Oh, oh...spetta che arriva...spetta spetta...è lui, sta un po’ in là che mi scanso veh: «...Vrooommmm...sdradadrang...puff piff...trik trak...prot...». Passato. Era il 2012 e in un modo o nell’altro, l’ho mezzo schivato. L’altra metà me la sono beccata tutta nei denti, ma fa niente, non sempre le cose riescono bene al 100%.
Vedremo un po’ come si comporterà questo suo immediato successore. Di solito, coi vaticini buffamente numerologici che sono uso fare a ridosso del Capodanno, ci ho sempre beccato molto poco. Ma questo non è un buon motivo per cavarmi proprio stavolta i miei pantaloni di mago blogger con le toppe al sedere. D’ora in avanti, nessun oroscopante al mondo potrà mai più essere criticato, perché la sua scusa sarà immediatamente pronta. La potrà scrivere addirittura a chiosa del proprio biglietto da visita: «...Se hanno cannato persino i Maya, potrò concedermi qualche imprecisione pure io! O no?!?!?...».
L’anno nuovo avrà sul finale un numerillo simpatico: il 3 (….Ma va?!?!?...). Dice che sia un tipo perfettino. Mah...a me non dispiace, in effetti. Con quelle sue due pancette rotondine, si presenta gioviale e compagnone. Com’è accaduto per alcuni degli anni recenti, m’impensierisce un po’ anche stavolta quella prominenza maliziosa ed aggettante che si ritrova nelle sue zone inferiori. L’incavo del semicerchio più basso potrebbe offrirsi infatti come un ottimo sedile su cui adagiarsi, una specie di amaca accogliente, addirittura. Occhio però a non sedersi troppo in punta, ne potrebbero scaturire sorprese non proprio gradite.
«...Vorresti forse dire che sarà un anno di grandi ronfate?...». Mah, no, non necessariamente. Più che altro si confida nel suo senso di ospitalità. Ecco, sì: se il 2013 sarà un anno accogliente, potremo dirci già abbastanza contenti, secondo me. Il suo omologo sferragliante appena trascorso non è mica stato un gran campione, in questo senso. Ci ha fatto sedere per quasi tutto il tempo su quel malagevole sedile reclinabile di legno da terza classe ferroviaria, che era la gambetta orizzontale del suo “2”, con tanto di schienale scomodo a completare il senso di disagio. Il 2013 promette più rotondità: non sarà molto, ma pare un piccolo buono indizio.
Per Natale vi ho augurato di amoreggiare con la vita. Stavolta, il mio augurio per il 2013 è invece di poter incappare in tante epifanie. Non intendo solo quelle del lettore e nemmeno voglio dire che possiate trovare sulla vostra strada uno stuolo di Befane. Parlo più generalmente delle epifanie esistenziali, tutti quei piccoli o grandi stupori che costellano il nostro tempo biografico. Non importa quanto insignificanti possano essere agli occhi del mondo, questi micro-avvenimenti: il loro valore sta soprattutto negli occhi di chi li vive. Piccoli tasselli nel mosaico della nostra gioia, eventi dalla repentina luminosità, meteore spirituali che giungono da chissà dove per farci provare attimi di espansione interiore, sposata nello stesso tempo ad una sintonia particolare con il “fuori da noi”. Questo vi auguro, cari amici viandanti per pensieri: tanti stupori epifanici vi facciano spesso compagnia.
E per concludere, anche se non c'entra granché come tematiche, vi saluto per il momento proprio con una piccola epifania del lettore che mi ha colto proprio in questi giorni. E' di un tizio che indubbiamente sa scrivere e, epifania nell'epifania, stupisce immensamente il fatto che sappia scrivere così:
«...Ehi! Ma che...? Perry, stai scherzando? La tua mamma guida una Rolls? Sei...ricco?
Immagino di sì.
Perché non me l’hai detto?
Non me l’hai mai chiesto.
Per me questa è la definizione di ricco: non ti passa per la testa di dirlo al tuo migliore amico. E il denaro è una cosa così scontata che non ti curi di come l'ottieni. Perry, tuttavia, è più che ricco. E' superricco. E' Paperon de' Paperoni. Suo padre, socio anziano di un importante studio legale, possiede una stazione televisiva locale. Vende aria, dice Perry. Immagina. Vendere aria. Quando puoi vendere aria è segno che sei arrivato...».
Come mai dico che stupisce il suo saper scrivere? Beh, perché questo tizio ha passato la maggior parte della sua vita con una racchetta da tennis in mano, facendone un sommo strumento di bellezza sportiva, ed ora si scopre che anche con la penna fra le dita non scherza per niente. Il brano è tratto da «Open – La mia storia», autobiografia di Andre Agassi.
Buon 2013, cari amici viandanti per pensieri: poetici ed epifanici auguri a tutti voi.
Avete presente quelli che fanno brutti sogni per aver visto un film dell’orrore? Beh, io stamattina, nel ronfiveglia, ho surclassato chiunque in stramberia. Ho fatto un sogno meravigliabondo per aver visto ieri sera in tele «Piovono polpette»!
Come faccio ad essere sicuro che sussista un nesso causa-effetto fra le due cose? Ma ci mancherebbe altro che ne fossi sicuro! Però lo so. Si è trattato più di una affinità di strutture estetiche, che non di un vero e proprio riecheggiamento per temi. Il mio sogno, pur non ricalcando in niente la trama del film (a parte forse qualche dettaglio…), era tuttavia intessuto di un’aura “Piovonopolpettesca” di fondo.
Tanto per dirvene una, nel mio sogno potevo volare. E’ una situazione che ricorre spesso nelle mie scorribande oniriche. A volte posso fare salti spropositati e mi libro iper-zompettante nel cielo, sospinto soltanto dalla semplice gioia di farlo, con conseguenti atterraggi morbidi, e una volta giù, sono subito pronto di nuovo a ribalzare in alto. Posso fare semplicemente leva sull’aria con le palme delle mani, ed incredulo di contentezza, mi elevo, mi elevo, mi elevo. In altri sogni invece, volo proprio: mi innalzo, plano, posso fare virate ampie, mentre sotto tutto scorre in landscapevole distesa. Al riguardo, lo zampino di «Piovono polpette» un po’ c’è: nel film, è tutto un su e giù di oggetti alimentari che vagano nell’aere ed il finale è incentrato su un’ascesa al cielo per andare a disinnescare il beffardo uragano di cibo causato dal candido inventore, protagonista del film.
Solitamente, quando un mio sogno mette in gioco capacità non contemplate nel repertorio delle umane prerogative in stato di veglia, mi s’innescano paralleli e stranissimi meccanismi di incredulità paragiustificative a raffica. In parole povere, pur essendo immerso in quegli attimi nel mio Es più profondo, e tacendo nel contempo tutto l’Io nella sua interezza, quest’ultimo riesce pur sempre a fare capolino, per guastare un po’ le feste. Allora una vocina di sottofondo, molto fioca, ma sufficientemente chiara per farsi sentire, mi sussurra da dietro le quinte del mio inconscio: «...Ma no, Gillipix, non è possibile: gli uomini non volano, sei chiaramente dentro ad un sogno...». Cosa che mi fa dibattere a più riprese in un’alternanza di stati di consapevolezza ad assetto variabile: d’accordo sto sognando, mi dico anche, ma è così realistico che non m’importa se non si può. E vado avanti di questo passo, continuamente retro-considerando nel sottoscala del godimento estetico inconsapevole del momento, mentre le vicende del sogno si dipanano irrefrenabili.
Nel caso del sogno “Piovonopolpettoso”, la vocina mi avvertiva sempre, ma io la fregavo. Volavo, sì, ma ciò accadeva in virtù di un velivolo non meglio specificato. Mi trovavo pur sempre nella giurisdizione del mio Es e, si sa, pur potendo intervenire in qualche modo, l’Io si lascia fregare facilmente, in quei territori. Insomma, volavo con sotto il culo una qualche macchina, ed al mio Io questo bastava. Volavo sopra belle architetture, le vedevo molto chiaramente. Erano palazzi alti, o distese di casette: tutto così vero. Era una grande città, era Milano. Era una Milano ideale, anche se ad un certo punto, ho circumnavigato il Pirellone, bello e imponente come non lo avevo mai visto dal vero (e questo passo dovrebbe bastarvi, se avevate ancora dubbi che la fonte d’ispirazione sia stata veramente «Piovono polpette»…).
Ho volato a lungo, apprezzando il panorama dall’alto, stavo bene, in una varietà strabiliante di cambiamenti del paesaggio, fino a quando mi sono ritrovato fra periferia e campagna, dove qualcuno mi invitava a planare a terra. Era un ragazzo, un giovane uomo, una persona cara, anche se non lo conoscevo. Ho accettato l’invito alla discesa e mi sono adagiato in un campo, non so bene se arato o cosa, ma in ogni caso un campo di nuda terra. Non faccio a tempo a consultarmi col mio amico, che passa una signora, una simpatica vecchietta, in sella ad una bici che lasciava vistose tracce con le gomme sulla terra molliccia, e pedalando di gran lena, bofonchiava mozziconi di frasette in dialetto milanese: «…Uhè…cùme se fa? Sé pöl nò andà avanti inscì…» o cose buffe di questo tipo.
Sulla scia dei bofonchiamenti vetero-meneghini, il mio nuovo amico mi invita ad entrare in una piccola palestra, attrezzata per il gioco della pallacanestro. Lì dentro, è un po’ come all’interno del castello di gelatina di «Piovono polpette». Provo a prendere un pallone da basket, di vari che vedo in una cesta, ma quando li tocco mutano forma, e se provo a palleggiare, rimbalzano senza logica, sfuggono di qua e di là con anarchico moto. Stranamente, la cosa non mi dà fastidio, anzi, sento che sotto sotto, una logica ci deve essere, anche se, insieme alla palla, io non riesco ad afferrarla, ma sono contento così. La presenza dell’amico è gradevole, nella palestra si sta bene, compaiono anche altri individui, pure loro sconosciuti, ma sempre persone care, come in fondo sono quasi tutti i personaggi che si susseguono nelle vicende di un cartoon.
Poi d’un tratto mi sveglio. Constato con piacere di ricordare per sommi capi gli eventi sognati e rivado col gusto della memoria vigile ai tratti salienti di quelle buffe situazioni. Intanto penso che, pur essendo questo uno dei sogni meno strani che abbia mai fatto, potrei raccontarlo ai miei cari amici viandanti per pensieri. E prima di abbandonare le coltri ed il mondo dell’indefinitezza orizzontale per una nuova giornata in verticale, mi sorprende subitanea un’ulteriore riflessione: «...Minchia, la devo smettere una buona volta di guardare questi film impegnati!...».
Ma soprattutto, subito a ruota, l'interrogativo più inquietante mi coglie: «...Se dopo aver visto “Piovono polpette”, mi sono sognato di piovere io stesso dal cielo, vorrà forse dire che nel mio intimo mi reputo sostanzialmente una polpetta?...».
Lo so che adesso vi verrà spontaneo dire: «…Ma il giorno di Natale, non c’avevi proprio niente di meglio da fare?...». D’accordo, d’accordo…
Però quando certe notizia ti fanno leggermente girare i ciglioni (che sarebbero i “coglioni” dopo esser passati sotto la censura correzionale di word), non ci sono feste che tengano. Non è propriamente quella che si dice una notizia dell’ultima ora, ma sapete com’è, qui in campagna le cose si sanno sempre dopo.
Quello che ho scoperto con ritardo insomma, è che i grandi colossi di internet, quelle super-mega-ultra-società multinazionali che fanno incassi da cinema, giungendo ad accumulare capitali in qualche caso di gran lunga superiori a quanto contenuto nelle casse stesse di molti Stati, non pagano le tasse. Abbiamo voglia noi, cari miei, a lamentarci dell’IMU e di Monti…Qui si parla di evasioni ultramilionarie, se non miliardarie.
Cito una fonte al di sopra di ogni sospetto, la Guardia di Finanza (il brano è tratto da una relazione presentata ad inizio novembre al Ministro dell’Economia e delle Finanze Vittorio Grilli):
«...Siamo dell’opinione che alcuni soggetti economici si sottraggano al pagamento delle imposte in misura adeguata rispetto alla loro effettiva capacità contributiva, sfruttando l’inidoneità delle attuali norme tributarie a sottoporre a giusta tassazione i redditi e i patrimoni dei soggetti, imprese o individui, che sfruttano opportunità offerte dalla globalizzazione. A riscontro di quanto andiamo affermando citiamo i risultati di una recente inchiesta dalla quale è emerso che grandi colossi come Google, Facebook, Amazon e Starbucks hanno versato negli ultimi quattro esercizi, nel Regno Unito, solo 36 milioni di imposte a fronte di un fatturato di oltre 3 miliardi e 800 milioni di euro. Sempre nel Regno Unito, nel 2011, Mc Donald’s, con un fatturato di 1 miliardo e 248 milioni di sterline, ha di fatto pagato imposte con un’aliquota del 3,4%. Con riferimento a Google, analoga situazione pare profilarsi anche in Francia. Apple, negli USA, su un utile estero di 36,7 miliardi di dollari ha versato imposte per soli 713 milioni, con un tax rate dell’1,9%...».
Minchia, mi sono detto…e ‘sti megabyte!!!
Il fatto è che a questo punto non so se prevalga di più il giramento di ciglioni o la tristezza. Cosa possiamo fare infatti noi, modesti spippolatori web, per contrastare questa vessazione globale? Esattamente una sega farcita, è la risposta. Siamo immersi fino al collo in uno spropositato sciacquone planetario che munge soldi a manetta per tutto l’orbe terracqueo ed il nostro ruolo è precisamente il meno nobile da recitare in siffatto scenario, ossia quello degli stronzi che non possono fare altro che lasciarsi tirare giù dallo scroscio, quando viene tirata l’acqua. Siamo tutti lì belli belli a pigiare “mi piace” sulla foto degli amici, a sbocconcellare panini colanti maionese, a gustarci l’ultimo giochetto sensazionale scaricabile sullo smartphone, a ricercare il nome del cugino scemo di napoleone, e intanto qualcuno trangugia e divora alle nostre spalle ingenue, e travasa all’impazzata pecunia nei paradisi fiscali.
Il colmo del mio ragionamento è che io stesso vi scrivo queste cose da un servizio di Google, e sentite come mi rassicura in proposito proprio il padrone di casa:
“...Un meccanismo che «sfrutta le leggi in vigore» e «noi siamo orgogliosi di questo schema». Anche perché «evitare di pagare le tasse fa parte del capitalismo». Eric Schmidt, presidente di Google, non fa misteri di quello che pensa. Anzi. Di fronte ai diversi Paesi europei che gli chiedono di pagare più tasse, rilancia. «È sempre stato tutto alla luce del sole. Abbiamo usato gli incentivi che i governi ci hanno offerto». E poco importano i controlli, la Guardia di Finanza che bussa alla porta della sede italiana, perché per Schmidt «è tutto legittimato»...”.
Caro mister Schmidt, e scusa se te lo vengo a dire proprio in casa tua: per te sarà tutto a posto così, ma a me, forse ancora più di noi, per primo sei tu stesso a farmi una gran tristezza. Va mo’ là!!! Noi minuscoli smanetta-mouse non ci potremo fare nulla, lo so. Ma la cosa è veramente molto squallida. Altro che “orgogliosi di questo schema”...
Adesso sì che capisco il vero senso della frase più famosa di questo scorcio d’inizio secolo. Nessuno mi aveva mai detto che ne mancava un pezzo. Per la precisione infatti, suonerebbe così:
«...stay hungry, stay foolish...but stay a little bit also inculish...».
Cari amici viandanti per pensieri, ma soprattutto care amiche (cit. “Gialappa’s Band”): è il quinto Natale “che passo” con voi. A questo punto il rituale vorrebbe che vi facessi gli auguri. Ovviamente non mi esimerò dal gradito compito, ma come ormai ben sapete, il sottoscritto e la semplicità espressiva sono antichi nemici (che pure si stimano a vicenda, va detto).
Avrete sentito di rado uscire dalla mia penna frasi del tipo “...il cane sta rosicchiando l’osso...”, oppure “...vieni a fare una scampagnata con me sul K2...”. Io sto ai discorsi chiari, come i cavoli stanno alle merende. Nemmeno se fossi un fumetto: sperare di vedere una frase semplice istoriarsi fra le volute della mia nuvoletta, sarebbe come riporre fiducia in una rapa portata all’Avis a donare. Per cui anche stavolta non posso limitarmi a dire papale papale, soltanto “Auguri di Buon Natale”.
Vi porgerò dunque una miscellanea di fausti auspici a modo mio. Vi auguro innanzitutto di coltivare sempre più l’amore per i dettagli, strada maestra, a mio parere, per giungere a capire l’importanza dei grandi valori. Lo stupore per la bellezza nascosta nelle piccole cose: è questo il mattoncino fondamentale per costruire edifici di gioia, per innalzare mirabolanti architetture di saggezza.
Vi auguro di riuscire a custodire in voi stessi ampi margini di capacità d’innamorarvi. Non soltanto nel senso classico del termine. Quello è importantissimo ed è il canale primario dell’innamoramento, naturalmente. Ma di forme di innamoramento ce ne sono milioni, quante sono le forme nella natura, nel mondo, quante sono le persone ed i loro sorrisi, quanti sono i nostri pensieri. Rimanete innamorati soprattutto di voi stessi. Che non è un invito al narcisismo e nemmeno all’egocentrismo o all’egoismo. Tutt’altro. Nutrire l’innamoramento per se stessi significa comprendere il proprio essere veicoli di apertura verso la bellezza del mondo. Vuol dire saper ascoltare il nostro proprio stesso atteggiamento di ascolto verso la vita.
Come diretta conseguenza, vi auguro di fare spesso l’amore. Anche qui, non solo nel senso tradizionale del termine. Fate l’amore con la cultura. Fate l’amore con la curiosità. Fate l’amore con l’interesse verso gli altri. Fate l’amore con la conoscenza. Fate l’amore con il pudore intellettuale. Fate l’amore con la fantasia, con l’immaginazione. Fate l’amore con l’utopia, nell’attimo stesso in cui lo state facendo con la concretezza. E in questi variegati modi di fare l’amore con le vostre realtà più preziose, siate ora maschi, ora femmine, ora un misto fra i due generi. Lasciatevi cogliere sia dalla brama penetrante, sia dall’apertura ospitante, in fusione amorevole completa, confondendo di continuo i limiti del dentro e del fuori se stessi.
Questo mi sento di augurarvi insomma, ma prima di congedarmi, vi lascio con un’epifania natalizia, tanto per non smentire la mia irrinunciabile vena complicatoria. Si tratta ancora di un brano tratto dal già citato «La casa di psiche», di Umberto Galimberti. Non so se sia un brano di speranza oppure no. A me ha detto qualcosa. Spero anche a voi:
«...L’arte dionisiaca vuole convincerci dell’eterna gioia dell’esistenza: sennonché dobbiamo cercare questa gioia non nelle apparenze, ma dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad una fine dolorosa; siamo costretti a guardare in faccia agli orrori dell’esistenza individuale – e tuttavia non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal congegno delle forme mutevoli.
Per brevi attimi siamo veramente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomabile brama di esistere e piacere di esistere. La lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci sembrano ora necessari, data la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si incalzano alla vita, data la strabocchevole fecondità del mondo. Noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso attimo in cui siamo per così dire divenuti una cosa sola con l’incommensurabile gioia originaria dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità ed eternità di questo piacere. Malgrado il timore e la compassione, noi viviamo in modo felice, non come individui, in quanto siamo quell’unico vivente, con la cui gioia generativa siamo fusi...».
“La nascita della tragedia dallo spirito della musica”
Friedrich Nietzsche – 1872 (citato in: “La casa di psiche”, Umberto Galimberti – 2005)
Ed ora che il cane ha quasi finito di rosicchiare il suo osso, mentre vi rinnovo l’invito ad una scampagnata con me sul K2, vi posso finalmente dire, per la quinta volta: tanti auguri di buon Natale, cari amici viandanti per pensieri.
Ho esitato a lungo prima di affrontare il tema del quale “avrei” voluto parlare oggi. La residua contorsione condizionale è dovuta al fatto che non sono ancora ben sicuro di cosa andrebbe detto (se mai qualcuno lo saprà…). L’episodio è abnorme, straziante, sfiora picchi di disumanità inenarrabili. Ne avrete sentito parlare tutti: la strage dei bimbi in quella scuola del Connecticut.
Di fronte ad overdose di efferatezza simili, in effetti, il silenzio, il rispetto per il dolore, la riflessione muta, l’astensione dal giudizio, dovrebbero essere le reazioni immediate più consone. A maggior ragione, dovrebbero esserle da parte di chi, come me, non è un esperto sociologo, psicologo, psichiatra e così via, e nemmeno un conoscitore sufficientemente profondo di fenomeni storici, o della realtà che ha fatto da sfondo alla tragedia. Il rischio di incappare nel classico proclama da “Bar sport” è troppo elevato, soprattutto in casi come questo.
Ma anche tenendo presente tutte queste precauzioni, non si può mai spegnere quella voce interiore di fondo, che spinge ad interrogarsi. Perché? Com’è possibile arrivare ad estremi di questo genere? C’è una qualche ragione rintracciabile, oppure tutto è dovuto solamente ad una deprivazione totale di senso, allo smarrimento di qualsiasi significato possibile, alla perdita definitiva di qualsivoglia motivazione che stia alla base dell’espressione “essere umano”?
Cercherò allora di portare solo alcuni spunti di riflessione senza pretesa, soprattutto avvalendomi dell’aiuto di “contributi” più autorevoli del mio.
Chi ha voce in capitolo, chi conta qualcosa, chi ha in mano le leve per poter influire sulla situazione, in forma di immediata risposta ha focalizzato, come “nemico sociale” più immediato, l’eccessiva facilità della diffusione delle armi negli Stati Uniti. Certo, questo è un aspetto molto importante, non lo si può negare, per molti versi le sue implicazioni sono gravissime. Ma paradossalmente, anche nella sua gravità estrema, rimane pur sempre una questione “di superficie”. Se gli Stati Uniti vogliono impegnarsi a superare davvero questa “magagna esistenziale” che covano in seno, è esattamente da lì che devono partire per impostare una riflessione: dal proprio seno, ossia, detto fuori di metafora, dalla loro anima comunitaria, dalla loro psicologia sociale, dalla loro interiorità collettiva.
Gli Stati Uniti sono la nazione che più di tutte, fra quelle cosiddette occidentali, si è votata alla causa della “rivoluzione tecnico-scientifica”. In misura quasi fideistica, viene da dire. Il punto nodale problematico risiede appunto nel fatto che l’identità degli Stati Uniti si è formata sulla base di una visione tecnica del mondo praticamente esclusivista. E’ sempre sbagliato generalizzare, ma tendenzialmente si può affermare che negli Stati Uniti la realtà sia intesa in preminenza come fatto tecnico, misurabile, quantificabile. Da qui si spiega, ad esempio, l’ipertrofica “economicizzazione” di quella società, l’elezione della quantificazione monetaria a guida esistenziale (ripeto: le generalizzazioni argomentative sono sempre pericolose, ma il dato a cui mi riferisco è una “realtà prevalente” sotto gli occhi di tutti, in quel Paese).
Quando Galileo Galilei, padre della scienza moderna, pronunciò la celeberrima frase assumibile come sintesi suprema del suo pensiero, ossia: «…la natura è scritta in linguaggio matematico…», non intendeva certo affermare che i numeri possono spiegare tutto. Galileo era ben conscio del fatto che al di fuori della “giurisdizione dei numeri” rimaneva tutta una sequela di questioni fondamentali riguardo alle quali la scienza non poteva pronunciarsi. Ecco, proprio su questo equivoco sembra invece poggiare la moderna “fede” nella tecnica, di cui gli Stati Uniti sono i massimi sostenitori: conta solo e soprattutto ciò che risulta quantitativo e misurabile. Il problema è che così concependo il mondo, rimangono scoperte tutte quelle altre questioni fondamentali, delle quali Galileo non si era potuto occupare, non per disinteresse, ma per riconosciuta limitatezza dell’ambito di pertinenza della scienza.
La questione si fa poi particolarmente spinosa sul piano dell’indagine dei valori psicologici. Se quello che conta sono soltanto gli aspetti quantitativi e misurabili della personalità dell’essere umano, si nega l’esistenza parallela di tutto un immenso ambito interiore che sfugge alla oggettivazione e alla quantificazione scientifica. Una “massa oscura e sommersa” la chiamerei, che è stata definita in varie maniere dalle diverse tradizioni di studio psicologiche (inconscio, Es, Id, e altre ancora che magari non conosco), un’entità particolarmente complessa e nascosta, a partire in primo luogo proprio dalla sua inafferrabilità e problematica “narrabilità”.
Illuminante in tal senso è il seguente passo, che introduco un po’ anche come punto della situazione del mio discorso:
«...Il razionalismo che scaturisce dalla scienza, oltre a essere uno dei fattori principali della “massificazione” dell’uomo, toglie alla vita individuale le sue basi e con ciò la sua dignità. In questo modo l’uomo ha perduto la sua individualità quale unità sociale ed è diventato un numero nella statistica di un’organizzazione. La sola parte che può ancora svolgere è quella di un’unità fungibile e infinitesimale. Viste dall'esterno e razionalmente, le cose stanno proprio così e, da tale punto di vista, diventa addirittura ridicolo parlare ancora del valore e del significato dell’individuo; anzi, non si riesce ad immaginare come mai si sia potuto assegnare tanta dignità alla singola vita umana, quando la verità del contrario è tanto palese...».
“Presente e futuro”
Carl Gustav Jung – 1957 (citato in: “La casa di psiche”, Umberto Galimberti – 2005)
Non a caso negli Stati Uniti si sono formate scuole psicologiche come il “comportamentismo” e il “cognitivismo”, che pongono proprio sull’atteggiamento tecnico le proprie basi conoscitive del fenomeno psichico. A riguardo del comportamentismo, leggo su Wikipedia:
«...La mente viene quindi considerata una sorta di black box, una scatola nera il cui funzionamento interno è inconoscibile e, per certi aspetti, irrilevante: quello che importa veramente per i comportamentisti è giungere ad un’approfondita comprensione empirica e sperimentale delle relazioni tra certi tipi di stimoli (ambientali) e certi tipi di risposte (comportamentali)...».
E ancora, ci spiega il filosofo Umberto Galimberti:
«...il cognitivismo [...] invita ad aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie “dissonanze cognitive” in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il comportamentismo ad adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerate solo se confinati nel privato e coltivati come tratto “originale” della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’”autenticità”, l”essere se stesso”, il “conoscere se stesso”, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’anima, diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico, come può esserlo l’esser centrati su di sé (self-centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaption), il complesso di inferiorità (inferiority complex). Quest’ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che “essere se stesso” e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia...».
“La casa di psiche”
Umberto Galimberti – 2005
Anche se sono partito prendendo il discorso molto alla larga, non so se pure voi a questo punto, cari amici viandanti per pensieri, iniziate a sentire odore di affinità fra queste citazioni e la fattispecie del doloroso episodio dell’uccisione dei bimbi del Connecticut. Senza voler dedurre automatismi di causa-effetto eccessivamente semplificatori, si può tuttavia formulare la seguente ipotesi di riflessione: una società che nega, o ignora, il suo inconscio, ossia rinuncia ad indagare la genuinità più profonda del proprio essere (coi suoi lati problematici e contraddittori, anche), non fa altro che porre le basi affinché questo inconscio prima o poi esploda clamorosamente in manifestazioni incontrollate.
Ascoltiamo ancora Galimberti:
«...Se “alienazione” significa allontanamento […] dell’uomo da sé, forse non c’è alienazione più grande di quella che oggi l’uomo patisce sotto il potere incontrastato della scienza. Sembra infatti che la crisi del nostro tempo, a cui la fenomenologia e l’esistenzialismo tentano di reagire, consista proprio nel pericolo che l’uomo appartenga alla scienza più di quanto la scienza non appartenga all’uomo, e, da metodo escogitato dall’uomo per l’interpretazione della natura, la scienza assurga al livello di indiscusso a priori esistenziale in grado di decidere il modo umano di vivere e di pensare, e quindi, in senso profondo e crudelmente letterale, che l’uomo “perda la sua mente”...».
Lo stesso Sigmund Freud aveva già intuito il fenomeno:
«...ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale s’è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri […] La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità per studiare questo temuto male della civiltà...».
“Il disagio della civiltà”
Sigmund Freud -1929 (citato in: “La casa di psiche”, Umberto Galimberti – 2005)
E sempre affidandomi ad Umberto Galimberti, traggo una conclusione provvisoria al mio parziale discorso:
«...Come espressione più alta della civiltà della tecnica, l’America non è solo una nazione, ma la forma di una nuova antropologia, dove l’uomo non si riconosce se non come funzionario della razionalità tecnica. Nata per superare la distanza che intercorre tra il bisogno e la sua soddisfazione, nata per rendere presente l’assente, la tecnica, oggi, trattando ogni scopo come mezzo per uno scopo ulteriore, ha a tal punto dilatato la distanza da render presente solo l’assenza degli scopi ultimi, e la psiche umana, che era in grado di riconoscere se stessa all’interno di un orizzonte di senso, vive percorsa solamente dall’angoscia di sopprimere la distanza che la separa da quell’orizzonte che, nell’età della tecnica, appartiene solo al repertorio della sua memoria, di cui l’Europa forse, e ancora non si sa fino a quando, resta l’ultima debole custode...».
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, alla fine non so se facevo meglio a starmene zitto, su questo tema, oppure se vi ho propinato solamente le ennesime chiacchiere da bar raffazzonate. Però, almeno una cosa me la riconoscerete: il bar in cui vado io, non si può certo dire che sia frequentato soltanto dai soliti quattro ubriaconi.
Nella sua mansuetudine sconfinata, Ermirio il libraio provava nostalgia per ogni cosa. E non così, per modo di dire. Ermirio rimpiangeva letteralmente ogni attimo vissuto, affondasse esso le radici nei lontani territori dell’infanzia, oppure fosse trascorsa solo mezza giornata dall’accadimento in questione. Ogni altra persona di sensibilità media, sarebbe uscita distrutta, nella mente e forse anche nel fisico, da una simile prova. Struggersi con immancabile regolarità per il gusto di un gelato assaggiato nel pomeriggio; sdilinquirsi per la tormentosa inafferrabilità di uno stormire di rami in fiore, ammirato soltanto due ore prima; sentire già la mancanza di una chiacchierata con un amico, nell’attimo stesso del dirsi ciao. Una sensibilità di ordine superiore ricalca il precorso di un treno superveloce, lanciato nel suo folle abbrivio contro il muro buio della notte. E’ lo schianto rovinoso, ad attenderla, nel peggiore dei casi. Oppure il riscatto insperato, nella scoperta di un equilibrio dell’animo inventato da zero.
Grazie alla saldezza instabile edificata sulle fondamenta della pazienza emotiva, Ermirio aveva saputo poetizzare in forma di privilegio il suo modo di riandare con malinconia ad ogni frammento passato, approdando ad un libero equilibrio spirituale. I libri gli erano stati di grande aiuto, in questo. Ermirio non poteva che finire per trovare nei libri la propria dimensione. Nei libri, la nostalgia si nutre di una ciclicità tutta propria. Il verificarsi di un fatto narrato è al contempo presente al lettore e già trascorso nella fantasia di chi ha scritto. Il lento dipanarsi delle parole sulla pagina, spariglia la logica del rimpianto. In quello spazio-tempo inchiostrato, i conti dell’inventario fra gli istanti vissuti e quelli da vivere, felicemente e finalmente non tornano. Nella lettura, l’impotente e trasognata ammirazione per tutto quanto è già accaduto per sempre, traspira dalle righe definitivamente compiuta, non necessita di rielaborazioni faticose, come nella vita vissuta. Ciò che esce dalle pagine di un libro è nostalgia pronta all’uso. L’ideale per far sentire ad Ermirio il soffuso sapore dell’esclusività pregiata, nell’altrimenti inquietante sua disposizione a percepire gli eventi.
Sdrucilla era invece aiuto-libraia di Ermirio ed aveva un segreto. Terribile ai suoi occhi, ma, come tanti misteri angosciosi che attanagliano l’animo umano, praticamente innocuo per il resto dell’universo. Questo segreto accompagnava i suoi giorni, creando barriere invisibili fra lei e gli altri. Sdrucilla teneva nascosto il proprio segreto con estrema cautela, e tuttavia le manifestazioni di esso potevano irrompere a sorpresa nella sua vita, accecate d’involontaria indifferenza per l’umano modo di appiccicare significati a persone, cose ed eventi. I libri si erano inevitabilmente incontrati anche con Sdrucilla, recandole tutto il loro carico di infinito. Nei libri, non c’è ostacolo alla fantasia, ogni significato è percorribile con dignità. Fra le righe di un libro, l’eccezione più insignificante e bizzarra può anche ergersi a legge rispetto a tutto il resto. La singolarità, l’essenza del diverso, il diritto all’unicità: sono valori puri ed inestimabili, nel momento in cui passano a nutrirsi dell’etereo ed incontenibile humus della parola stampata.
La libreria di Ermirio era un luogo per anime appartate. Non aveva un gran giro di clienti, però tutti lettori presi dalla passione di lasciarsi attraversare nell’intimo dalle parole. Il negozio si presentava con una vetrina discreta, un invito riguardoso ad entrare. Ermirio e Sdrucilla, pur conoscendosi da poco tempo, formavano una coppia di lavoro affiatata ed armonica. L’uno timoroso di non dare troppo a vedere la sua propensione di nostalgico ad oltranza, l’altra arroccata fra le mura del proprio segreto, non si erano finora esposti più di tanto vicendevolmente. Tacitamente si ammiravano, frenati però dal non voler pesare sull’altro con la propria interiorità labirintica.
Un giorno in libreria, verso l’ora di chiusura, non c’erano clienti e Sdrucilla approfittava per sistemare dei volumi. Ermirio la stava ad osservare alle spalle, ammirando quelle movenze aggraziate che gli erano divenute ormai familiari. Sdrucilla indossava un paio di jeans che foderavano alla perfezione la grazia generosa delle sue rotondità. Chinandosi per sollevare da terra due tomi ponderosi, nello sforzo accadde ciò che lei non avrebbe mai voluto. Dal centro preciso di quei due mappamondi fasciati in tessuto blu, Ermirio, quasi più che sentirla, vide letteralmente uscire un’entità acustica. La vide udendola. E non sapeva se credere meno ai suoi occhi oppure ai suoi orecchi: era una delle sonerie di telefono cellulare più diffuse e martellanti che ammorbavano ogni angolo della città. Il mistero di Sdrucilla si era sonoramente auto-svelato nel momento più improvvido e nella maniera meno opportuna. La sviluppo stravagante della sua fisiologia si era evoluto in modo che i normali rumori emessi da tutte le altre persone come fastidioso sfogo aereo del corpo, in lei si trasformassero nei suoni più diversi della modernità. E siccome la sorte è veramente capace di produrre squisita ironia, quando ci si mette d’impegno, la singolarità di Sdrucilla si era anche raffinata in maniera tale da far sì che, laddove molesti olezzi ristagnavano come esiti di quelle esternazioni gassose negli individui comuni, per lei questi si rivelassero invece come delicati profumi ed effluvi di essenze gentili.
Si può ben comprendere come la vita affettiva di Sdrucilla fosse stata crudelmente tarpata da quel non meglio classificabile difetto. A volte lei stessa non sapeva bene se valesse più la pena riderne o disperarsi. Oltre a qualche fidanzatino del periodo adolescenziale, soltanto una volta Sdrucilla si era abbandonata a vivere una storia di sentimento e passione completa. In quell’occasione si era affidata alla forza dell’incoscienza, pensando che le cose si sarebbero sistemate da sole, col tempo. Giunse persino a trascorrere una notte con il suo uomo dell’epoca, che sembrava in tutto e per tutto il più adatto per lei. La tradì il dormiveglia mattutino, nel corso del quale le era scappato un jingle pubblicitario inequivocabilmente squillante sotto le coltri. Lui le aveva sghignazzato in faccia con crudezza, e Sdrucilla non volle nemmeno approfondire se lo fece più per reazione isterica, o per cattiveria. Non poteva essere il suo uomo, se non era in grado di condividere la ridicola disperazione di lei, e non ne aveva più voluto sapere.
Di tono ben diverso era stata la reazione di Ermirio. Il viso trasfigurato, mentre lei ancora accovacciata si schermiva sprofondando il viso in un misto vertiginoso di vergogna, rossori ed occhi lucidi, Ermirio non aveva smesso di contemplarla ancora a lungo. Avevano speso attimi su attimi, interminabili e senza fondo, rimanendo nelle rispettive posizioni occupate sul punto del compiersi del fatto. Poi un’energia nostalgica di potenza inaudita si era impadronita di Ermirio: provava un irresistibile richiamo retrospettivo per l’insignificanza di quell’inconcepibile incidente, ad un grado di rimpianto mai assaporato così diffusamente dentro se stesso. Quella forza incontrollabile lo indusse a correre verso Sdrucilla, a farla alzare con gentilezza per abbracciarla tutta a sé, in una nuvoletta di essenza al mughetto ad avvolgerli nel loro tenero avvinghiarsi.
E Sdrucilla, toccata densamente nell’intimo, si sfogò raccontando tutto ad Ermirio, ed Ermirio si commosse con lei, rivelando a sua volta le proprie fragilità di campione della nostalgia. Ridevano di struggimento vicendevole, schioccandosi piccoli baci sui rispettivi sorrisi insaporiti di lacrime. Sino a non trovare più la forza di staccarsi l’uno dall’altra. Trascorsero la sera insieme, raccontandosi ancora mille fondamentali piccolezze, insaziabili di conoscersi, fino a notte fonda, e giusto un attimo prima di cedere alle lusinghe del sonno, Sdrucilla, quale inequivocabile testimonianza di una sensazione di fiducia sconfinata ormai acquisita, si sentì finalmente libera di lasciarsi sfuggire le prime note della sigla di Superquark. Finché il sopore non li colse insieme, cullandoli nella teporosa stretta di un refolo alla fragranza di lavanda, risalito ribaldo dall’oscurità per arrampicarsi sino alla sincerità dei loro nasi, ormai pronti ad odorare ogni segreto della vita.
Che i miti rappresentino tutt’altro che favolette innocue per bambini scemi, l’ho ribadito già in diverse occasioni. Nei miti sono custodite conoscenze molto remote, sia in senso cronologico, sia in termini interiori. Si tratta di una sapienza pre-filosofica e pre-razionale che merita ancora estrema attenzione da parte di noi moderni abitatori di un universo di senso prevalentemente fondato su orizzonti tecnico-scientifici.
Fra le “mancanze” umane più gravi, la cultura greca antica annovera un atteggiamento indicato con il termine «ubrij» (“hýbris”, se traslitterato in caratteri latini, da pronunciarsi: “hübris”). La traduzione letterale di “hýbris” non rende sufficiente giustizia alla profondità delle implicazioni concettuali di questa parola. Normalmente il termine viene reso in italiano con “tracotanza”, “arroganza”, “alterigia”. Ma andandolo a scandagliare con spirito d’indagine ermeneutico più raffinato, il termine “hýbris” si potrebbe tradurre con questa perifrasi: “tentativo di forzare la realtà ad essere qualcosa di diverso ed ulteriore (qualcosa di “snaturato”) rispetto alla propria essenza”.
I miti greci, in modo particolare quando passano attraverso il filtro della reinvenzione tragica, sono pieni zeppi di episodi nei quali la via della “hýbris”viene praticata dagli uomini. L'esempio più clamoroso lo ritroviamo nel mito di Prometeo (lo scaltro “Pro – meteo”, ossia colui che riflette “per – tempo”, “prima”), che in varie versioni del racconto tenta di ingannare a più riprese gli dèi, rubando loro la “conoscenza” e venendo punito col celeberrimo supplizio del rodimento del fegato da parte di una vorace aquila, organo che prontamente ricresce all’infinito, per perpetuare la terribile punizione.
Non poche soddisfazioni dettate da “stupore epifanico” derivano quando, facendo considerazioni incrociate su miti derivanti da tradizioni culturali abbastanza diverse e distanti fra loro, si riescono a cogliere affascinanti similitudini. A proposito di Prometeo ad esempio, un certo parallelismo è possibile evidenziarlo con la vicenda biblica di Adamo ed Eva, segnatamente nel passo in cui i nostri imprudenti progenitori mangiarono della mela dell’albero della conoscenza. Per aggiungere solo una battuta, lascio in questo caso libera interpretazione al lettore riguardo a dove si debba andare a leggere il parallelismo del rodimento di fegato, fra le righe dello svolgimento delle vicende umane successive al rodimento vero e proprio della mela da parte degli sventati proto-nonni.
Un’altra significativa associazione fra narrazione biblica e mito greco mi è venuta da farla recentemente. Di certo molte altre voci più autorevoli della mia avranno già sottolineato questa affinità narrativa e di contenuti, ma almeno lasciatemi gustare la piccola soddisfazione di esser giunto alle considerazioni che vi vado ad esporre, percorrendo i sentieri di una mia elucubrazione autonoma.
C’entra ancora la “hýbris”. Anzi, forse è uno dei più eclatanti casi di manifestazione di “hýbris” rinvenibile in tutti i miti greci. Mi riferisco alla famosa figura dell’androgino (o ermafrodito), narrata da Aristofane nel «Simposio» di Platone. Avrete già sentito citare questo racconto in millanta occasioni. Vi chiedo la cortesia di ascoltarlo ancora una volta da me.
Questi ermafroditi erano una sorta di super-uomini delle origini. In loro si condensavano gli attributi fisici e caratteriali di due persone odierne: erano al contempo maschio e femmina, avevano quattro gambe ed altrettante braccia, doppi organi genitali (uno per genere), due volti e così via. Possedendo in sostanza otto arti, i raddoppiati super-avi dell’umanità potevano muoversi molto rapidamente all’occorrenza, rotolando su gambe e braccia come fossero una palla e spostandosi ad alta velocità: «…Avevano una forza prodigiosa…» aggiunge Aristofane, «…nonché un’arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dèi e quel che dice Omero […], che tentarono di scalare il cielo, va riferito a costoro…».
Giove e gli altri dèi, preoccupati per le mire espansionistiche degli arrampicanti androgini, si riunirono in consiglio per meditare sul da farsi. Al padrone di casa dell’Olimpo non sarebbe costato nulla lanciare un paio di lampi ben assestati, incenerendo quei prepotenti sul principio della loro scalata. Ma annientando gli uomini sarebbero venuti a mancare gli onori ed i sacrifici da essi tributati agli dèi (e sarebbe venuta a mancare loro anche una buona fonte di divertimento, aggiungo io...). Ecco allora che Zeus escogita una trovata decisiva per ridimensionare l’alterigia umana, pur senza estinguere la specie. Invia Apollo con l’incarico di tagliare di netto a metà gli androgini, di modo che tutto quanto avevano di doppio, se lo ritrovassero dimezzato, assumendo la foggia umana che ancora oggi ciascuno di noi si reca appresso. Apollo recideva a tutto spiano e da un singolo essere ne ricavava due. Ricomponeva poi il taglio e «...tirando la pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico...». Sempre per incarico di Zeus, a ciascuno dei nuovi singoli ottenuti ruotava nel contempo il viso di 180°, ossia rivolgendolo verso la parte del ventre, «...in modo che l’uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto...».
Un’assonanza molto suggestiva con questo mito l’ho dunque rinvenuta nel racconto biblico, laddove si narra della torre di Babele. Anche in questo caso, gli uomini danno prova di grande arroganza, costruendo un edificio col quale minacciano di scalare il cielo. In similitudine col mito greco, la potenza “tracotante” che nell’androgino risiedeva nella sua unità di essere primigenio indiviso, nel caso del mito della torre di Babele viene trasferita all’elemento del linguaggio. L’umanità in possesso di un linguaggio universale unificato, nell’ambito dell’«economia del creato», rappresenta un fattore eccessivo di minaccia agli occhi di Dio, il quale considera: «...Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio delle loro imprese: nessuno potrà impedire tutto ciò che hanno meditato di fare...». Quali provvedimenti prende allora la divinità per affievolire l’usurpazione umana di ambiti che travalicano la sua essenza? Anche stavolta, entra in gioco una separazione, non fisica, ma comunicativa: «...Su, discendiamo e confondiamo la loro lingua, cosicché essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro...».
In apparenza le similitudini fra mito dell’androgino e torre di Babele finiscono qui. Ma a ben guardare, si possono afferrare ulteriori attinenze anche per quanto riguarda i rispettivi epiloghi di queste storie. Il mito greco si concludeva con queste parole: «...Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo, risanando, così, l’umana natura...».
Non succede forse un fenomeno simile anche con il linguaggio? Assieme all’inestinguibile sete di fusione esistenziale con un altro essere umano, ogni individuo non si porta dietro per tutta la propria esistenza una parallela sete di fusione linguistica con gli altri? O per dirla meglio: la pretesa di fusione esistenziale non passa anche attraverso la pretesa di fusione linguistica? Nel nostro “simile parlante” ci troviamo riflessi in misura maggiore di quanto non si possa verificare con chi utilizza una lingua straniera. E non mi riferisco solo al linguaggio inteso in senso stretto, letterale. Intendo, più in generale, ogni forma di linguaggio. Ciascuno di noi è sempre alla ricerca di chi parla e sa comprendere la propria stessa lingua. Due innamorati rinsaldano il loro legame con invenzioni linguistiche continue che vanno a costituire un proprio codice esclusivo. Lo stesso accade fra amici, oppure in altre cerchie affini sulla base di mille altre caratteristiche ed interessi comunicativi. Ogni gergo creato da gruppi di parlanti alla ricerca di quell’unità di linguaggio originaria, battezza nuove forme di complicità e di affinità elettiva fra individui.
E prima di concludere, cari amici viandanti per pensieri, vi lascio col poetico invito a compiere un delicato gesto simbolico. Date un’occhiata al vostro ombelico e vi accorgerete che in quel minimo incavo, oltre al ricordo della nostra remota condizione di essere completi, si può scorgere anche il riflesso in negativo di una piccola torre di Babele.
Narrai già in altre occasioni del mio rapporto, piuttosto conflittuale anziché no, con l’automobile, intesa sia come oggetto di uso quotidiano (meglio se mensile o annuale, per i miei gusti…), sia come distorto feticcio della modernità. I lettori più affezionati e di lunga data sapranno che per i miei spostamenti meccanizzati mi affido ai servigi di una normale “inutilitaria” targata 313 GT.
GT non vuol dire Gran Turismo, bensì Gattopoli, la provincia in cui Gillipixiland si trova (la geografia completa di Gillipixiland sarebbe la seguente: Gillipixiland, provincia di Gattopoli, regione di Pigronia, repubblica indipendente della Smutandovia).
La 313 GT non è mai stata un fulmine di guerra. Fa dignitosamente il suo dovere di portarti dal punto A al punto B, concedendoti di seguito anche l’omologo privilegio di rispostarti a ritroso da B ad A, con sufficienti requisiti di comfort. E questo è quanto da un’automobile ci si dovrebbe attendere, a mio modesto parere. Non “…che sia una cosa venuta / dal cielo in terra a miracol mostrare…”, come molti illusoriamente invece si lasciano convincere che dovrebbe essere, in messianica disposizione d’animo.
Ad ogni modo, non va negato che dietro al moderno “fenomeno automobile” si celino non a caso infiniti misteri. Fra gli arcani motoristici più eclatanti c’è sicuramente la grave forma di “svalutatio precox” di cui soffre il prodotto automobilistico. Una vettura costa fior di quattrini all’atto dell’acquisto, da nuova. Ma basta non tantissimo tempo per farla deprezzare in misura vertiginosa. Tanto che ad un certo punto del processo di svilimento valutario, si arriva quasi agli estremi di essere costretti a sborsare di nuovo dei soldi pur di liberarsi dell’ormai inutile fardello. Nel corso del cammin di sua svalutazione, tuttavia, accade un ulteriore portento misterico. Se malauguratamente incappi nella necessità di dover riparare un guasto (rigorosamente fuori dal periodo di garanzia, ovvio…), con annessa sostituzione di qualche pezzo, ti accorgi con sommo stupore di come le “parti” del tuo mezzo non stiano seguendo più il destino del “tutto”. Beffardamente, loro sì, mantengono l’altissimo valore d’origine, anzi, riescono addirittura a sopravanzarlo di brutto, mentre la macchina nella sua totalità si declassa a precipizio. Tanto che, considerando una ipotetica sommatoria dei pezzi conteggiati ad un prezzo “da riparazione”, credo ne deriverebbe un valore molte volte superiore a quello sborsato al momento dell’acquisto del loro blocco intero, ossia dell’auto stessa.
In pratica, accade che i singoli fattori si ribellano alla loro rispettiva unità di riferimento, la parte non ubbidisce più al tutto, lasciandoti lì, fessacchiottisticamente basito, a non poter far altro che prenderne atto con “consumistica” rassegnazione. E col consumismo non si scherza, si sa. Lo puoi irridere, te ne puoi lagnare, puoi applicare piccoli accorgimenti difensivi, lo puoi persino sbeffeggiare, ma alla fine le sue leggi prevalgono e, più o meno consapevolmente, devi chinare il capo. E anche queste sono soddisfazioni.
A meno che non s’inneschino talvolta delle piccole aporie, degli inusitati mini-bachi insinuati nel sistema, i quali, pur non avendo la forza di trarti fuori dall’ingranaggio tritatutto, perlomeno possono recarti alcuni attimi di svagata micro-rivalsa. Inutile ai fini pratici, certo. Ma almeno recante lieve soddisfazione sotto il profilo poetico esistenziale.
Com’è capitato appunto a me con la 313 GT. Se GT non significa Gran Turismo ci sarà un motivo. Qualche piccola magagna, nel proprio panorama di fornitura del comfort viabilistico, la 313 GT non me la risparmia di certo. In particolare, ho scoperto qualche tempo che è debole di fiato. La ventolina che serve a fare aria calda d’inverno e fredda d’estate, dispone di quattro velocità. Sino al livello 3, la 313 GT può anche reggere, ma se ti azzardi a pretendere la gran sfiatata a quota 4, pufff!!! Si annulla finanche il benché minimo refolo d’aria.
Quando m’accadde per la prima volta di ritrovarmi al volante della 313 GT compassionevolmente sfiatata, proprio in virtù dei ragionamenti poc’anzi elucubrati, mi preoccupai alquanto. Stai a vedere, mi dicevo, che adesso mi tocca cambiare la ventolina, pagandola a peso d’oro, neanche fosse un cilindro della De Soto di Howard Cunningham in Happy Days…
Invece no. Il difetto era meno grave del paventato. Di fatto, grazie anche alla cooperazione di un elettrauto onesto (e questo va rimarcato), si venne a scoprire che la ventolina poteva ancora reggere dignitosamente il colpo, ma andava semplicemente sostituito un piccolo fusibile. Fu il buon uomo stesso ad ammonirmi di non sforzare mai la ventolina oltre la velocità 3. E con 5 euro me la cavai.
Potete immaginare che dimenticarsi, guidando sopra pensiero, dell’inviolabilità suprema del grado 3 di soffiatura della ventolina, sia un attimo. Per cui in seguito è successo di nuovo: ho inavvertitamente sospinto la ventolina alla sommità estrema del cimento eolico, ritrovandomela puntualmente muta ancora una volta. Sono tornato dallo stesso elettrauto, il quale mi ha praticato il solito mini rappezzo del fusibile, segnalandomi stavolta che se avessi voluto ovviare in maniera risolutiva all’inghippo, avrei dovuto cambiare la ventolina, con esborso superiore ai 100 €. Come volevasi dimostrare.
Ho detto che ci avrei fatto su un pensiero, e “messer lo conoscitor cortese di batteria et spinterogeni” stavolta non ha voluto nemmeno un centesimo, accennando al fatto che magari ci saremmo rivisti se mi fossi deciso a cambiare tutta la ventolina. Le cose non sono andate così. Pur avendo apprezzato al massimo l’onestà di quel rispettabilissimo lavoratore, un po’ per pigrizia, un po’ perché del grado 4 di sfiatate della 313 GT potevo anche benissimo fare a meno, non sono più tornato in quella officina. Ma lo sfiatamento della ventolina, per un'altra botta di sbadataggine, si è riproposto immancabile. Stavolta sono andato da un altro elettrauto, per vari motivi. Anche qui sono cascato bene: addirittura non ha voluto niente per il fusibile, reputando il tutto un’inezia di intervento che mi elargiva volentieri gratis. Ringraziando di cuore, me ne sono andato più soddisfatto che mai e quasi fiero della mia ventolina un po’ asmatica.
«…Alla fine avrai imparato la lezione, piantandola una buona volta di svalvolare smodatamente la ventolina fino a velocità 4?...», mi domanderete voi a questo punto. Mi piacerebbe rispondervi che sì, ormai l’ammaestramento m’è stato sufficiente, ed invece “sì e no” mi tocca dirvi. Un po’ perché non posso garantire di non incappare in futuro in altre disattenzioni, un po’ perché le vie delle ventoline deboli di bronchi sono davvero infinite. Lo sbiellamento ventilatorio si è infatti materializzato di nuovo pochi giorni fa. Per causa sempre mia, anche se non propriamente diretta, stavolta. Ho dovuto prestare la 313 GT a mio fratello, e la dimenticanza si è trasferita dall’atto puro del ruotare io di persona la rotella della ventolina, al fatto di non aver segnalato a lui quell’automobilistica fragilità polmonare. E zac, puntuale come un orologio svizzero, mio fratello ha messo la rotella a 4, e la ventolina si è ri-sfiatata. Terzo elettrauto e quarto fusibile: è andata bene nuovamente, molto gentilmente pure lui non ha voluto una ghinea per il suo nobil servigio.
E’ stato così che la buffa sequela di mini-vicissitudini para-consumistiche protratte nel tempo mi ha fatto riflettere. Assodato che prima o poi nello sfiatamento della ventolina ci si ricade (chissà, magari succederà in un’altra occasione che lascerò la macchina accesa con la portiera aperta ed un gatto salirà furtivamente, andando pigiare proprio la ventolina sulla velocità 4; oppure sarò preda di una scarica di tic compulsivi stile Charlot in «Tempi moderni», che mi costringeranno a ruotare la rotella dell’aria al massimo; oppure per mille altre mirabolanti cause inimmaginabili allo stato attuale…), ho allora pensato che se arriverò a far cambiare un 8mila o 9mila fusibili circa, da altrettante differenti officine di elettrauto, avendo la fortuna ogni volta di poter godere della gratuità, alla fine mi sarò ripagato l’intera 313 GT come fosse nuova, per il controvalore equivalente calcolato in fusibili. E se pur così facendo, il consumismo non lo avrò sconfitto, si saranno fatti ad ogni buon conto non pochi sorrisi.
Nel corso della quasi vita di una quasi persona quasi normale quale io sono, le fasi di “pionierismo” attraversate sono state diverse. Il fatto di essere capitato a far parte di una generazione che ha visto trascorrere dinnanzi a sé le accelerazioni del progresso tecnologico più vertiginose da che si è cominciato a tener conto degli eventi storici, ha contribuito notevolmente al fenomeno.
Basti dire questo: mentre oggi il lattante medio nasce praticamente già con un tablet in mano, quando ero bambino io si pretendeva invece di cavar fuori del divertimento da quel paio palline di plastica durissima appese ad una corda, il cui scopo consisteva nell’ottenere un rimbalzo sequenziale “a tutto tondo”, con sommo sprezzo dell’incolumità di nocche e falangi. Altro che “touch screen”: ti andava bene se ne uscivi evitando di finire nella lista dei mutilati civili per motivi ludici.
Tra i vari pionierismi affrontati ricordo con molto affetto ad esempio la gradualità evolutiva del nostro mondo televisivo di un tempo. Fa tenerezza pensare adesso al vecchissimo apparecchio in bianco e nero, col trasformatore dalla piccola spia rossa che pesava un accidente, due soli canali e una pazienza boia ad aspettare che tutto il marchingegno si scaldasse, sperando che il quadro la piantasse finalmente di roteare su se stesso come la buffa ruota di un criceto catodico. Per dire, soltanto l’introduzione di Rai3 mi apparve all’epoca come una rivoluzione strabiliante.
Una notevole fase di pionierismo tecno-esistenziale l’ho conosciuta anche con l’avvento di internet. La prima connessione casalinga mi pare di averla impiantata intorno al 1999. Prima di quel momento fu tutto una sperimentazione para-goliardica e comunitaria praticata coi miei amici. Le prime volte, si sentiva un gran parlare di ‘sto internet, ma nessuno ne disponeva a casa. Solo alcuni avevano un pc come si deve e di certo a Gillipixiland, estremo avamposto di poetica barbarie, la possibilità di connettersi è arrivata tempo dopo rispetto a tutte le altre località civilizzate.
Per saziare la curiosità riguardo al nuovo feticcio messo a disposizione dalla tecnocrazia imperante, non restava allora che organizzare spedizioni raccogliticce di villici giovinastri alla volta della città, dove la nuova meraviglia che ci avrebbe transitato nel terzo millennio era disponibile a nolo, stile baldracca megabytale. La metafora non è scelta a caso. Se pensate infatti che l’oggetto di ricerca, durante quelle proto-navigazioni telematiche, fossero gli scaffali virtuali della biblioteca del Congresso, vi state incamminando sulla strada sbagliata. Le pagine agognate andavano piuttosto a parare nei più disparati ambiti riscontrabili lungo i gradi della scala di valori del miglior spirito pecoreccio. La logica della cosa suonava più o meno così: dato che si paga a tempo, tanto vale farlo fruttare al massimo della densità d’interesse, questo tempo. E qual è l’interesse più mediamente denso del medio giovinastro in stato avanzato di adolescenzialità ritardata? Non ve lo sto neanche a scrivere per esteso, per non recare offesa al vostro acume (…i meno intuitivi sappiano che il concetto è condensabile in una paroluzza di 4 lettere, alla quale spesso s’inneggia per popolare spontaneismo, con testimonianze grafiche istoriate sui muri delle stazioni e degli autogrill più esclusivi).
Fin da quei primordiali e vetero-belluini approcci col nuovo strumento tecnologico, mi accorsi di una caratteristica di internet che credo continui a rappresentare ancora oggi una delle sue forze principali. Mi riferisco al suo rappresentare una sorta di moderna lampada di Aladino, per di più esente anche dal classico vincolo dei tre desideri canonici. «...Su internet c’è tutto...»: questa affermazione l’ho sentito ricorrere spesso e sotto certi punti di vista la ritengo condivisibile. Forse però è meno condivisibile l’ampliamento immaginifico ad infinitum che nella fantasia comune si è andato facendo riguardo al nuovo mezzo, trasformato così in vero e proprio veicolo d’espressione di una “desiderabilità” pura ed illimitata.
Fatto sta che sotto questa veste veniva visto l’internet dei primi tempi dagli occhi scarsamente informatizzati di un gruppetto di campagnoli in avanscoperta epocale alle porte della città. Onnipotenza mista ad onniscienza pensavamo di andare ad estrarre da quei pochi centimetri quadrati luminosi. L’allegra combriccola di Grandi Fratelli ci sentivamo, impazienti di tuffarci in una dimensione che immaginavamo straboccante di tutti i tipi più straordinari di Grandi Sorelle, quasi sperassimo di venir a scoprire persino l’esistenza al mondo di individui umani di genere femminile che sono soliti portarsela in giro con la riga orizzontale (…mi riferisco all’acconciatura dei capelli, ovviamente).
Il locale dotato di postazioni internet era molto frequentato da umanità giovanilastra di ogni tipo. La riservatezza, praticamente una chimera. Al timone si doveva piazzare allora il più “meno esperto” di noi, quello che aveva un minimo di familiarità nell’abbassare rapidamente finestre, nello zittire schermate, nel dissimulare all’occorrenza ricerche calienti. Tutt’intorno, una corona caciaronesca di copiloti suggeritori in seconda, ciascuno vociacchiando le più assurde richieste, ogni volta regolarmente riecheggiate dal controcanto ridanciano del coro di tutto il resto della compagnia: «...Ma nooo, daaai, questo è troppo da maniaci!!!...».
Come da miglior tradizione di tutte le lampade d’Aladino che si rispettino, anche le nostre avventure internettiane alla ricerca dell’introvabilità estrema del desiderio perduto, si concludevano sempre con dei nulla di fatto clamorosi, compensati almeno da tanto divertimento e preziose risate. Nella foga di far scaturire l’inimmaginabile, ci si sparava più che altro delle gran paginate scritte di risultati dei motori di ricerca di allora, col loro fiuto ancora parecchio farlocco rispetto alla segugità sconfinata del google attuale. Oppure, scartabellando fra i presunti meandri del proibito smodato, ci si ritrovava ad approdare su siti dal candore più lindo che si potesse pensare.
Ma la nemesi suprema dello sfregatore di lampade scornato, ci toccò in sorte con una delle ricerche più strampalate, azzardata a giusto coronamento di chissà quale brain storming ultra-demenziale. Dopo aver ricercato fra gli anfratti dell’indicibilità goliardica esageratamente smisurata, eravamo capitati su un sito dedicato a talune peculiari ed innominabili esternazioni gassose, fisiologicamente manifestate dall’essere umano con compresenza opzionale di sonorità annesse. Con l’intenzione di deliziare le aspettative riderecce della ciurma, il nostro nocchiero sbagliò clamorosamente la consecutio temporum fra l’avvio di uno di quei file “retro-melodici” ed il giusto livello del volume, finendo per far scaturire dalla perfida macchina un gran tuono simil-petale che devastò per intero l’aere video-giochereccio del locale, con inevitabile figura da peracottari rimediata in gran stile da tutto l’equipaggio di marinai virtuali sgangherati.
A volte ne riparliamo ancora, coi miei amici, di quelle lontane avventure da proto-naviganti della fantasia, in mari stranieri ed ostili. Ed ovviamente si ride sempre, ancora. Ormai internet ce lo siamo messi in casa tutti, ed abbiamo scoperto che può servire anche a finalità diverse da quella monotematica dei nostri primi approcci.
La mia postazione domestica in particolare è dotata tuttora di una caratteristica ultradecennale, conservata tale e quale fin dalla prima connessione. Siccome l’attacco alla linea telefonica è situato ad una decina di metri dal computer, da sempre, quando voglio accedere ad internet, devo tirare un cavetto per farlo arrivare sino al modem, nel quale ogni volta lo devo innestare. Ho pensato già varie volte di ovviare a questa scomodità obsoleta. Ma due motivi mi hanno sempre fatto desistere. Uno è il fatto che a questa piccola procedura preparatoria ormai mi sono affezionato, ed essa mi ricorda anche certi buffi aneddoti casalinghi. Come ad esempio quella volta che uno dei miei mici gironzolanti per casa si dilettò a mangiucchiarmi il filo, lasciando sul pavimento proprio due bei pezzettini mozzati di netto con cura, mentre io, nell’altra stanza, non sapevo a quale santo votarmi per riuscire a capire come diavolo non si riuscisse ad attivare la connessione.
L’altro motivo sta nella possibilità, una volta visto quello che mi interessa sul web, di potermi sentire definitivamente sconnesso nel vero senso della parola, dopo aver cavato fuori fisicamente lo spinotto dal modem ed arrotolato il cavetto nei pressi del telefono, pronto per un nuovo collegamento a venire. Non tanto per evocare chissà quali sensi di un mal rinnovato ed ipocrita rifiuto luddistico. Internet, nella mia scala di “accessori socio-esistenziali”, rimane pur sempre un fattore di grande importanza.
Il punto della questione sta piuttosto nella soddisfazione ricavabile dalla sconnessione assoluta. Per riconciliarmi appieno con la consapevolezza di come in fin dei conti sia sempre meglio aver ben chiaro in mente che le donne nella realtà effettiva sono solite portarsela appresso con la riga messa in verticale (parlo sempre dell’acconciatura dei capelli…e cos’avevate capito?!?!?).
Sono pronto a scommetterci, una caterva simile di freddure non l'avete mai sentita...
Un ometto aveva acquistato un’automobile. Non sapeva cosa farsene, dal momento che non aveva la patente. Era affetto da una rara forma di amnesia a singhiozzo. Ecco perché non gli potevano dare la patente. Non è che non fosse assolutamente idoneo alla guida, in teoria. Ma magari succedeva che, stando al volante, si scordasse di colpo a cosa servono i semafori, oppure come si rallenta la marcia del veicolo e così via.
E questo era niente. Gli capitò persino di comprarsi un'automobile invece di due etti di prosciutto cotto. Si era appunto dimenticato della sua impossibilità autistica, quella volta che infilò la porta di un autosalone, dimenticando nel contempo la finalità stessa degli autosaloni, ben deciso a conseguire finalmente, chissà come mai proprio lì dentro, l’agognata licenza di guida. Nel lasso di tempo dei quattro passi fatti addentrandosi nel locale, anche la dimenticanza del motivo per cui s’era introdotto nel negozio lo colse con inesorabile regolarità. Abbozzando di fronte all'irresistibile blandizia del rivenditore, non gli rimase altro da fare che comprarsi un’automobile.
Il giorno dopo, quando se n’era ovviamente già scordato, arrivò a casa dell'ometto la vettura. Gli omini dell’autosalone erano venuti a consegnarla in grande stile. Stupito, l’ometto dimenticante, conoscendosi, li ricevette in ogni caso di buon grado. Eccezionalmente si ricordava di aver appena guardato nel frigorifero alla ricerca dei due etti di prosciutto cotto che era convinto di aver comprato in mattinata ed intendeva mangiarsi per cena. Non avendo trovato poc’anzi il prosciutto, alla vista degli omini con la vettura, gli ci volle un attimo a fare due più due: doveva aver firmato il contratto all’autosalone, convinto di comprare due etti di qualcosa al bancone self-service di un autosalume.
Questo stato di amnesia a sprazzi gliene faceva succedere di tutti i colori, tanto che avrebbe potuto scrivere un libro intero, raccontando le sue strambe avventure. Peccato che pochissimo dei fatti successi rimanesse depositato nel suo ricordo. Scordandosi spesso le cose che aveva mangiato il giorno prima, faceva ad esempio settimane intere ad abbuffarsi dello stesso piatto. Un'overdose di spaghetti allo scoglio gli procurò un inizio di scoliosi.
C’erano poi periodi in cui le amnesie lo coglievano più di rado. Allora un senso di sconforto calava in lui mentre considerava la sua condizione, dato che gli rimaneva impressa leggermente più a lungo. Si recava allora dal suo dottore. Questi gli ripeteva sempre che “doveva farsi animo”. Era la frase prediletta dal medico: «…Si faccia animo, so che non è un disturbo da poco, ma ci può convivere, si faccia animo…». L’ometto dimenticante si mise di buzzo buono e si fece veramente animo. Si fece molto animo. Si fece troppo animo. Si fece talmente tanto animo, che gli venne una punta di anemia.
Nel condominio dell’ometto dimenticante, viveva una giovane famiglia con un figliolo di una decina d’anni, il piccolo Alberto, bambino non cattivo, ma piuttosto vivace. La mamma del pargolo trascorreva intere giornate a chiamare e rimbrottare il bimbo per qualche marachella o per mille altri motivi: «...E Alberto di qui, e Alberto di lì, e Alberto di su, Alberto di giù...». L’ometto dimenticante non poteva evitare di udire a tutte le ore l’immancabile cantilena tanto che ad un certo punto si fece pure una settimana a letto con l’albertosi acuta.
Un giorno, l’ometto dimenticante conobbe una donna, professione pilota di linea. Era una bella signora sempre elegante, che a furia di attraversare banchi nuvolosi di cirri, soffriva leggermente di cirrosi. Per questo motivo, la donna aveva dovuto prendersi un periodo di riposo. Durante la licenza, per tenersi un po’ impegnata, si era messa a fare vendite porta a porta di sensazioni di volo. Con questo genere di servizio, aveva pensato di andare a coprire quella fetta di mercato occupata dalle persone timorose di salire su un aereo. Il suo insegnante al corso di vendita di sensazioni smarrite, un pasticciere in pensione di Tortona che per hobby coltivava glicine, ripeteva spesso durante le lezioni: «...Anche se la gente ha ormai raggiunto un tasso di glicemia intollerabile, ricordate che il mercato è pur sempre una grossa torta...».
Il primo cliente della donna pilota fu proprio l’ometto dimenticante. Lei suonò al suo campanello, presentandosi nel pieno fulgore di tutta la sua aerea eleganza. «...Chissà...» pensava l’ometto mentre faceva accomodare la signora in salotto, «...ne avrò combinata un’altra delle mie, facendomi carpire qualche firma una qualche volta che mi serviva invece soltanto mezzo chilo di parmigiano...». L’ometto dimenticante non ricordava di aver mai volato in vita sua e nemmeno gli era chiaro se avesse paura o no di viaggiare in aereo. Sta di fatto che con i racconti narrati così appassionatamente dalla signora pilota, gli parve effettivamente di volare per davvero. Lei aveva una voce calda e pastosa, avvolgente, un vero e proprio intortamento con la cigliegina sopra.
L’ometto dimenticante, al colmo del rapimento narrativo e dell’ammirazione, un po’ confuso ed emozionato, voleva ricambiare la signora pilota di tutto quel bene ricevuto attraverso i suoi racconti. Rovistò a suo modo nella cianfrusaglia mnemonica che si ritrovava ed alla fine, il complimento più carino che gli riuscì di tirare fuori fu: «...Ma lo sa che lei è proprio una signora...ecco, come dire: proprio una signora ventosa...». L’amnesia dell’ometto funzionava in maniera imprevedibile. A volte, la consapevolezza gli tornava tutta d'un botto. Allora il ricordo si faceva vivido come l'attimo esatto della marchiatura impressa a fuoco sul posteriore di una vacca nel vecchio West. Era in quei casi che si rendeva irrimediabilmente conto di aver appena pronunciato un'incontrovertibile vaccata.
Ma il candore e la svagatezza dell'ometto conquistarono la donna pilota. Dopo una frazione di momento in cui fra i loro sguardi corse una leggera scarica di imbarazzo muto, la signora pilota scoppiò in una fragorosa risata, con gran sollievo partecipe da parte dell'ometto a sua volta sorridente. Una volta placata l'impennata di ilare complicità innescata fra i due, la signora pilota chiese all'ometto dimenticante se avesse per caso gradito uscire a cena con lei, qualche sera.
Fissarono per un giorno a caso di uno dei week-end seguenti. Trattandosi dell'ometto dimenticante, la vaghezza dell'appuntamento, oltre ad affascinare tremendamente la signora pilota, era d'obbligo. L'ometto dimenticante, scordandosi regolarmente la nozione di week-end, si presentò in perfetto orario un mercoledì sera. La signora pilota, sempre più affezionandosi all'inaffidabilità dell'ometto, oppure sempre più affidandosi alla sua affettuosità, si vestì in un battibaleno per uscire, col suo solito fare elegante per natura.
Quel loro primo appuntamento si aprì con spettacolare non senso. Camminavano sul marciapiede, immersi cordialmente in una nuvoletta di chiacchiere di ricognizione, quando un gran trambusto si diffuse per la strada. Una valanga gigante di mollica di pane rotolava di qua e di là, rischiando di travolgere tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Un passante, scampato fortunosamente all’impatto, raccontò all’ometto dimenticante ed alla sua nuova amica pilota che si trattava di un fornaio andato completamente nel panico.
A parte questo furtivo interludio iniziale, la serata dell’ometto dimenticante e della sua nuova amica pilota trascorse molto piacevolmente. Una volta entrati nell'elegante ristorante, l’amica pilota, levandosi il cappotto, aveva svelato una scollatura molto seducente. La misteriosa e buia scriminatura del seno era emersa in forma così sferoidale e prorompente che l’ometto si pigliò subito una bella sinusite. Girandogli le spalle per consegnare il cappotto alla guardarobiera, lei era riuscita inoltre a scatenare nell'ometto dimenticante anche una sequela di sensazioni siderali.
Quando si trovava insieme all’amica pilota, l’ometto dimenticante aveva la sensazione che il suo disturbo mnemonico si affievolisse. Anzi, il suo difetto, mitigato dalla gentile presenza aviatoria di lei, si mutava quasi in pregio. L’amica pilota, con tutto il tempo trascorso fra le ali di tanti tipi di velivoli, aveva sviluppato una leggera forma di alitosi. Stranamente questa caratteristica fisica, in altri contesti non certo esaltante, divenne subito molto cara all'ometto dimenticante. Anzi, in seguito si accorse addirittura che, fra gli ingredienti principali nella ricetta dell'incipiente innamoramento che si andava cucinando negli atri del suo cuore, quell'inusuale aromaticità di fiato divenne uno degli aspetti della signora pilota che non dimenticava mai, trasformandosi in fonte di nostalgia di lei nei momenti in cui non stavano insieme.
L'ometto dimenticante si rimpinzò di due bistecche, scordandosi di averne appena divorata un'altra, ordinò tre primi, perché guardando ad esempio le gare olimpiche in tele, aveva sempre detestato vedere due degli atleti sul podio che ricevevano soltanto l'argento ed il bronzo. E poi parlava all'amica pilota con soavità, inanellando una graziosa serie di piccoli poetici strafalcioni.
Più l'ometto dimenticante si profondeva senza sosta in tale accumulo di stramberie delicate, più nell'animo della signora pilota lievitava il fervente desiderio di ritrovarsi a planare con lui negli sconfinati cieli dell'intimo confronto sensuale.
Come la signora pilota poté felicemente constatare, fare l’amore con l’ometto dimenticante era un’esperienza multiforme, pluricromatica ed incessantemente cangiante. Una volta giunto a tagliare il traguardo di una prima fatica amatoria, l’ometto dimenticante si scordava quasi subito di aver gustato da pochi attimi i dolci frutti della fusione androgina, ed era pronto a ripartire di nuovo lancia in resta. L'ometto dimenticante non ricordava di aver mai fatto l'amore in modo così intenso e coinvolgente. A dire il vero, non ricordava nemmeno se avesse mai fatto l'amore, prima di averlo fatto con la sua amica pilota.
Questa serie di circostanze fece sì che al primo decollo, la signora pilota dovette amorevolmente illustrare tutte le modalità di volo all'ometto dimenticante: come si maneggiava la cloche, come si entrava ed usciva dall'hangar, come si comunicava con la torre di controllo, l'utilizzo del carrello nei continui atterraggi e decolli (in modo da non nuocere alla sfericità delle ruotine), quali erano i panorami più suggestivi da sfiorare a volo radente, oppure gli aeroporti più piacevoli nei quali fare scalo.
Ad ogni nuova ascesa in quota, era poi necessario ricominciare la lezione di volo sempre da capo, cosicché di volta in volta lei poteva guidare lui su rotte amorose incessantemente rinnovate e sconfinate. La signora pilota si divertiva poi a canzonare con affetto l'ometto dimenticante, rivelandogli magari, all'inizio di una nuova planata fra le nubi dei sensi, che fare l'amore consisteva nello stare affacciati insieme alla finestra, vestiti solo dalla cintola in su, guardando il cielo spalla a spalla. L'ometto, grazie all'effetto taumaturgico sortito dalla presenza dell'amica pilota, ricordava ormai molte più cose di quante non desse ad intendere. Finse in ogni caso di stare affettuosamente al gioco e dopo dieci o quindici minuti trascorsi alla finestra con l'arietta fresca a tenere in stallo le carlinghe delle pance, girò il capo di lato ed atterrando con uno sguardo a sorriso nel tepore caro del fiato di lei, sussurrò: «...Questa volta mi è piaciuta tanto, è stato molto bello...».
Non fu quella l'ultima volta che fecero l'amore durante la loro prima magica nottata. Mentre la signora pilota meditava che probabilmente non sarebbe più tornata al suo impiego sui voli di linea, dal momento che non avrebbe più potuto ritrovare là emozioni minimamente paragonabili a quelle provate volando con l'ometto dimenticante, fecero ancora l'amore tante altre volte, prima di atterrare addormentati e spossati l'uno sulla pista delle braccia dell'altra. Quando si svegliarono, andò a finire che fecero l’amore persino in una coltre di fiori di loto, certi ormai di potersi infischiare anche del rischio di contrarre l’otite.
Ed ecco come fu che l'ometto dimenticante, pur non potendo guidare l'automobile che aveva in garage, imparò a volare.
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Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
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