Oggi Kika ci porta a fare un lungo viaggio in un paese lontano dal punto di vista geografico, ma forse ancor più distante da noi per quanto riguarda la cultura e le tradizioni. Ci caliamo infatti nel fascino e nel “mistero” dell'arte Giapponese, con un'opera realizzata nel 1953 da Tatsumi Shimura (1907-1980) e intitolata “Hanafubuki” o “Falling cherry blossom” (letteralmente “Fiori di ciliegio cadenti”).
Parlare dell'arte giapponese vuol dire affacciarsi su di un “altro” universo intero. Le cose da dire sarebbero infinite e richiederebbero conoscenze troppo vaste, in proporzione alle mie modeste possibilità di tuttologo della domenica. Mi limiterò dunque ad esporre alcune considerazioni personali, impressioni varie che mi sono fatto nel tempo, sleggiucchiando qua e là cose riguardanti questa ammaliante cultura.
Innanzitutto, la prima, banalissima sensazione: ogni volta che mi capita di osservare un prodotto dell'arte figurativa di una cultura diversa dalla nostra, mi sembra quasi di respirare una boccata d'aria pulita. Mi prende dentro un senso di leggerezza, un sapore di libertà insita nel fatto di poter spaziare con lo sguardo su nuovi orizzonti, su prospettive inedite. Questo effetto, l'arte giapponese lo sa rendere in modo particolarmente intenso.
Non che all'arte “occidentale” non si voglia bene. Anzi. Ma succede con l'arte un po' la stessa cosa che capita nelle relazioni fra umani. Per quanto l'amato voglia bene all'amata ed aspiri a passare con lei più tempo possibile, adorerà nella stessa misura anche quel paio di orette d'interregno trascorse al bar con gli amici a parlare di calcio e Formula Uno. Per quanto l'amata straveda per l'amato, si gusterà con non minore soddisfazione la vitalità e lo sfavillio di quattro chiacchiere dalla parrucchiera con le amiche.
Cambiare il punto di vista da cui si osserva il mondo: è forse questa la più importante linfa che nutre il desiderio di ciascuno di espandere animo, conoscenza e curiosità. Sì, non mi sono sbagliato, non ho buttato lì a caso una forzatura semantica, volevo proprio scrivere quello: “espansione della propria curiosità”. Ossia mantenere sempre attiva la percezione dinamica di essere continuamente intenti ad alimentare la proprio aspirazione verso il “nuovo”, verso ciò che è “altro”. In questo consiste, per ampia parte, il fatto di sentirsi vivi.
Tenendo presenti queste riflessioni per il momento un po' fumose, facciamo ora un salto nella seconda metà dell'Ottocento, dalle parti di Parigi e dintorni, affidandoci alle parole riportate da Sir Ernst Gombrich nella sua pregevole “Storia dell'arte” (Phaidon Press Limited, Londra, 2009 – pagg. 525-526):
«...Il secondo alleato degli impressionisti [oltre alla fotografia], nella loro avventurosa ricerca di motivi nuovi e di nuovi schemi cromatici, furono le stampe colorate giapponesi. L'arte giapponese si era sviluppata sul ceppo di quella cinese, proseguendo sulla stessa falsariga per circa un millennio. Nel Settecento, però, forse sotto l'influsso di stampe europee, gli artisti giapponesi avevano abbandonato i motivi tradizionali dell'arte dell'Estremo Oriente, scegliendo scene della vita del popolo a soggetto delle loro xilografie colorate, di ardita fantasia e di impeccabile perfezione tecnica. Gli intenditori giapponesi non stimavano molto questi prodotti a buon mercato e preferivano l'austera maniera tradizionale. Quando il Giappone fu costretto, alla metà dell'Ottocento, a stabilire relazioni commerciali con l'Europa e l'America, queste stampe furono spesso usate come carta da imballaggio e si trovavano a basso prezzo nelle rivendite di tè. Gli artisti della cerchia di Manet furono i primi ad apprezzarne la bellezza, facendone avidamente collezione. In esse trovavano una tradizione non corrotta dalle regole accademiche e dai cliché da cui i pittori francesi anelavano liberarsi. Le stampe giapponesi li aiutarono a rendersi conto di quel peso di tradizioni europee da cui erano ancora inconsapevolmente aduggiati. I giapponesi si compiacevano di tutti gli aspetti inconsueti del mondo. Il loro maestro Hokusai (1760- 1849) rappresentava il Fujiyama visto a caso dietro una cisterna; Utamaro (1753-1806) non esitava a mostrare certe sue figure ritagliate dal margine di una stampa o di una cortina di bambù. Gli impressionisti furono davvero colpiti da questa ardita elusione di una regola così elementare della pittura europea, nella quale essi vedevano l'ultimo rifugio della vecchia supremazia della conoscenza sulla visione. Perché un quadro avrebbe sempre dovuto mostrare una figura intera o almeno la parte rilevante di una figura?….».
"Ancient Pontoon Bridge at Sano Kozuke Province" (1833-34) - Hokusai Katsushika
"Ancient Pontoon Bridge at Sano Kozuke Province" (1833-34) - Hokusai Katsushika
Il “modo occidentale” di fare arte si poneva dinnanzi agli impressionisti come il grande termine di paragone ineludibile: nel medesimo tempo un fardello che incuteva timore, ed un baluardo da oltrepassare. L'arte occidentale è nella sua essenza attraversata da due profonde direttrici: una temporale ed una spaziale. Temporalmente, ogni artista “occidentale” che intenda essere tale, è chiamato ad inserirsi in un “discorso” secolare, nel punto di sviluppo di un “linguaggio” codificato nel tempo da altri grandissimi predecessori. Spazialmente, il “modo occidentale” di fare arte, nel suo trasferire porzioni di realtà all'interno del perimetro ideale dell'opera, ha sempre privilegiato la resa di un territorio mentale contraddistinto da variazioni di potenziale delle quantità di «essere» rappresentato.
Mi spiego meglio con un esempio banalissimo. Prendiamo un ipotetico dipinto rinascimentale di un paesaggio con figure sparse qua e là, alberi, un ruscello, pastori, donzellette agresti, pecorelle e così via: “occidentalmente” leggendo questo dipinto, percepiremo una maggiore “concentrazione di essere” laddove si delinea la figura umana, quella di un pastore, ad esempio, o di una donzella. L'«essere» sarà invece più “diluito” dalle parti delle pecorelle, ed ancor più “annacquato” nel punto dove si staglia un albero, oppure il cielo, ecc.
Mi spiego meglio con un esempio banalissimo. Prendiamo un ipotetico dipinto rinascimentale di un paesaggio con figure sparse qua e là, alberi, un ruscello, pastori, donzellette agresti, pecorelle e così via: “occidentalmente” leggendo questo dipinto, percepiremo una maggiore “concentrazione di essere” laddove si delinea la figura umana, quella di un pastore, ad esempio, o di una donzella. L'«essere» sarà invece più “diluito” dalle parti delle pecorelle, ed ancor più “annacquato” nel punto dove si staglia un albero, oppure il cielo, ecc.
L'apertura dello sguardo sulla realtà dell'arte orientale, dovette provocare sugli impressionisti un effetto liberatorio indicibile: qualcuno stava dicendo loro che da quel fardello spazio-temporale ci si poteva anche affrancare. In un dipinto o in un'opera grafica giapponese, non c'è “differenziale di essere”: la realtà è abbracciata come “tutta degna” al medesimo grado, in una continuità del “tutto” scevra da secoli di centralità della figura umana inculcata nel nostro modo di vedere il mondo dalla lunghissima tradizione, per l'appunto, “umanistica”, che contraddistingue la cultura occidentale. Per questo nella figuratività giapponese ha uguale dignità rappresentativa un petalo di ciliegio, o ogni singolo pelo della pelliccia di un lupo (visto coi miei occhi nel 2010, ad una bellissima mostra al Palazzo Reale di Milano: “Giappone - Potere e splendore 1568-1868”), rispetto alla figura umana, e tutti questi elementi vengono ritratti con la medesima, meticolosa e rispettosa “adesione spirituale”.
L'autore proposto da Kika è stato attivo in un periodo relativamente recente, se rapportato alla secolare storia artistica del Giappone. Ma il suo fare espressivo si pone nella scia della tradizione figurativa nipponica, e tutto il discorso fatto, può a mio parere calzare abbastanza bene. Forse proprio perché assai diverso è il modo di guardare dei giapponesi al “fardello” della loro tradizione, ed in generale, come assunto filosofico-esistenziale di fondo, è da loro molto fortemente perseguita la consapevolezza di vivere intensamente e completamente l'«adesso».
A tal proposito, termino questa mia serie di suggestioni sparse con un'altra citazione che a mio parere, pur non parlando direttamente d'arte, coglie benissimo lo spirito artistico del paese del Sol Levante:
«...Anche se non fate niente, possedete la qualità dello zazen in ogni momento. Ma se cercate di trovarla, non possedete alcuna qualità. Non abbiamo alcuna finalità. Ma una via c’è. La via di praticare senza alcuna meta, ossia concentrarsi su ciò che si sta facendo nel momento presente. Una sola è la via. Il panorama che vediamo dal finestrino del treno cambierà, ma i binari su cui corriamo sono sempre uguali. E i binari non hanno né inizio né fine. Non esiste un punto di partenza né una meta da raggiungere. La nostra via è correre semplicemente sui binari e basta. Ma quando sorge in voi la curiosità per i binari sorge il pericolo. Limitatevi ad apprezzare la vista che si gode dal finestrino del treno. Non c’è alcun segreto. La natura di ognuno è sempre la stessa, come i binari...» E' un brano tratto da :“Mente Zen - Mente di Principiante - Conversazioni sulla meditazione e la pratica Zen” (1978) di Shunryu Suzuki-Roshi, un bellissimo libro che mi segnalò qualche tempo fa la cara amica Farly .
Ed eccoci alla parte che compete al “Gillipixel detective” di tratti femminei. Trattandosi stavolta di una figura dai tratti tipicamente orientali, sarebbe stato logico cercare un “alter-ego fisiognomico” fra i personaggi famosi attuali del mondo asiatico. Invece no: mi è sembrato più interessante (e divertente) rimanere nello spirito del gioco proposto da Kika per quanto riguarda la sua ricerca comparata fra moda e pittura: le somiglianze ricercate non hanno mai intenzioni “fotocopiative”, bensì mirano a proporre una “suggestione interpretativa”.
Ecco allora la più sbalorditiva sorpresa scaturita dalle mie indagini: il volto che a me è parso più calzante deriva dal profondo della napoletanità più verace e simpatica:
L'avrete riconosciuta: Marisa Laurito, divertente compagnona di mille follie arboriane. Tra l'altro, questa curiosa comparazione, mi ha fatto tornare alla mente un vecchio film di Totò, “Un turco napoletano”, che nella fattispecie potrebbe essere rivisitato in “Una nippo-napoletana”.
La seconda somiglianza che mi son divertito a scovare ha forse meno “efficacia diretta”, ma non è priva di una sua forza evocativa, in particolar modo in virtù delle fattezze degli occhi:
Anche questo è un volto notissimo: Serena Dandini, arguta e brillante conduttrice di numerosi show satirici televisivi.
Ho poi trovato un'ultima similitudine, forse un po' stiracchiata, ma ve la propongo ugualmente, così, per condividere con voi il divertimento gustato nella ricerca:
Abbiamo in questo caso un altrettanto famosa giornalista televisiva: Cesara Buonamici, da anni il volto serale del TG5.
Si conclude così anche questa puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”. E adesso son proprio curioso di vedere cosa ha escogitato la sempre fantasiosa Kika sul suo blog, per quel che riguarda le curiosità in fatto di arte e moda, nipponicamente declinate.
4 commenti:
È incredibile che queste meraviglie d'arte fossero usate come carta da pacchi!! Chissà che emozione per i pittori europei che le scoprivano in quel modo. Avranno provato la tua stessa sensazione di boccata d'aria fresca, e ancor più essendo per loro del tutto nuova.
Parlando della differente visione orientale mi hai fatto tornare in mente un libro letto anni fa, "Natura uomo donna" di Alan Watts, ed uno letto di recente, "Il Tao e Aristotele" di Richard Nisbett: se ti affascina l'argomento te li consiglio, sono letture molto interessanti.
Ma veniamo ai volti: appena ho visto Marisa Laurito son rimasta senza parole! È proprio vero, nei loro tratti c'è qualcosa di affine! Lo stesso vale per le altre tue due scoperte. Hai fatto benissimo a cercare personaggi occidentali, il gioco si è rivelato particolarmente affascinante!
@->Kika: questa puntata delle nostre rubrichette mi è garbata tantissimo, Kika :-) il Giappone mi affascina parecchio, anche se non ne so tantissimo...queste stampe poi sono così evocative che è stato un divertimento puro cercare di dire qualcosa a riguardo e poi cercare i visi...
Sì, alla fine è stato più appassionante cercare fra i visi nostrani...la nippo-Laurito è proprio una sorpresa, vero :-) io faccio questa cosetta ovviamente nello spirito del nostro gioco, così, alla leggera, ma forse una ricerca del genere potrebbe anche avere implicazioni più complesse, attinenti all'antropologia, o scienze similari (senza volersi allargare troppo, ad ogni modo :-)...
Grazie per i suggerimenti bibliografici, li tengo presenti per future letture...mi piace leggere di tutto, ma ogni tanto mi riservo di lasciare spazio all'argomento della cultura orientale, che è una vera e propria miniera di sapienze a cui dovremmo far riferimento più spesso...
Grazie per aver scelto questo soggetto così ricco di divertimento :-) lo do sempre per sottinteso, e non ti rendo mai merito a sufficienza, perché in fondo il gioco prende il via ogni volta da te, con la tua scelta, e sei sempre bravissima a scovare curiosità e piccole perle che sanno scatenare la fantasia e lo "sbizzarrimento" culturale :-)
Congratulazioni, cara collega :-)
Bacini al sakè :-)
Possiamo dire di dividere pienamente il merito! Cin cin col sake' :)
@->Kika: :-)
Bacini cin :-)
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