E’ giunto così anche il momento di riprendere il discorso su Piet Mondrian, lasciato in sospeso qualche giorno fa per non gravare eccessivamente sugli sferici attributi del lettore. La scorsa volta avevo cercato di raccontare tutto ciò che l’opera di Mondrian m’ispirava, come se mi fossi trovato per la prima volta ad osservare i suoi quadri, senza averne mai sentito parlare prima.
Questa scelta è stata suggerita da una questione che a mio giudizio diventa fondamentale tutte le volte in cui ci avviciniamo all’arte moderna. Succede più o meno sempre così: da una parte ci sta l’opera da osservare, considerare, analizzare, gustare, ecc.
Dall’altra ci sta l’osservatore, il “considerante”, l’analizzatore, il degustatore, lo spettatore, il visitatore del museo, ecc.
Nel mezzo si frappone il critico.
Le questioni innescate a questo punto sono diverse. La più brutale, quella che le riassume un po’ tutte, potrebbe essere posta in questi termini: se supponiamo essere l’opera d’arte uno strumento espressivo autonomo, perfettamente in grado di “parlare” mantenendosi nell’ambito delle prerogative concesse dal proprio peculiare “linguaggio” (linee e colori in pittura; plasticità e spazialità in scultura; e così via…), a cosa serve l’intervento del critico, dell’esegeta?
Questo intervento che viene per spiegare, chiosare, approfondire, “tradurre”, non segna in qualche modo anche la sconfitta del linguaggio artistico, non ne sottolinea la sua incapacità di esprimersi per suo conto?
La risposta che riesco a darvi io a questi interrogativi è la seguente: non lo so. Tuttavia credo sia in ogni caso importante farsi queste domande. Le riflessioni che ognuno ne può ricavare rimangono molto stimolanti ed utili nel nostro cammino di comprensione dei significati dell’arte in genere, e di quella moderna in particolare.
Ma torniamo a Mondrian.
Per capire Mondrian occorre sapere che appena prima di lui c’era stato il “Cubismo”. Su questo movimento artistico bisognerebbe aprire un discorso altrettanto lungo di quello che sto facendo per Mondrian stesso. Per non cadere nel gorgo di una serie infinita di scatole cinesi argomentative, dirò solo quanto risulta strettamente utile alla presente trattazione.
Il Cubismo introduce la rivoluzione del “punto di vista plurimo”. Picasso & Co. si sono resi conto che per cercare di capire la realtà attraverso il filtro artistico, non è più possibile raccontarla come se fosse considerata da un punto di osservazione unificato, “mono-posizionato”, privilegiato, quasi riservato ad un’entità superiore. Così era stato per secoli. Il Cubismo fa invece deflagrare le possibilità di osservazione, affermando che ne esistono infinite.
E, si badi bene, il discorso non è limitato al puro meccanismo visivo, che, anzi, è solo il portatore delle conseguenze più immediate ma meno profonde di questa sorta di “rivoluzione estetica”. Ciò che viene introdotto è una prospettiva totalmente nuova di considerare la realtà nella sua interezza, calandosi in innumerevoli “sistemi di riferimento” esistenziali.
Porto un esempio banale, ma che forse può aiutare a capire meglio. Immaginate di essere di fronte ad una persona che vi sta a cuore, un amico, un familiare, l’amore della vostra vita, o simili. State insieme un po’, chiacchierate e lo osservate.
Trascorso il tempo di questa piacevole compagnia, vi viene fatta una richiesta tipo: «…raccontami a parole come rappresenteresti con un’immagine pittorica il rapporto con quel tuo amico, un’immagine che sia in grado di mettere in rilievo non solo il suo carattere e la sua personalità, ma anche tutte le sensazioni che hai provato in questi minuti trascorsi con lui, e non solo, mettici dentro anche tanti ricordi di momenti simili vissuti insieme, ogni sfumatura di idea che ti sei fatta sul suo essere nel mondo…».
A questo punto, converrete con me che un ritratto eseguito nella maniera tradizionale del “punto di vista unico” inizierebbe ad andarvi un po’ stretto (con tutto il rispetto dovuto agli immensi maestri del passato che hanno saputo raccontare meraviglie, pur attenendosi a quella regola rimasta, a causa dei tempi ancora “culturalmente acerbi”, non scardinabile per migliaia di anni).
Questo ha fatto il Cubismo: ha introdotto una deflagrazione dei punti di vista sulla realtà, avvertendoci che essa è troppo sfaccettata, complessa, variegata, per essere abbracciata da un unico sguardo “centralizzato”.
Come s’innesta Mondrian in questo discorso? (e finalmente arrivo al punto…).
Mondrian assorbe senz’altro la lezione cubista, ma a suo modo di vedere essa contiene ancora troppe “scorie”. Il Cubismo per Mondrian rimane inutilmente vincolato al momento percettivo. La percezione delle cose è ancora una fase troppo soggettiva, troppo dispersiva, troppo legata alle sensazioni estemporanee, troppo frammentabile in mille rivoli interpretativi.
Mondrian è convinto che nell’interiorità umana esista un “livello di grado superiore”, capace di andare oltre la dispersività percettiva. Con l’impeccabile puntualità concettuale che gli è solita, dice a questo proposito Giulio Carlo Argan: «…Mondrian pensa che nulla si conosce senza la percezione, ma che l’essenza delle cose non si conosce nella percezione, bensì con una riflessione sulla percezione distaccata dalla percezione: una riflessione in cui la mente opera da sola, con i soli mezzi di cui la fornisce la sua costituzione…».
Ecco, cari amici viandanti per pensieri, detto questo potrei anche chiudere qui, perché il senso di Mondrian sta tutto in queste 48 parole (almeno, word mi dice che sono 48…). Ma siccome mi rimane qualche cartuccia da sparare, spero non vi dispiaccia se mi dilungo ancora un po’.
A parte che non so se avete goduto “a riccio” come me (sempre intellettualmente parlando, ovvio…), nel leggere le 48 parole di Argan, e a pensare che un uomo in grado di concepire un programma simile è esistito veramente, rimane il fatto che alcune cosette da aggiungere effettivamente ci sarebbero.
Insieme a Kant, Mondrian sa infatti che la “costituzione” della mente è uguale per tutti gli umani pensanti e senzienti. I risultati della percezione potranno essere diversificati pressoché all’infinito, o perlomeno nella medesima misura di quanti sono gli esseri umani che percepiscono il mondo, ma la “base costitutiva” di questo incessante lavorio sensoriale, l’«hardware mentale» in dotazione a ciascun umano, è un modello unico per tutti.
A questo punto del ragionamento, Mondrian si domanda: quali sono quegli elementi espressivi in grado di rappresentare un’«interfaccia di sintesi», il più possibile “disinquinata” dall’accidentalità percettiva, ma al tempo stesso non così eterei da lasciarsi sfuggire la presa sui significati effettivi della nostra “costituzione mentale”?
La domanda è molto ardua, ma la risposta, paradossalmente, è quasi banale (pur sottolineando mille volte il “quasi”). Quegli elementi espressivi sono: le linee nere ortogonali, i tre colori fondamentali (rosso, blu, giallo) e la luce, concretizzata dal bianco.
Mondrian depura al massimo la percezione da tutti i suoi caratteri empirici ed accessori, elevandola alla più alta “dignità sintetica” del “fenomeno mentale”.
Mi affido ancora alle sapienti mani di Argan: «…Per fare una pittura che abbia il rigore e la dignità della scienza, Mondrian si propone di trasformare la superficie (empirica) in piano (entità matematica). Suddividendo le superfici mediante le coordinate verticali e orizzontali, risolve in una “proporzione metrica” tutto ciò che, in natura, si dà come altezza e larghezza.
Rimane ciò che si dà nella terza dimensione: e sono le infinite sensazioni variabili secondo il colore locale, la distanza, la luce. E’ questa materia complessa che deve essere ridotta ai “minimi termini”…[…]…A che servono le linee nere? Senza quelle cesure i colori confinerebbero tra loro, si influenzerebbero l’uno con l’altro: tra i valori, per Mondrian, non debbono esserci rapporti di forza, ma metrici, proporzionali. Non sono i sensi, è la mente che deve valutarli...».
E se questo non vi basta, concludo con un altro illuminante passo tratto da «L’arte del ventesimo secolo», di Denys Riout (altro mio fondamentale testo di riferimento per queste sbrodolate artistiche…): «…Ciascuno degli elementi di questo insieme spartano viene scelto innanzitutto per abolire l’arbitrario e disporsi così, senza mediazioni, più vicino all’universale…[…]…Egli cercava un equilibrio dinamico, vivo e antinaturalista al tempo stesso…[…]…[La poetica di Mondrian] fondata sulla “espressione dei rapporti mediante la linea e il colore”, […] appaga le attese dell’esteta, il quale può riconoscervi la “espressione della bellezza della vita umana – immodificabile, ma pur sempre commovente – svincolata dalle banali soddisfazioni e dagli inconvenienti passeggeri”, senza per questo aderire ai presupposti esoterici dell’artista…».
In questo quadro culturale, non stupisce dunque nemmeno il fatto che Mondrian preconizzasse una sorta di “fine dell’arte” intesa nel senso “classico”, fortemente caratterizzato dalle attribuzioni “barocche” e “romantiche” che un po’ tutte le epoche le hanno appiccicato addosso, per sfociare in una società matura nell’ambito della quale la distinzione fra vita ed arte sarebbe divenuta superflua.
Detto ciò, rimane sempre in vigore per ciascuno la sacrosanta libertà di pensare che in fin dei conti si tratti soltanto di quattro linee nere messe in croce, con qualche rettangolino colorato. Io, per quanto mi riguarda, posso solo dire che è una goduria culturale immane.
Poi per il resto, fate un po’ voi.