei “padroni”, ricordo la figura del capofamiglia, eroe hemingwayano ai miei occhi di bambino. Tipo deciso, si era fatto valere nel mondo col suo fiuto per gli affari, e nelle mie fantasie imberbi era legato anche a leggendarie gesta compiute in ambiti sportivi che solo in pochi all’epoca potevano concedersi.
I due figli, come chiunque abbia maturato la prima giovinezza nel cuore degli anni ’70, apparivano altrettanto fascinosi alle mie immaginifiche considerazioni infantili. Bravi negli sport, calcio e tennis in primis, già studenti in città, e protagonisti di “james-deaniane” scorribande per il paese sulla sella del loro “Caballero Fantic Motor 50 cc.”, sogno proibito di tutti i bulletti squattrinati del periodo.
Oltre al ciclo “mucca-latte-forme-maiali”, un'altra importante sequenza biologica dipendeva dalle sorti del microcosmo caseario. Questa forse ancor più nobile e foriera di implicazioni narrative. Mi riferisco alla fatidica triangolazione agro-favolistica “formaggio-topo-gatto”, fonte inesauribile per la fantasia dei raccontatori di novelle di ogni epoca.
L’esercito felino in forza al caseificio dei miei vicini ha significato tantissimo nella mia lunga esperienza di amicizie con questi simpatiche tigri da salotto. Molti dei gatti della mia vita sono derivati da quell’insigne famiglia di guerrieri “topi-fughi”. La loro schiera è sempre stata piuttosto folta e succedeva che qualcuna delle ungulate sferette di pelo addette al safari fra le grattuggiabili sagome, decidesse di stabilire il proprio doppio domicilio dividendosi un po’ fra il caseificio e Gillipixihome.
Se dovessi raccontare tutti i bei ricordi legati ai tanti gatti del caseificio condivisi con sano spirito di buon vicinato, si confonderebbero di certo con le altrettante reminiscenze legate a tutte le brave persone di quella casa, con le quali si sono spartiti nel tempo ottimi rapporti di buon “felinato”.
Di tutto quel che fu il glorioso caseificio della mia infanzia, rimangono praticamente solo le mura, oggi. Le famiglie di allora, sono andate per il mondo, ma sono sicuro che i grandi stanzoni in cui un tempo erano ospitati gli altissimi e lunghi pianali di legno, odorano ancora fortemente dell’oleoso aroma tanto caro a generazioni di topastri avventurosi.
Ma non era tanto per venirvi a raccontare che una volta era meglio di adesso, che mi son messo a scrivere queste cose oggi. “Una volta” è stata, ormai, ed è ferma là, in un posto dove nessuno la può più toccare. Il distanziatore del tempo poi, si sa, tutto edulcora, tutto indora.
Adesso tocca pensare e godere dell’adesso, e se vi ho raccontato queste cose oggi, è stato solo perché nel dormiveglia, stamattina, ho sentito ancora una volta scaricare le “formagge”.
2 commenti:
molto molto proustiano e tenero questo racconto :-) baci caseari
@->Farly: ehehhheheh :-) sì, in effetti ho prousteggiato alquanto questa volta, cara Farly :-)
Io vorrei scrivere un bella avventura ricca di azione e colpi di scena, ma mi vengono fuori così, le mie storie :-)
Untingen dice blogspot, nota formaggetta tirolese da mangiarsi con l'hauppi (refresh blospottiano), vinello secco fermo della medesima origine :-)
bacini folti :-)
Posta un commento