lunedì 21 maggio 2012

Musicalmente capendo




«...Fare uscire la Grecia fuori dall'Europa?
Ma è assurdo: Europa è una parola greca!...»

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Esiste una strada musicale alla conoscenza? Forse essa risiede nel mito, e in ciò che del mito oggi sopravvive in misura più evidente, ossia l’arte.

Comincio così, vaniloquendo alla grande, perché in questi giorni tra un’avventura di Tex Willer ed un albo di Topolino, mi è capitato sottomano un tometto di assai complessa complessione. Trattasi di una piccola ma densissima opera: «La nascita della filosofia» di Giorgio Colli, uno dei maggiori studiosi italiani di Nietzsche, nonché grande indagatore delle radici remotissime del pensare filosofico stesso.

Un po’ per ignoranza mia, un po’ per l’effettiva oscurità ed “ostilità” del tema che Giorgio Colli cerca di trasmettere al lettore, mi sono accorto di capirci poco nelle sue pagine. O meglio, non è che non ci capissi proprio. Per dirla più precisamente, ci capivo in maniera musicale. 

L’assunto fondamentale del libro prende le mosse da una constatazione abbastanza immediata: se la filosofia etimologicamente nasce come “amore per la sapienza”, deve essere esistita un’epoca antecedente durante la quale l’oggetto d’interesse non fu tanto “l’amore per”, ma piuttosto la sapienza stessa:

«…Platone chiama “filosofia”, amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i “sapienti”. D’altra parte la filosofia posteriore, la natura della filosofia, non è che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto l’“amore della sapienza” sta più in basso della “sapienza”…».

La nascita della filosofia
Giorgio Colli - 1975

Fin qui, abbastanza chiaro. 
Le dolenti note comprensive vengono tuttavia nelle pagine seguenti, quando Colli si addentra nel pieno di quell’epoca pre-filosofica durante la quale l’uomo si trovò immerso nella sapienza pura, senza il distacco di una presa d’atto esterna, ma attraverso l’immedesimazione del vissuto stesso: l’epoca del mito. In quelle pagine si racconta di Apollo che scaglia frecce sugli Achei (la peste da cui pendono origine le vicende dell'Iliade), di Dioniso e i suoi “ministri”, Minosse e il Minotauro, e così via. Dietro quelle vicende fantasiose, ma immortali, si intuisce una verità sottostante. Ma non si riesce ad afferrarla con chiarezza integra. 

Il mito è infatti un tentativo di addentrarsi molto profondamente nei recessi dell’“inconoscibile”. Per questo si nutre di paradosso:

«…Il paradosso […] meglio si adatta all’“inconoscibile” di quanto si adatti la chiarezza che strappa il mistero alla sua oscurità presentandolo come qualcosa di “conosciuto”. Questa usurpazione fuorvia l’umano intelletto nella hybris (= “tracotanza”, “superbia conoscitiva”) facendogli credere di avere raggiunto mediante un atto conoscitivo il possesso del mistero trascendente, di averlo “atterrato”. Perciò il paradosso riflette un gradino più alto dell’intelletto, non forzando l’inconoscibile ad apparire come conoscibile, riproduce più fedelmente lo stato effettivo delle cose…».

Carl Gustav Jung 
Citazione da “La vita assurda – Paradossi dello sviluppo in Winnicott” – Fulvio Scaparro e Cristina Bianchi - 1992

Sono soltanto bagliori di vero, quelli che ci colgono, rievocando le vicende del mito e soprattutto sono bagliori intraducibili al di fuori della loro narrazione stessa:

«…Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne…».

Lo specchio nello specchio” - Michael Ende1983

Questo fenomeno psico-esistenziale è maggiormente intuibile facendo un parallelo con la dimensione musicale. La musica ci parla di verità che sono soltanto sue e che percepiamo profondissime, ma quando siamo chiamati a spiegarle attraverso qualsiasi altro linguaggio, l’incanto si sgretola e ne derivano solo labili ombre. Provate a raccontare la Pastorale di Beethoven a parole, oppure la Rapsodia in blu di Gershwin, o “What difference does it make” degli Smiths. Un bravissimo critico musicale, uno scrittore molto sensibile, un direttore d’orchestra geniale, potranno tirare fuori concetti e descrizioni che si avvicinino in qualche modo a riflettere le emozioni essenziali connesse a quei brani. Ma uscendo dal “labirinto” dell’esecuzione musicale stessa, il suo senso genuino svanisce via, potrà essere presente solo come riflesso vago, simile alle ombre posate sulla parete della caverna platonica.

Con il mito, accade qualcosa di simile. Il mito è reso attraverso l’evidenza di una storia, d’accordo, ma è la sua verità che si può conoscere soltanto “musicalmente”. Si tratta di un tipo di conoscenza “in presa diretta”, non mediabile con il distacco oggettivo riservato alle nozioni razionalmente circoscrivibili: una consapevolezza che rimane viva sino a quando non si cerca di sezionarla in tante sottoparti con la cui sommatoria si tenti di dare spiegazione dell'intero. Così come la bellezza della musica non può essere afferrata come somma di tante note, allo stesso modo la verità sottostante al mito non può essere colta come semplice somma di una concatenazione di vicende.

Qual è l'intrinseco senso della finitezza umana, irrisolvibilmente sospesa tra un senso di solitudine infinito e la sete di voler essere fusi nella completezza di un «Uno» universale ed “amoroso” che non lasci scarti d'esistenza al di fuori di sé? In quali lontani recessi del mistero ebbe origine la capacità umana di comunicare? Non ve le saprei spiegare in termini diversi da come sono scritte, ma di fatto, “musicalmente”, a simili domande mi sembra di trovare una risposta in queste frasi:

«…Come il mito di Dioniso sbranato dai Titani è un'allusione al distacco di natura, all'eterogeneità metafisica tra il mondo della molteplicità e dell'individuazione, che è il mondo dello strazio e dell'insufficienza, e il mondo dell'unità divina, così la doppiezza intrinseca alla natura di Apollo testimonia parallelamente, e in una raffigurazione più avvolgente, una frattura metafisica fra il mondo degli uomini e il mondo degli dèi. La parola è il tramite: essa viene dall'esaltazione e dalla follia, è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana, si manifesta nell'udibilità, in una condizione sensibile…».

La nascita della filosofia
Giorgio Colli1975

Sempre musicalmente, possiamo intendere certi fenomeni ordinari, legati in particolare proprio al mistero della parola e del suo presentarsi alla mente come portatrice di pensieri illuminanti:

«...In Omero, ogni volta che l'uomo, dopo aver riflettuto, prende una decisione, si sente spinto a ciò dagli dèi. Anche a noi, se ritorniamo con la mente al passato, pare di non essere noi ad agire, e allora ci chiediamo come mai ci sia venuta l'idea, il pensiero. Se poi al concetto che il pensiero ci sia “venuto” diamo un'interpretazione religiosa, non saremo lontani dalla fede omerica...».

La cultura europea – e le origini del pensiero europeo
Bruno Snell - 1963

Il mito e l'arte (con la musica in particolare, per l'immediatezza e l'evidenza connaturate al suo linguaggio) sono portatori di verità vive, contemplabili soltanto nella pienezza del loro “farsi”. Zeus, Apollo, Atena, Dioniso, non sono personaggi di favolette evanescenti, ma una strada alla spiegazione del reale nel tentativo di rimanere immersi in esso. Sono l'espressione di un'antica sapienza che veniva compresa vivendola. Per questo ancora oggi non possiamo spiegare la Pastorale di Beethoven a parole, così come abbiamo ancora un costante bisogno della poesia, della pittura, della scultura e di tutte le arti, per continuare a raccontarci che cosa sia il mondo.

E ancora musicalmente, nei giorni scorsi, mi sono reso conto di aver inteso questa frase, sentita pronunciare di sfuggita alla tv, non so più da quale uomo di cultura o politico ellenico: «...Fare uscire la Grecia fuori dall'Europa? Ma è assurdo: Europa è una parola greca!...».

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