giovedì 5 luglio 2012

Revisionismo e cicale



L’ho già detto altre volte: ad essere campagnoli svagati, ci sono anche i suoi piccoli vantaggi. Non solo ti stupisci di continuo di piccoli fenomeni floro-faunistici che ti ritrovi ad osservare di tanto in tanto, ma per di più, forte della tua speciale insipienza naturalistica, puoi azzardare interpretazioni del tutto infondate e nondimeno feconde di divaganti vagabondaggi per pensieri.

Questi bozzoletti entomologici rinsecchiti li avevo già notati sporadicamente qua e là anche in altre occasioni. Ma mai prima mi era capitato di poterli apprezzare in questa sorta di congelato inno corale transumantico, producendosi in questa manifestazione non manifesta, in questa processione senza progresso, una marcia cristallizzata nel tempo capace di promanare un senso indefinito di ritualità sospesa.

Le cicale, più che farsi vedere, di solito si sentono. Nel bene e nel male, sono il simbolo dell’afa estiva, forse ancor più del sole a picco e delle ascelle sinfoniche. Basta pensare un attimo all’innegabile contributo reso alla cinematografia da questo grattugiante insetto. Quando un regista vuole conferire efficacia ad una scena calata in un torrido pomeriggio estivo, non può fare niente di meglio che metterci come sottofondo un coro di cicale frinenti a manetta.


Le cicale di rado le vedi, insomma, ma l’altro giorno, per caso ne ho vista una. Friniva da par suo proprio accanto ad uno di questi piccoli sarcofagi vuoti d’avorio luminescente. Avendo modo di confrontare forme e dimensioni della sagoma inanimata con quelle dell’insetto vivo e vibrante, con estrema volpitudine campagnolesca ho desunto che quei vacui mini-scafandri sparsi un po’ per tutto il giardino, altro non erano se non i panni vecchi abbandonati da altrettanti esemplari di cicala.

Come dicevo, il fatto curioso è che, anche se il volume sonoro dell’afoso frinire non mi pare aumentato di decibel in misura particolarmente significativa, quest’anno di smoking di cicala dismessi ce ne sono in giro a bizzeffe: lungo i rami degli alberi, abbarbicati alle foglie, appiccicati alle losanghe della rete metallica. E ancor più curioso è questo loro essere disposti in una sorta di corteo inanimato che ha un po’ del misterioso e un po’ del poetico insieme. Fa impressione poi notare come la sagoma riproduca nei minimi dettagli il calco perfetto della bestiolina, come fosse uno stampo industrialmente progettato per sfornare alla perfezione ogni particolare morfologico.


Proprio mentre ero intento a lasciarmi cullare in siffatto modo dalla risacca dei pensieri, ecco che un molesto andirivieni pizzicante inizia a palesarsi nella periferia dei miei malleoli, sino a giungere fra i sobborghi degli stinchi. Lo stuzzicante fastidio era dovuto all’intraprendenza di alcune formichine scassaminchia che avevano scambiato le mie gambe per un territorio di conquista destinato a placare, in modo noto solo a quelle testoline antennate, il loro insaziabile spirito imprenditoriale.

A quel punto, non ho potuto fare a meno di ripensare alla celeberrima favoletta della formica e della cicala, e a come probabilmente la morale da essa tradizionalmente desunta, sia frutto di un’errata assunzione del punto di vista più consono dal quale considerare tutta la storia.

Antropomorfizzati, ossia calati pari pari in un parallelo diretto coi valori umani, gli atteggiamenti dei due insetti rispondo alla perfezione ai requisiti della favola: la formica è innegabilmente un esempio di laboriosità, mentre la cicala è una perdigiorno senza uguali, da biasimare a tutto spiano.

Ma se lasciamo che gli uomini rimangano uomini, e gli insetti facciano la loro parte da insetti, la suonata cambia di tono non poco. Cosa me ne sbatte a me se l’indefessa formichina si affanna tutto il giorno a far su i suoi mini-montarozzi di terra, ad accumulare briciole e riempire i forzieri di provviste? Per quel che mi compete, son stato un’oretta in giardino e mentre le cicale mi hanno offerto quell’insondabile spettacolo di scenografica surrealtà, accompagnandolo con l’ideale colonna sonora da loro stesse confezionata, le formiche non hanno saputo far altro che darmi fastidio col loro irritante tramestio di zampette inferto fra un pelo e l’altro dei miei sguarniti garretti.

In una ideale quanto improbabile scala di valori, dovrò a questo punto preferire sempre la formica? Quanto meno, mi sorgono ingenti dubbi in merito. Il che mi fa pensare anche ad un insegnamento più vasto, che si può trarre da questa modesta avventura campagnolesca, ribaltando un po’ la classica morale favolistica. Il preconcetto idealizzante non di rado porta ad osservare i fatti della vita da una prospettiva fallace. Mentre la verifica esistenziale diretta può farci valutare in misura forse più eccentrica, ma presumibilmente più veritiera, i meccanismi della realtà.

2 commenti:

MR ha detto...

gilli, io mi ritengo una formica, perchè non amo perdere tempo, e perché sono una che si organizza anche per le minimissime sciocchezze. però adoro le cicale. sarà che amo l'estate e loro me la ricordano, ma sentirle mi dà una sensazione di benessere indescrivibile. non ne ho mai viste, e neanche il loro guscio. guarderò con attenzione... ho il tempo dalla mia ;)

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: ciao EmRose :-) io credo che nel carattere di ciascuno di noi esista una parte di cicala e una di formica :-) L'importante sarebbe saper dosare gli interventi della parte giusta quando è necessario, essere formichina o cicala nei momenti giusti...ma non sempre è così semplice, temo :-)

Quest'anno ce ne sono davvero tanti di guscietti di cicale, almeno qui da me ne ho visti un sacco...

Bacini frinenti :-)