mercoledì 9 giugno 2010

Il romanzo didascalico


Non so se vi ho mai parlato dei romanzi didascalici (in realtà lo so: no, non ve ne ho mai parlato…era solo un piccolo artifizio retorico per attaccar bottone…).

Se appena è possibile, un romanzo, o un racconto, non dovrebbero essere didascalici.
Con la specificazione “didascalico” intendo quel tipo di narrativa che segue il filo del proprio racconto esattamente come se stesse ponendo in sequenza le descrizioni di tante foto, una dietro all’altra.
A dire il vero, un romanzo didascalico non è necessariamente un’opera narrativa scadente: è solo un romanzo che manca di aderire in pieno alla propria essenza di romanzo.

L’arte del romanzo più genuina è equiparabile ad una ricerca filosofica effettuata in presa diretta sul materiale di cui è composta la vita stessa, ossia le “storie” degli uomini. Ciò che rende unica l’indagine romanzesca sta nella sua proprietà di saper conciliare ad un tempo gli aspetti universali e quelli individuali dell’esistenza. Il romanzo propriamente compiuto, mi sa parlare sia di «me», sia dell’«Uomo».

Per ottenere questa sua finalità primaria, il romanzo propriamente compiuto fonde in un tutt’uno parola ed immagine evocata. In pratica, non si coglie più soluzione di continuità alcuna fra le due componenti: la parole straripano nelle loro immagini “di pertinenza”, che a loro volta tornano a contaminare come un’eco le parole da cui hanno preso vita, con arricchimenti di significato. Nei casi più felici, «scritto» ed «evocato» diventano una cosa sola.
Tornando alla metafora iniziale, succede che non si distingue più la foto dalla didascalia, perché tutto è foto, ma tutto è anche didascalia. Si innesca in questo modo un circolo virtuoso generatore di significati (dalla parola all'immagine evocata, e ritorno), dalle potenzialità praticamente senza fine.

Il romanzo didascalico invece è come una sfilata di manifestanti taciturni che reggono dei cartelli: quel che hanno da dire è rimandato in automatico alle cose scritte sulle proprie insegne. Non c’è molta sorpresa, ciò che si vuol dire sta tutto sui cartelli. Giustamente il manifestante se ne sta in silenzio: «…’zzo vuoi da me?...», sembra quasi suggerire con la sua tacita espressione, «…leggiti il cartello e non rompere...».

Non vi avrei mai propinato questo sproloquio semi-indecifrabile, se non mi stesse capitando di leggere proprio in questi giorni un romanzo didascalico. Perlomeno, a me sembra tale: non è mai facile stabilirlo.
Si tratta di «Piano meccanico» (1952), di Kurt Vonnegut.
Tutto sommato, lo reputo un buon romanzo: come accennavo prima, anche quelli didascalici lo possono essere. La sua “didascalicità” consiste tuttavia nel far succedere i fatti narrati come se dovessero sostenere tesi precise, ben delimitate e “squadrate”. L’evocazione, la possibilità d’interpretare, di percorrere sfumature di senso personali, sembrano cercate solo in parte.

La vicenda è una cosiddetta “antiutopia”: si svolge in un futuro più o meno prossimo in cui le macchine stanno gradualmente scalzando l’uomo nel maggior numero di professioni possibili. La società è spaccata in due. Da una parte i tecnocrati: selezionati fin da piccoli in base al quoziente intellettivo, posseggono il sapere necessario per gestire le macchine, e dunque hanno in mano il potere; dall’altra parte, tutti quelli dal QI basso, immiseriti nella propria identità perché spinti verso mestieri sempre meno qualificanti, di man in mano che la necessità dell’intervento umano in quello che era il proprio lavoro di un tempo, viene resa obsoleta dall’automatizzazione.

E’ un libro che sto leggendo volentieri, ci tengo a precisarlo. Potrei quasi dire che mi sta prendendo. Ma le cose che vuol dire, le dice linearmente “per didascalie”. Le vicende sono cristallinamente riferite a dei significati, c’è poco o niente spazio per la suggestione.
Ad esempio c’è un passo in cui viene inscenato uno spettacolo “propagandistico” per i tecnocrati: il copione prevede un personaggio in scena, addobbato con gli stilemi tipici del Dio più familiare (vecchietto dalla barba lunga bianca, veste azzurra, ecc.), che dall’alto di un firmamento scenografico fa cadere di man in mano le “stelle” andate fuori moda, che recano istoriato sopra i relativi nomi: sindacalismo, socialismo, liberismo, individualismo, comunismo, ecc.
L'episodio rimanda così al significato e i conti tornano, quasi come in un teorema.

Sto forse con questo sostenendo che Kurt Vonnegut è scrittore di scarso valore?
Tutt’altro.
Perché nella recente lettura di un’altra sua opera (più nota e matura), «Mattatoio n. 5» (1969), ho notato che a partire da una linearità narrativa molto simile, sa far scaturire la suggestività più ampia.
E questo cambio di registro è prerogativa solo dei migliori.
Inoltre, il suo modo di narrare ha un altro pregio che non saprei meglio spiegare: appena ti ci avvicini, sembra molto insipido, ma al tempo stesso non riesci a distaccartene, e più vai avanti nella lettura, più ti senti calamitato.
Chi è capace di un simile prodigio, dev'essere un narratore di razza.

Come sempre, le vie del romanzo sono proprio infinite.

Per concludere, non ho capito bene nemmeno io quello che ho scritto, ma almeno ho provato a raccontarvelo…



4 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

prova galapagos di vonnegut... :-) troppe dice blogspot... troppe che? le tue parole erano giuste in numero e sostanza baci a fumetti

Maffy ha detto...

sottoscrivo Farlocca: prova Galapagos

Gillipixel ha detto...

@->Farly: non bisogna mai sottovalutare la saggezza di blogspot, Farly :-) forse intendeva che erano troppe, non le parole, ma le fregnacce che ho scritto :-)
a me dice adaing, probabilmente il suono di una campanella che rintocca in romanesco: adaing!!! :-)
Bacini a campanella :-)

Gillipixel ha detto...

@->Maffy: grazie del consiglio anche a te, Maffyina...per ora mi sono preso "Ghiaccio nove"...nelle librerie in cui son stato "Galapagos" non l'ho visto, ma me lo sono annotato :-)
Bacini letterari :-)