Mala tempora currunt, cari amici viandanti per pensieri.
Mixando sgangheratamente due mezze espressioni, in modo da rendere conto ancor meglio del mio attuale stato di smarrimento, senza centellinare i giri di parole ammetto di sentirmi come uno zombie fuor d’acqua.
Vicissitudini generali fanno di questo momento un periodo non esattamente propizio e in più segni cupi continuano ad abbattersi sulla nostra povera nazione, talvolta uniti a stoccate tragicamente concrete. Riguardo al disastro del terremoto, mi mancano le parole. Dico solo che mi ha toccato e angosciato oltremodo. Sono paesi come il mio ad essere stati colpiti, sono persone familiari, anche se non le conoscevo. Suona strano, quando accadono simili enormità, continuare il proprio tran-tran ordinario, già incerto e vacillante di per sé. Si procede leggermente allucinati, solo perché forse non rimane altro da fare. Tutto l’insieme dei propri valori si resetta dentro, ci si accorge di quanto care siano le piccole cose quotidiane, il passato appare più che mai un porto sicuro nel quale rifugiarsi mentalmente.
Questo non va bene per niente. Donarsi in preda alla corrente, patire la deriva, è sbagliato. Bisogna cercare di tenere salda la barra della “concava nave”, seguire come possibile una rotta, per quanto malferma essa sia. Evitare di lasciarsi attirare, alla stregua di alcuni compagni di Odisseo, nell’entroterra dell’isola dei lotofagi, perché:
«…chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto,
non voleva portar notizie indietro e tornare,
ma volevano là, tra i mangiatori di loto,
a pascer loto restare e scordare il ritorno.
E io sulla nave li trascinai per forza, piangenti,
e nelle concave navi sotto i banchi dovetti cacciarli e legarli.
Allora agli altri fidi compagni ordinavo
di salire in gran fretta sulle concave navi,
perché nessuno, mangiando il loto, scordasse il ritorno…».
“Odissea” (IX, 89 – 103) – Omero
Rivolgo questi ammonimenti soprattutto a me stesso, perché la mia natura di lotofago è assai spiccata, sempre latente e pronta a tornare in superficie. La tentazione di non volerne più sapere nulla di nuovi dati, di nuovi stati, di nuovi fati, fortissima si annida nel mio animo. Il pericolo non è scordare il passato, ma fare del passato l’unica prospettiva, dimenticandosi del ritorno.
Ogni volta devo farmi un promemoria, per ricordare come la vita sia un viaggio di ritorno verso un luogo in cui forse non siamo mai stati, ma che pure abita dentro di noi da sempre.
Mai dare per scontata la propria superiorità verbale. E nemmeno il proprio istinto argomentativo. La nemesi storico-linguistica, sempre sotterraneamente in agguato, nel momento più inatteso potrebbe sempre calarci fra capo e collo la decisiva mazziata dialettica sbugiardatrice.
Mi trovavo nei giorni scorsi al “Gillipixiland – Villic & Bifolk – Store”, il mini-marketino locale, l’Essecorta di noi campagnoli, per fare alcuni acquisti. Dopo aver zompato curiosando fra gli scaffali, mi apprestavo ad accodarmi alla piccola serpentina di persone in attesa di pagare. Quand’ecco che colgo, dietro di me, uno scampolo di chiacchiera fra una cliente, attardatasi nel reparto frutta e verdura, e la signora addetta a pere, mele, insalata e compagnia bella verdeggiante.
Dissertavano del tempo, argomento di per sé già alquanto ambivalente, perché passibile di essere portatore sia di altissimi concetti, sia delle banalità più fruste e bisunte. Dopo aver alquanto cincischiato intorno al fondamentale punto dell’estrema variabilità meteorologica di questo maggio un po’ pazzerello, non passa un minuto che la signora acquirente cala il carico da 11 delle frasi fatte, l’asso di denari delle futilità stampate in serie, la quintessenza del mezzostagionismo applicato: «…Sì, guarda, è una roba da matti: non si sa mai come vestirsi…».
Se fra gli articoli della mia spesa ci fossero state delle uova, all’udire quella perla di mediocricidio colposo aggravato da futili motivi, mi sarebbero senz’altro cadute a terra per assonanza geometrica, insieme ad un altro paio di accessori sferoidali, normalmente recati con sé dal comune maschio cavalcante un comune cavallo di pantaloni, che “metaforicamente” mi sono caduti a terra “per davvero”.
A metà tra l’indignato per gioco ed il divertito, ho proseguito il mio codeggiar verso la cassa, sorridendo tra me e me di cotanto sfoggio di sublimità pescata nel miglior repertorio del dialogar stantio.
Mal linguistico me ne incolse!
Venuto il mio turno di sborsare il corrispettivo “euristico” per gli articoli asportati, al vedere che la cifra dovuta terminava con alcuni spiccioli finali, il mio amico cassiere mi ha chiesto se per caso avessi potuto facilitargli le cose con un po’ di metallo monetoso di rincalzo. Per agevolare il tondo-cifraggio del resto, mi sono messo dunque a scartabellare nel portafogli, alla ricerca degli occorrenti Talebani, le monetine da 5, 2 e un centesimo di euro, così soprannominate da un’altra signora di Gillipixiland (questa sì a suo modo geniale dicitrice), perché come i guerriglieri Afgani appunto, si rintanano sempre talmente bene negli anfratti più misteriosi del borsello, che quando le cerchi non le trovi mai.
L’amico mio cassiere non aveva osato sperare in tanto dettaglio spicciolo da parte mia, tutt’al più la sua richiesta era rivolta ad un euro intero, che tappasse alla bene meglio la frattura matematico-monetaria. E’ stato a quel punto che, quasi senza pensare a cosa stavo dicendo, gli ho propinato una delle frasi fra le più rafferme ed avariate immaginabili. Estraendo dal borsello l’esatto importo in Talebani utile a coprire con precisione la piccola stonatura di rotti contenuta nella cifra dovuta, ho infatti ottusamente sentenziato: «…Potrei stupirti con effetti speciali…».
E nell’attimo stesso in cui maldestramente rievocavo quel ritrito slogan, ripescato direttamente dal peggio del repertorio pubblicitario anni ’80 (la decade di massima esaltazione della futilità al potere), la luce della ripicca linguistica mi si è accesa dentro luminosa e beffarda: di presunzione espressiva avevo ferito, ma della stessa moneta ero poi stato ripagato (con me stesso come protagonista unico e “facente caso” esclusivo a tutta la dinamica, essendo io avvezzo e da sempre e sensibile alla pratica del divertirsi con poco).
Esiste una strada musicale alla conoscenza? Forse essa risiede nel mito, e in ciò che del mito oggi sopravvive in misura più evidente, ossia l’arte.
Comincio così, vaniloquendo alla grande, perché in questi giorni tra un’avventura di Tex Willer ed un albo di Topolino, mi è capitato sottomano un tometto di assai complessa complessione. Trattasi di una piccola ma densissima opera: «La nascita della filosofia» di Giorgio Colli, uno dei maggiori studiosi italiani di Nietzsche, nonché grande indagatore delle radici remotissime del pensare filosofico stesso.
Un po’ per ignoranza mia, un po’ per l’effettiva oscurità ed “ostilità” del tema che Giorgio Colli cerca di trasmettere al lettore, mi sono accorto di capirci poco nelle sue pagine. O meglio, non è che non ci capissi proprio. Per dirla più precisamente, ci capivo in maniera musicale.
L’assunto fondamentale del libro prende le mosse da una constatazione abbastanza immediata: se la filosofia etimologicamente nasce come “amore per la sapienza”, deve essere esistita un’epoca antecedente durante la quale l’oggetto d’interesse non fu tanto “l’amore per”, ma piuttosto la sapienza stessa:
«…Platone chiama “filosofia”, amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i “sapienti”. D’altra parte la filosofia posteriore, la natura della filosofia, non è che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto l’“amore della sapienza” sta più in basso della “sapienza”…».
“La nascita della filosofia”
Giorgio Colli - 1975
Fin qui, abbastanza chiaro.
Le dolenti note comprensive vengono tuttavia nelle pagine seguenti, quando Colli si addentra nel pieno di quell’epoca pre-filosofica durante la quale l’uomo si trovò immerso nella sapienza pura, senza il distacco di una presa d’atto esterna, ma attraverso l’immedesimazione del vissuto stesso: l’epoca del mito. In quelle pagine si racconta di Apollo che scaglia frecce sugli Achei (la peste da cui pendono origine le vicende dell'Iliade), di Dioniso e i suoi “ministri”, Minosse e il Minotauro, e così via. Dietro quelle vicende fantasiose, ma immortali, si intuisce una verità sottostante. Ma non si riesce ad afferrarla con chiarezza integra.
Il mito è infatti un tentativo di addentrarsi molto profondamente nei recessi dell’“inconoscibile”. Per questo si nutre di paradosso:
«…Il paradosso […] meglio si adatta all’“inconoscibile” di quanto si adatti la chiarezza che strappa il mistero alla sua oscurità presentandolo come qualcosa di “conosciuto”. Questa usurpazione fuorvia l’umano intelletto nella hybris (= “tracotanza”, “superbia conoscitiva”) facendogli credere di avere raggiunto mediante un atto conoscitivo il possesso del mistero trascendente, di averlo “atterrato”. Perciò il paradosso riflette un gradino più alto dell’intelletto, non forzando l’inconoscibile ad apparire come conoscibile, riproduce più fedelmente lo stato effettivo delle cose…».
Carl Gustav Jung
Citazione da “La vita assurda – Paradossi dello sviluppo in Winnicott” – Fulvio Scaparro e Cristina Bianchi - 1992
Sono soltanto bagliori di vero, quelli che ci colgono, rievocando le vicende del mito e soprattutto sono bagliori intraducibili al di fuori della loro narrazione stessa:
«…Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne…».
“Lo specchio nello specchio” - Michael Ende – 1983
Questo fenomeno psico-esistenziale è maggiormente intuibile facendo un parallelo con la dimensione musicale. La musica ci parla di verità che sono soltanto sue e che percepiamo profondissime, ma quando siamo chiamati a spiegarle attraverso qualsiasi altro linguaggio, l’incanto si sgretola e ne derivano solo labili ombre. Provate a raccontare la Pastorale di Beethoven a parole, oppure la Rapsodia in blu di Gershwin, o “What difference does it make” degli Smiths. Un bravissimo critico musicale, uno scrittore molto sensibile, un direttore d’orchestra geniale, potranno tirare fuori concetti e descrizioni che si avvicinino in qualche modo a riflettere le emozioni essenziali connesse a quei brani. Ma uscendo dal “labirinto” dell’esecuzione musicale stessa, il suo senso genuino svanisce via, potrà essere presente solo come riflesso vago, simile alle ombre posate sulla parete della caverna platonica.
Con il mito, accade qualcosa di simile. Il mito è reso attraverso l’evidenza di una storia, d’accordo, ma è la sua verità che si può conoscere soltanto “musicalmente”. Si tratta di un tipo di conoscenza “in presa diretta”, non mediabile con il distacco oggettivo riservato alle nozioni razionalmente circoscrivibili: una consapevolezza che rimane viva sino a quando non si cerca di sezionarla in tante sottoparti con la cui sommatoria si tenti di dare spiegazione dell'intero. Così come la bellezza della musica non può essere afferrata come somma di tante note, allo stesso modo la verità sottostante al mito non può essere colta come semplice somma di una concatenazione di vicende.
Qual è l'intrinseco senso della finitezza umana, irrisolvibilmente sospesa tra un senso di solitudine infinito e la sete di voler essere fusi nella completezza di un «Uno» universale ed “amoroso” che non lasci scarti d'esistenza al di fuori di sé? In quali lontani recessi del mistero ebbe origine la capacità umana di comunicare? Non ve le saprei spiegare in termini diversi da come sono scritte, ma di fatto, “musicalmente”, a simili domande mi sembra di trovare una risposta in queste frasi:
«…Come il mito di Dioniso sbranato dai Titani è un'allusione al distacco di natura, all'eterogeneità metafisica tra il mondo della molteplicità e dell'individuazione, che è il mondo dello strazio e dell'insufficienza, e il mondo dell'unità divina, così la doppiezza intrinseca alla natura di Apollo testimonia parallelamente, e in una raffigurazione più avvolgente, una frattura metafisica fra il mondo degli uomini e il mondo degli dèi. La parola è il tramite: essa viene dall'esaltazione e dalla follia, è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana, si manifesta nell'udibilità, in una condizione sensibile…».
“La nascita della filosofia”
Giorgio Colli – 1975
Sempre musicalmente, possiamo intendere certi fenomeni ordinari, legati in particolare proprio al mistero della parola e del suo presentarsi alla mente come portatrice di pensieri illuminanti:
«...In Omero, ogni volta che l'uomo, dopo aver riflettuto, prende una decisione, si sente spinto a ciò dagli dèi. Anche a noi, se ritorniamo con la mente al passato, pare di non essere noi ad agire, e allora ci chiediamo come mai ci sia venuta l'idea, il pensiero. Se poi al concetto che il pensiero ci sia “venuto” diamo un'interpretazione religiosa, non saremo lontani dalla fede omerica...».
“La cultura europea – e le origini del pensiero europeo”
Bruno Snell - 1963
Il mito e l'arte (con la musica in particolare, per l'immediatezza e l'evidenza connaturate al suo linguaggio) sono portatori di verità vive, contemplabili soltanto nella pienezza del loro “farsi”. Zeus, Apollo, Atena, Dioniso, non sono personaggi di favolette evanescenti, ma una strada alla spiegazione del reale nel tentativo di rimanere immersi in esso. Sono l'espressione di un'antica sapienza che veniva compresa vivendola. Per questo ancora oggi non possiamo spiegare la Pastorale di Beethoven a parole, così come abbiamo ancora un costante bisogno della poesia, della pittura, della scultura e di tutte le arti, per continuare a raccontarci che cosa sia il mondo.
E ancora musicalmente, nei giorni scorsi, mi sono reso conto di aver inteso questa frase, sentita pronunciare di sfuggita alla tv, non so più da quale uomo di cultura o politico ellenico: «...Fare uscire la Grecia fuori dall'Europa? Ma è assurdo: Europa è una parola greca!...».
In fatto di bellezza, ho sempre preferito quella semplice. Non dico banale, ordinaria, questo no. In fin dei conti, la semplicità è una dimensione molto complessa da raggiungere. Uno stato di grazia in cui ci si immerge dopo un processo di esperienza molto lungo (e non sto nemmeno a citare la celeberrima frase di Picasso, che ci mise una vita per imparare a disegnare come un bambino...).
La bellezza per me è dunque semplice. Per questo mi piace un sacco osservare i papaveri.
Sono i fiori più umili che mi vengano in mente, leggermente sfogliati e tendenzialmente svogliati. Con quei loro petali di carta velina che si spiegazzano al vento, senza mai perdere però l’eleganza del “finto-stropiccio”, scoperto dagli stilisti e dai sarti solamente centinaia di anni dopo. E con il gambo esile, sempre un po’ inclinato, quasi un ironico e lieve accenno alla fatica di reggere per tutto il giorno quel gran capoccione rosso. Visto da vicino, il papavero sembra una dama spilungona che non si prende nemmeno la briga di depilarsi le gambe, tanto sa di avere fascino da vendere. Anche qui, Vivienne Westwood è arrivata molto tempo dopo.
Già questi sarebbero motivi buoni per mettersi a contemplare un fiore del genere. Ma la cosa che davvero mi fa impazzire del papavero è che cresce nel grano. E’ qui che si capisce veramente come la sua semplicità, questo fiore se la sia conquistata dopo un percorso geniale. Il campo di grano offre lo scenario ideale per risaltare al massimo la sua bellezza. Perché tra l’altro, non ci cresce in un momento qualsiasi, ma sceglie un lasso di tempo ben preciso, quando il grano non è troppo basso. Da una parte lo si può capire: va beh che i suoi fan gliele perdonano ampiamente, ma le gambe pelose, se alla fine non risaltano più di tanto, fa lo stesso.
Il vero segreto però sta nella magia di farsi trovare in mezzo al grano, esprimendo in pieno il proprio fascino, esattamente a partire dai giorni in cui la spiga è già alta, ma non ancora gialla. Una cosa è quell’armonia e quel dosaggio di colori. Contro il giallo maturo, successivamente non sarà più la stessa cosa. Ma un’altra cosa è che sullo sfondo della verzura di maggio ancora al dente, la tremolante rossa chiazza papaveresca cade con una perfezione di misura cromatica che lascia senza parole. Visti in lontananza, questi ineffabili puntini luminosi dispersi nella grande marea frumentizia, riecheggiano una casualità studiata che sembra scaturire direttamente da un dripping naturalistico alla Jackson Pollock.
Fra le spighe verdi, nel vento, il papavero dà il meglio di sé. In quei casi, dalla maturità dell’arte moderna, si viene rimandati ai suoi albori e nel pieno di quelle ondate vegetali, riverbera un becchettio rosseggiante di piccole boe impressionistiche. Anche se fra i grandi di quel periodo, forse solo Monet lo ritrasse con un certo rilievo, il papavero a mio parere è un fiore impressionista per sua natura.
Il nucleo della sua bellezza sta nella tremula ed indefinita presenza che sa suggerire, nella macchia di colore puro in cui si trasforma in lontananza, nel gioco percettivo che sa creare, sempre in bilico tra l’indistinto e l’evidente.
Quando vado a visitare un museo, una mostra, un’esposizione temporanea o permanente che sia, ho sempre modo di veder messa in rilievo la mia ignoranza.
Un po’ perché quasi sempre mi ritrovo a vagare fra le opere conoscendo poco dell’artista in questione, del suo periodo storico, del discorso in cui si inserisce la sua poetica e così via (ma se è per questo, sono in buona compagnia, dato che la stessa condizione riguarda il 97% dei visitatori museali medi attuali, stando ad una ricerca da me recentemente commissionata alla società demoscopica GillipIxtat). E nemmeno so dire bene come mai mi si sia fissata in testa questa distorta convinzione di equiparare la visita museale alla visione cinematografica, per la quale, sì, l’ignoranza rispetto alla trama è un pregio di cui armarsi preventivamente.
Ma poi soprattutto, finisco per sentirmi insipiente fra le opere, perché sono soggetto, pressoché regolarmente, ad un curioso fenomeno di “fuga dell’attenzione”.
Dopo alcuni minuti, svanita l’iniziale ondata di curiosità per il tema in esposizione, mi accorgo che l’interesse, dapprima posato prevalentemente sulle superfici dipinte o sui rilievi scultorei, si mette a vagare altrove, andando a zonzo per le sale e finendo per appiccicarsi addosso alle persone.
La fluente vivezza umana finisce sempre per prevalere sulla fissità semi-eterna delle opere. Ignoranza dunque nel senso propriamente radicale della parola: mi metto quasi ad ignorare i quadri e vengo risucchiato nel turbinio di esistenzialità diffusa per le stanze museali.
Mi sono interrogato spesso intorno a questa propensione ed ho riflettuto in particolare riguardo a come essa si possa conciliare con la mia asocialità di fondo. Gli aspetti sono molteplici. Non ultima, la constatazione paradossale che mi viene da fare, secondo la quale l’asocialità potrebbe essere anche vista come una forma preziosa di riverenza per l’«umano». O perlomeno, un certo tipo di asocialità, quella più bonaria che non contempla pensieri malvagi nei confronti del prossimo. Un asociale, secondo questo assunto, sarebbe un tizio che «patisce» così tanto la presenza dell’«altro», da non riuscire ad assorbirne se non piccole dosi per volta. E le modalità di “dosaggio umano” proprie della scorribanda museale si prefigurano esattamente nei termini giusti per soddisfare questo necessità di sorbire essenza centellinata di gente, infuso d’umanità filtrato a trama minuta.
Ma perché proprio il bagno di folla museale, e non, per esempio, quello del centro commerciale o della semplice strada urbana brulicante di bipedi pensanti? Certo, il museo non è l’unico ed esclusivo luogo in cui praticare con profitto il “people spotting”. Lo si può fare con soddisfazione anche in molti altri ambienti, ma al museo risulta essere un’esperienza particolare. Lì le persone si aggirano recando in sé una disposizione d’animo preziosa, un’apertura acuita verso la bellezza: in quei frangenti, sono veri e propri forzieri vaganti di pensieri preziosi, col coperchio sollevato nell’atto di lasciare adito al venir colmati di stupore culturale.
D’accordo, fra i tanti ci capiterà in mezzo anche la donnetta di una certa età, coinvolta suo malgrado nella gita delle pentole, che ammirando in apparenza il più sublime dei Piero della Francesca, si sta in realtà crucciando fra sé e sé per il ritorno molesto di quel fastidioso dolore ad un callo. Oppure il ragazzotto in gita scolastica, tutto mentalmente preso dai suoi progetti di darsi da fare al meglio con la compagna di classe più carina, mentre gli ineffabili giochi tonali di un Kandinsky gli impressionano invano la retina.
Scremata tuttavia questa porzione di visitatori museali dal pensiero alieno (anch’essi pur sempre altamente degni di considerazione antropo-curioso-logica), resta l’insieme degli “ammuseati” a grandi linee reputabili come ortodossi, o quasi. Non fa difetto poi al ragionamento il fatto che fra questi ortodossi o presunti tali, si ritrovino anche tizi come me, già a loro volta rapiti fra i flutti del loro cogitare misto artistico-antropologico. Il “people spotting” museale non presuppone infatti la completa estraniazione rispetto alle opere in mostra, ma al contrario, si nutre proprio della dialettica suddivisione d’interesse, equamente ripartito fra opere ed umanità contemplante. Condizioni ancor più consone a questa forma di osmosi esistenziale si possono riscontrare nelle sale di lettura delle biblioteche. Qui il confronto individuale di ciascuno col suo libro rende particolarmente prezioso il distillato di pensosità brulicante di cui l’aria viene permeata. Peccato però che in biblioteca le entità umane siano statiche, mentre nel museo hanno il vantaggio di distribuirsi dinamicamente per gli spazi, agevolando al meglio la considerazione visiva ed il variegato rapporto con l’altrui fisicità, messa a disposizione con le modalità rarefatte della pura presenza semovente e meditante.
Osservare semplicemente la gente, liberi dall’urgenza di sentirsi in qualche modo chiamati a doverci avere a che fare in misura più dettagliata e diretta (magari col dialogo vero e proprio…), è dunque pratica assai gratificante per l’asociale virtuoso.
E forse non è un caso che questa via privilegiata al divertirsi con poco, venga esaltata nell’ambiente museale. La ritualità prevista dalla visita; l’esigenza supposta di un certo grado di concentrazione e di silenzio; la presenza delle opere stesse, così cariche di indicibile malia; lo stesso aspetto “faticoso” del passare in rassegna opere d’arte, insito nel duplice compito di macinare metri e metri coi piedi e al contempo filtrare nozioni su nozioni con la mente, oppure suggestioni su suggestioni con la pancia e con la sensibilità: sono tutti fattori che rendono l’umanità museale un soggetto particolarmente degno di nota nella pratica del “people spotting”.
Queste idee mi sono sempre parse poco più che balzane gillipixate, fino a quando non vidi alla tele un bel documentario dedicato alla troppo breve vita di Keith Haring, lo sfavillante quanto sfortunato artista americano, divenuto famoso nel mondo grazie al brulichio fascinoso e all’universalismo fumettistico dei suoi omini stilizzati. Lo stesso Haring dichiarò in un’intervista qualcosa di simile alle impressioni museali che ho cercato di tratteggiare oggi. Anche nel caso delle sue visite a mostre ed esposizioni, l’interesse migrava gradualmente ed inevitabilmente dalle opere alle persone presenti nelle sale. Magari non accadeva propriamente per “asocialismo”, ma in ogni caso gli accadeva.
Il “magnetismo animale” delle vite vive e visitanti, messo a contatto con la nobilitazione ideale dei valori esistenziali celata nelle opere d’arte, dà adito ad un confronto polare fra due espressioni del reale che si nutrono a vicenda.
E’ come se quei lampi di sospensione sublimata dell’essenza vitale, colti attraverso le opere, causassero sgomento e desiderio di rifugiarsi nella rassicurazione che il flusso attivo della vita stessa, presente nei visitatori, è pur sempre capace di arrecare con il suo costante moto cronologico. Mentre nel frattempo, è come se la sgusciante presenza umana decantata nella sua turistica fuggevolezza, avesse a sua volta necessità di sentirsi poggiare su fondamenta di significati stabili, meno precari, che nelle opere si presume di rinvenire. Nella duplice sete per una forma viva e pulsante dell’«essere», e per una forma dell’«essere» fissata nei suoi sub-intuiti “valori eterni”.
E se non mi sono spiegato molto bene, non crucciatevi oltremodo, cari amici viandanti per pensieri, perché ovviamente tutto questo va preso nello spirito del più puro divertirsi con poco.
Amici, sto attraversando il più intenso periodo di aridità narrativa da quando Andarperpensieri ebbe inizio. A questo punto, temo quasi l'inaridimento definitivo, ma spero di no. Almeno, però, mi sono detto: se deve finire, non finisca con quel cesso di articoletto messo lì lo scorso 25 aprile, che mi fa veramente "schifio". Van bene anche queste insipide quattro righe, ma che non sia quella boiata...
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
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Io uso Second Life per fare quello che nella mia vita vera non posso
proprio: volare come un uccello, costruire edi...
La fine arrivò un venerdì mattina di fine gennaio.
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Senza esplosioni o clamori. Così come arrivano le cose peggiori:
silenziosamente. La Nation Wide Bank smise semplicemente di rispondere alle
telefonate d...