Esiste una corrispondenza “necessaria” fra i segni di cui il mondo è pervadente ed onnicomprensivo portatore, ed i significati che ad essi l’uomo applica più o meno arbitrariamente, più o meno fondatamente?
Mi è venuto da pormi questa domanda, mentre riflettevo su alcune cose lette riguardo alla poetica del grande maestro catalano Joan Mirò (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983), ovviamente facendo riferimento in principal modo alla storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, mia imprescindibile guida bibliografica per quanto riguarda la materia.
Si obietterà: ma non potevi drogarti anche te, o lavare la macchina, oppure andare all’ipermercato come fanno tutte le persone normali nel fine settimana? Eh, va beh, cari amici viandanti per pensieri, avete ragione pure voi. Ma portate pazienza, cosa ci volete fare, ognuno si fa del male un po’ a modo suo, come meglio gli riesce.
Se fate un attimo mente locale e vi fermate a riflettere su quale possa dirsi l’attività umana forse più caratterizzante e peculiare fra le tante, non andrete molto lontano dall’affermare che essa costantemente risiede nell’atto di «attribuire significati». Magari non ci fa caso più di tanto, oppure l’attitudine gode di un’assiduità talmente stabile da passare ormai quasi inosservata, ma di fatto è questo che l’uomo continuamente fa: attribuisce significati, a tutte le cose e a ciascun fenomeno o essere col quale entri in qualche modo in relazione.
In pratica anche tutti gli altri esseri viventi lo fanno, probabilmente le stesse piante e i vegetali in genere. A fondamento di tutto, sta lo scopo ultimo inseguito da ciascuna porzione di “essere” distribuita nel mondo e circoscritta nei limiti della propria identità: sopravvivere. Solo sul gradino più alto della scala, tuttavia, troviamo un tipo di essere vivente ugualmente preoccupato della propria sopravvivenza materiale, tanto quanto di quella spirituale: l’uomo. Il sopravvivere dunque inteso a partire dalla sua accezione di base, ossia quella che rimanda al puro “rimanere in vita”, sino alla sua più raffinata estrinsecazione che ha a che fare con la tendenza a massimizzare il benessere e possibilmente la gioia e la felicità, minimizzando nel contempo dolore, sofferenza, fastidio ed altre amenità simili: questo è il tipo di “sopravvivere” che muove la propensione umana alla “significazione”.
I significati “attribuiti” dall’uomo alle infinite entità che nel mondo lo circondano, non devono però fare i conti esclusivamente con un’unica origine esterna. A complicare lo scenario ci si mettono anche una miriade di fonti interne, ossia tutto il capitolo dei moti inconsci e più profondi del nostro sentire e percepire la realtà e noi stessi. La “sopravvivenza” dell’uomo non si riduce allora solo ad una questione di corretta interpretazione dei segni esteriori. Essa è perturbata di continuo dalle interferenze, dai disturbi di “frequenza esistenziale”, ininterrottamente introdotti dall’«emittente radio» dell’inconscio.
La faccenda s’ingarbuglia poi ulteriormente, se si tiene conto che il gracchiare radiofonico interiore non solo è fonte di segni ulteriori rispetto a quelli trasmessi dal mondo, ma è esso stesso fattore attivo nell’atto dell’interpretazione della realtà che l’uomo opera attribuendo ad essa significati.
Sì, va beh, ma in tutto questo, si può sapere che minchia c’entra Mirò? Vi confesso che, ad essere proprio sincero, non sono così tanto sicuro che c’entri qualcosa. In ogni caso, dal momento che ormai ho pipponeggiato alla grande da par mio, vado fino in fondo. Se un nesso lo possiamo trovare, a mio avviso sta proprio in quella domanda con la quale ho aperto il presente articoletto.
A quella domanda, Mirò ribatte che non importa dare una risposta. L’espressione artistica di Mirò, la sua “soluzione figurativa”, si pone esattamente sul limite condiviso da segno e da significato. Non parteggia per nessuno dei due, non vuole indagare se il secondo renda conto correttamente del primo, né gli interessa proporre nuovi significati interpretativi dei segni tratti dal mondo. A Mirò basta sapere che così è.
«…Se le immagini di Mirò si configurano come stelle o falci di luna o corolle e stami di fiori v’è certamente una motivazione inconscia; ma è tale l’evidenza, la chiarezza del segno e del colore che non si cerca alcun significato secondo al di là della percezione. La profondità dell’inconscio si risolve totalmente nella superficie dell’immagine visiva. Tra la motivazione occulta e l’evidenza scoperta dall’immagine c’è soltanto l’azione del pittore. La motivazione non è una causa a cui corrisponde logicamente un effetto, è un impulso che si trasmette e perdura nel gesto che forma l’immagine...[…]. L’immagine non è una proiezione, ma un prolungamento dell’essere profondo dell’artista: un venire a galla per respirare una boccata d’aria, brillare per un istante al sole…».
“L’arte moderna”
Giulio Carlo Argan - 1970
Aggiunge ancora il professor Flavio Caroli:
«…Quando lo spazio rinascimentale diventerà pura placenta stellare o psichica, lo scopo sarà raggiunto…[…]…Mirò ha agguantato la liquidità dello spazio…».
“La storia dell’arte raccontata da Flavio Caroli” – 2001
La pittura di Mirò non è dunque imitazione dei segni del mondo e nemmeno loro interpretazione, né un misto delle due cose. Esprime invece la meraviglia pura insita nell’atto umano di cogliere percettivamente ed emotivamente il mondo dentro e su di sé. Mirò affranca il gesto pittorico dal duplice obbligo di essere testimone dei “segni” reperiti nel mondo, oppure di essere tramite all’espressione di loro possibili “significati”. La “sopravvivenza”, nella poetica del maestro spagnolo, si scrolla di dosso la pesantezza della necessità, per divenire propensione ammantata dal velo lieve della gratuità.
«…E’ il segno stesso, come traccia del gesto, che conduce all’origine del mito, al punto d’indistinzione e comunicazione tra vita biologica e psichica: ad una condizione veramente naturale dell’essere…[…]…la pittura di Mirò è chiaramente ludica, non “seria”… […]…Con la sua tecnica spontanea, ad una società che tanto meno crea quanto più produce Mirò dimostra che, se il produrre è fatica, il creare è gioco…».
Per concludere, cari amici viandanti per pensieri, come anche questo mio nuovo articoletto sta a dimostrare, è sempre molto arduo trattare questi argomenti così complessi e per loro natura fuggevoli quando sono estrapolati al di fuori del mezzo espressivo di loro competenza, ossia segno grafico e colore.
Consoliamoci pensando che a parlare d’arte, difficilmente ci si azzecca, ma perlomeno non si fa peccato.
Mi è venuto da pormi questa domanda, mentre riflettevo su alcune cose lette riguardo alla poetica del grande maestro catalano Joan Mirò (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983), ovviamente facendo riferimento in principal modo alla storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, mia imprescindibile guida bibliografica per quanto riguarda la materia.
Si obietterà: ma non potevi drogarti anche te, o lavare la macchina, oppure andare all’ipermercato come fanno tutte le persone normali nel fine settimana? Eh, va beh, cari amici viandanti per pensieri, avete ragione pure voi. Ma portate pazienza, cosa ci volete fare, ognuno si fa del male un po’ a modo suo, come meglio gli riesce.
Se fate un attimo mente locale e vi fermate a riflettere su quale possa dirsi l’attività umana forse più caratterizzante e peculiare fra le tante, non andrete molto lontano dall’affermare che essa costantemente risiede nell’atto di «attribuire significati». Magari non ci fa caso più di tanto, oppure l’attitudine gode di un’assiduità talmente stabile da passare ormai quasi inosservata, ma di fatto è questo che l’uomo continuamente fa: attribuisce significati, a tutte le cose e a ciascun fenomeno o essere col quale entri in qualche modo in relazione.
In pratica anche tutti gli altri esseri viventi lo fanno, probabilmente le stesse piante e i vegetali in genere. A fondamento di tutto, sta lo scopo ultimo inseguito da ciascuna porzione di “essere” distribuita nel mondo e circoscritta nei limiti della propria identità: sopravvivere. Solo sul gradino più alto della scala, tuttavia, troviamo un tipo di essere vivente ugualmente preoccupato della propria sopravvivenza materiale, tanto quanto di quella spirituale: l’uomo. Il sopravvivere dunque inteso a partire dalla sua accezione di base, ossia quella che rimanda al puro “rimanere in vita”, sino alla sua più raffinata estrinsecazione che ha a che fare con la tendenza a massimizzare il benessere e possibilmente la gioia e la felicità, minimizzando nel contempo dolore, sofferenza, fastidio ed altre amenità simili: questo è il tipo di “sopravvivere” che muove la propensione umana alla “significazione”.
I significati “attribuiti” dall’uomo alle infinite entità che nel mondo lo circondano, non devono però fare i conti esclusivamente con un’unica origine esterna. A complicare lo scenario ci si mettono anche una miriade di fonti interne, ossia tutto il capitolo dei moti inconsci e più profondi del nostro sentire e percepire la realtà e noi stessi. La “sopravvivenza” dell’uomo non si riduce allora solo ad una questione di corretta interpretazione dei segni esteriori. Essa è perturbata di continuo dalle interferenze, dai disturbi di “frequenza esistenziale”, ininterrottamente introdotti dall’«emittente radio» dell’inconscio.
La faccenda s’ingarbuglia poi ulteriormente, se si tiene conto che il gracchiare radiofonico interiore non solo è fonte di segni ulteriori rispetto a quelli trasmessi dal mondo, ma è esso stesso fattore attivo nell’atto dell’interpretazione della realtà che l’uomo opera attribuendo ad essa significati.
Sì, va beh, ma in tutto questo, si può sapere che minchia c’entra Mirò? Vi confesso che, ad essere proprio sincero, non sono così tanto sicuro che c’entri qualcosa. In ogni caso, dal momento che ormai ho pipponeggiato alla grande da par mio, vado fino in fondo. Se un nesso lo possiamo trovare, a mio avviso sta proprio in quella domanda con la quale ho aperto il presente articoletto.
A quella domanda, Mirò ribatte che non importa dare una risposta. L’espressione artistica di Mirò, la sua “soluzione figurativa”, si pone esattamente sul limite condiviso da segno e da significato. Non parteggia per nessuno dei due, non vuole indagare se il secondo renda conto correttamente del primo, né gli interessa proporre nuovi significati interpretativi dei segni tratti dal mondo. A Mirò basta sapere che così è.
«…Se le immagini di Mirò si configurano come stelle o falci di luna o corolle e stami di fiori v’è certamente una motivazione inconscia; ma è tale l’evidenza, la chiarezza del segno e del colore che non si cerca alcun significato secondo al di là della percezione. La profondità dell’inconscio si risolve totalmente nella superficie dell’immagine visiva. Tra la motivazione occulta e l’evidenza scoperta dall’immagine c’è soltanto l’azione del pittore. La motivazione non è una causa a cui corrisponde logicamente un effetto, è un impulso che si trasmette e perdura nel gesto che forma l’immagine...[…]. L’immagine non è una proiezione, ma un prolungamento dell’essere profondo dell’artista: un venire a galla per respirare una boccata d’aria, brillare per un istante al sole…».
“L’arte moderna”
Giulio Carlo Argan - 1970
Aggiunge ancora il professor Flavio Caroli:
«…Quando lo spazio rinascimentale diventerà pura placenta stellare o psichica, lo scopo sarà raggiunto…[…]…Mirò ha agguantato la liquidità dello spazio…».
“La storia dell’arte raccontata da Flavio Caroli” – 2001
La pittura di Mirò non è dunque imitazione dei segni del mondo e nemmeno loro interpretazione, né un misto delle due cose. Esprime invece la meraviglia pura insita nell’atto umano di cogliere percettivamente ed emotivamente il mondo dentro e su di sé. Mirò affranca il gesto pittorico dal duplice obbligo di essere testimone dei “segni” reperiti nel mondo, oppure di essere tramite all’espressione di loro possibili “significati”. La “sopravvivenza”, nella poetica del maestro spagnolo, si scrolla di dosso la pesantezza della necessità, per divenire propensione ammantata dal velo lieve della gratuità.
«…E’ il segno stesso, come traccia del gesto, che conduce all’origine del mito, al punto d’indistinzione e comunicazione tra vita biologica e psichica: ad una condizione veramente naturale dell’essere…[…]…la pittura di Mirò è chiaramente ludica, non “seria”… […]…Con la sua tecnica spontanea, ad una società che tanto meno crea quanto più produce Mirò dimostra che, se il produrre è fatica, il creare è gioco…».
Per concludere, cari amici viandanti per pensieri, come anche questo mio nuovo articoletto sta a dimostrare, è sempre molto arduo trattare questi argomenti così complessi e per loro natura fuggevoli quando sono estrapolati al di fuori del mezzo espressivo di loro competenza, ossia segno grafico e colore.
Consoliamoci pensando che a parlare d’arte, difficilmente ci si azzecca, ma perlomeno non si fa peccato.
5 commenti:
E bravo Gill, abbiamo così appreso che Mirò è profondamente farlocco e che Farlocca è profondamente Mironiana.
A proposito quando Farlocca ritornerà a scrivere?
Un saluto ad entrambi:-)
@->Paolo: mi spiace, Paolo, ma non saprei rispondere alla tua domanda...so solo che Farly per ora ha chiuso il blog...magari, se passa di qui per un commento, sarà lei stessa a rispondere alla tua curiosità :-)
Io e Farly siamo una chimera spirituale, abitiamo a miglia di distanza, anche se spesso entriamo in sintonia abbastanza bene :-) Una metà della chimera non sa bene cosa pensa l'altra metà, però sa spesso cosa sente :-)
Essendo dunque la decisione di scrivere una facoltà di pertinenza del sapere più che del sentire, su questo argomento non so dirti granchè :-)
Però è vero, non ci avevo pensato: Mirò è parecchio farlocco, ovviamente nel senso nobilitante e di alta classe che contraddistingue la mia cara amica Farly :-)
Ciao Paolo e grazie del commento :-)
ehm mica l'ho tanto capita la domanda... ma mirò lo amo molto, apprezzo la leggerezza dei suoi racconti visivi. ogni volta che guardo una sua opera mi viene da pensare che mentre io sto lì e "pipponeggio" sul senso del suo tratto, lui stia ridendo a crepa pelle del medesimo pipponeggiare... :-D
gran bel pezzo gilly mi sono molto divertita a leggerlo.
Mi piace molto la descrizione che hai dato della nostra chimera, fatta di sentire e molto, molto immateriale. condivido.
Sullo scrivere non so nemmeno io che dire, molto dipende dal tempo a disposizione, attualmente pochissimo. un blog è un oggetto che merita cura, se non hai tempo di curarlo e coccolarlo è meglio non averlo. cose da dire ne ho sempre, infatti avevo pensato di comprarmi una maglietta molto carina che fanno quelli di "made in Jail" (http://www.madeinjail.com/), sopra c'è scritto:
Mai stata zitta
mi sa che mi si addice :-)
bacini sogghignanti
Farly: eehehehe, non ci crederai, cara Farly, ma nemmeno io mi sono capito più di tanto mentre me la facevo :-)
No, ehm, ecco, in pratica il senso era questo: i significati che attribuiamo alle cose del mondo, hanno una rispondenza effettiva con la realtà, oppure sono solo applicati sovrastrutturalmente? Non so se riesco a spiegarmi nemmeno ora, ecco :-) ma mi pare una questione fondamentale, nel caso dell'arte...di lì passa la differenza tra il tracciare segni a casaccio, oppure segni che abbiano una rispondenza effettiva con qualcosa che ci "parli" veramente...
Più di così non riesco ad esplicarmi :-)
Ad ogni modo, grazie per la tua solita pazienza nel leggere i miei spropositi :-) riguardo al tuo scrivere, spero torni presto un tempo in cui potrai farlo di nuovo, mi mancano i tuoi scritti :-)
Bacini mai zitti :-)
@->Farly: aggiungo una piccola postilla, Farly :-) la corretta interpretazione dei segni del mondo, la rispondenza effettiva tra essi e significati che attribuiamo loro, non è importante solo per l'arte, ovviamente...è fondamentale anche per la vita in generale, per la "sopravvivenza", come ho appunto detto...
Prendi tante ideologie, come il comunismo o altre...in gran parte hanno applicato al mondo significati che alla resa dei conti si sono rivelati non effettivamente rispondenti alla natura vera delle cose, causando in tantissimi casi danni immani...
Ecco, insomma, non mi sembra una questione da poco :-) è che spiegarla non è mica così facile :-)
Bacini postilli :-)
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