Certe volte vale la pena affrontare libri ostici. Sia quando sono raccomandati da una tradizione di sapienza assodata, sia nel caso di autori meno noti, ma che si distinguano per una loro certa qual forma di “oltranzismo” intellettuale.
La lettura, in quei casi, spaventa e disorienta, ci si capisce poco, si è costretti a combattere di continuo contro un vago scoramento in sottofondo. La stizza derivata dall’ardua comprensione e la forte tentazione di abbandonare sono sempre dietro l'angolo. Le righe vanno lette e rilette più volte, per riuscire a carpire perlomeno piccoli lampi di senso qua e là. Ma poi, se il libro è davvero “custode di profondità”, in qualche modo ti ripaga. Insomma, conviene affidarsi ogni tanto ad un autore che sa “spingersi oltre”.
Nella vita, conoscendo persone di ogni tipo, carattere ed indole, mi è successo molte volte di incasellarle inconsciamente in due generalissime categorie umane: ci sono coloro che affrontano le cose con sguardo filosofico, e coloro che sono esenti da tale sguardo. Naturalmente è più probabile che sia dotato di sguardo filosofico chi ha effettivamente affrontato lo studio della filosofia a scuola. Ma questa non è una condizione rigorosamente necessaria a tutti i costi.
E' buona cosa aggiungere poi che questa classificazione non va intesa come riferimento a due compartimenti stagni. Come spesso accade, è difficile che un individuo rientri completamente nelle caratteristiche di un “tipo distintivo” precisamente definito. La realtà funziona più per sfumature, che non per nette separazioni fra bianco e nero. Non ci saranno dunque “ciechi filosofici completi” da una parte, e “vedenti filosofici assoluti”, dall'altra. Sarà opportuno invece parlare, di caso in caso, di “miopia filosofica”, di “presbiopia filosofica”, di “astigmatismo filosofico”, oppure di “lungimiranza filosofica a tratti offuscata da nubi e nebbie”, e così via.
Un bellissimo condensato di definizioni riguardanti cosa significhi possedere uno sguardo filosofico sul mondo, l'ho rinvenuta in un libro molto ostico (tra l'altro da me già citato la scorsa volta), ma altrettanto soddisfacente e “nutriente”. Il libro in questione è “Terminologia filosofica”, di Theodor W. Adorno (edizione, nella fattispecie, Einaudi, del 2007), una raccolta di lezioni universitarie tenute agli allievi di Francoforte fra il 1962 ed il 1963. Nella sua lezione numero 11, intitolata “Filosofia e saggezza”, Adorno afferma:
«...La filosofia può essere addirittura definita come un atteggiamento che cerca, per quanto può, di spezzare l’universale contesto di accecamento; secondo questa interpretazione – che in nuce si trova già in Eraclito – la filosofia è resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...[...]...nella misura in cui la filosofia rappresenta effettivamente la resistenza intellettuale organizzata, essa è opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società. Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia. Bisogna vedere la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà, bisogna vedere come certi modi individuali di comportamento che considerati isolatamente appaiono giusti e ragionevoli meritino invece valutazione completamente diversa se considerati nel tutto sociale a cui appartengono. Bisogna far luce sul contesto di accecamento, come si sono sforzati di fare Eraclito nell’antichità e Schopenhauer nella filosofia moderna. La filosofia è resistenza contro tutti i clichés, che è diventata consapevole…».
Ci sono, in queste poche righe, alcune espressioni che rifulgono di una potenza estrema, straordinari “poli di condensazione significativa”. Ho riportato tutto il passo, per ovvi motivi di completezza, ma i punti in cui l'intensità si esprime nel suo fulgore massimo, sono secondo me ben precisi, ed offrono uno spettacolo intellettuale mirabile, nell'evidenza dell'isolamento:
«...spezzare l’universale contesto di accecamento...»;
«...resistenza contro l’opinione costituita, che si identifica in larga misura con la colpa universale...»;
«...resistenza intellettuale organizzata...»;
«...opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società...»;
«...Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia...»;
«...la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro l’ovvietà...».
Guardandosi intorno, ci si rende conto di come invece l'accecamento e l'ovvietà prevalgano. La “passività intellettuale organizzata” è preferita dai più. Mentre si è fatto fortissimo il “senso di colpa universale” che attanaglia, come una camicia di forza esistenziale, il soggetto al quale capiti, per i più disparati motivi, di ritrovarsi deragliato dagli standard di vita (materiali, ma soprattutto riguardanti lo “status sociale”) dettati dall'opinione costituita.
Gioverebbe alla realtà quella particolare incoscienza-coraggio (che solo uno sguardo filosofico sul mondo sa fornire) di spingersi alle più elevate quote del pensiero. Sospettare sempre di quello che ci è “messo davanti senza che lo abbiamo chiesto”. In poche parole, servirebbe più capacità di saper guardare alle cose con “sguardo filosofico”, nell'accezione complessa di questa espressione suggerita da Adorno (che non si esaurisce alla mia breve citazione, ma è estesa per tutto il bellissimo tomo da cui l'ho estrapolata).