giovedì 7 agosto 2014

Felino, troppo felino

Ogni volta che vedo un gatto in un film, mi prende una specie di inquietudine, di disagio. Dico film per dire qualsiasi tipo di rappresentazione umana che preveda una recitazione. E dico disagio in senso blando, per carità. Si tratta di più che altro di un lieve senso di estraniamento. Non per la presenza del micio in sé. Anzi, come ho già scritto in tante occasioni, i gatti sono fra i miei beniamini prediletti, nel mondo animale. Dunque è sempre un piacere vederli ritratti in qualsiasi forma e modalità espressiva.

Non avevo mai compreso bene la natura di questo disagio, fino a quando una breve scena di un documentario non mi ha illuminato. L'argomento trattato c'entrava molto poco coi gatti e la breve sequenza era estemporanea, tanto per rendere un po' di “atmosfera”. Il commento della voce fuori campo era sospeso, mentre per alcuni attimi si vedeva questo miciotto ben pasciuto “trascorrere” bello placido lungo un muro di cemento grezzo, e sopra di lui, contro la parete, la scritta “letteratura tedesca”, in tedesco, o qualcosa di simile (doveva trattarsi di un edificio universitario oppure era la sede di qualche altro istituto culturale). Il gatto si è fermato e per una manciata di momenti che sembravano eterni ha guardato verso la telecamera, in quella sospensione di tempo che solo i gatti sanno creare.

E' stato lì che ho capito. 

Il gatto è l'essere “anti-recitativo” per eccellenza. Ogni opera di finzione filmica umana, prevede l'ideazione preventiva di uno schema di azioni prefigurate, secondo un disegno di cause ed effetti ben preciso: ad un certo punto l'attore farà questo; poi dirà questa cosa; poi ancora si muoverà in quella direzione; prenderà in mano quell'oggetto; si produrrà nella tale espressione del volto; compirà un ulteriore gesto, e così via “copioneggiando”.

Ora, l'essenza del gatto è nella maniera più assoluta estranea a questa logica. La dimensione “causa-effetto” è ciò che di più lontano si possa pensare dalla sua natura. L'inserimento di un gatto nel contesto recitativo, per quanto venga fatto con tutto il rispetto possibile verso la sensibilità della bestiola, risulterà dunque sempre come una forzatura della realtà. Perché per il gatto non ci può essere una realtà parallela recitata: il gatto si muove solo nella sua realtà, che segue proprio regole logiche interne, non piegabili a nessun altro schema di scorrimento delle cose. 

Chi ha avuto un minimo a che fare con propri mici di casa, capisce benissimo cosa intendo. Quante interminabili istanti li avrete dovuti attendere, mentre sostavano sulla soglia di una porta, impedendovi di chiuderla o di aprirla, rapiti da una qualche remotissima loro riflessione felina. Oppure, quante volte avrete preparato una bella cuccia confortevole, e loro, con regolarità svizzera, sono andati a scovare il posto più impensato per i loro sacrosanti sonnellini.

Ma si badi bene, il punto non è che il micio fa solo ciò che vuole lui. Il punto è che questa indecifrabile bestiola si pone al di là del concetto stesso di volere o non volere qualcosa. L'«intenzionalità», così com'è da noi concepita, è una dimensione del tutto estranea all'essere del gatto. Certo, anche i gatti sembrano seguire in qualche modo taluni loro schemi che li guidano nelle scelte legate al percorso della propria vita spicciola. E pur tuttavia, lo fanno sempre con quell'aria di nobiltà interiore, quel senso di sovranità assoluta sull'essere, che, essendo così estranei ad ogni umano modo di rapportarsi con la realtà, non riusciremo mai bene a comprendere fino in fondo.

Per questo il micio filmato in quella scena di documentario mi è apparso rivelatore: perché gli era concesso di essere se stesso. La telecamera può solo adeguarsi al gatto: viceversa, è impossibile. E sempre per tutti questi motivi, ogni volta che vedo la bellissima scena finale di «Colazione da Tiffany», non posso fare a meno di commuovermi, ma anche di sorridere per la buffa atmosfera involontaria annessa. Perché, per quanto mansueto e ubbidiente fosse il bravo miciotto rosso impiegato per quei celeberrimi fotogrammi, mentre se ne sta “compresso” sotto la pioggia nell'ultimo intensissimo abbraccio fra Audrey Hepburn e George Peppard, nessuno al mondo sarebbe riuscito a togliergli dal muso quella inequivocabile espressione che sembra dire: «...Ma che minchia stanno facendo, 'sti due qua? E soprattutto: cosa vogliono da me?!?!?...».

2 commenti:

Kika ha detto...

Non ricordo la scena finale del film né riesco a vederla (mannaggia alla connessione lenta...), ma posso visualizzarla benissimo :))
Troppo simpatica la tua interpretazione (in senso letterale) del pensiero del micio rosso :)
Mi hai fatto venire in mente un parallelismo che realizzo solo ora: a volte quando la mia gatta mi fissa in un certo modo inspiegabile provo un disagio simile a quello che mi capita quando a guardarmi tutti seri sono gli occhietti dei neonati o dei bimbi molto piccoli. Forse perché gli umani adulti, con la loro educazione e la loro logica, tra loro non si guardano mai così (o se la fanno è proprio per provocazione:) I gatti però lo fanno in modo ancora diverso, più che scrutare per curiosità o per paura-controllo pare lo facciano con... distaccata meraviglia, ecco, come esseri di un altro pianeta che scuotono la testa di fronte a questi umani così buffi, goffi e a volte proprio assurdi :)

Gillipixel ha detto...

@->Kika: lo sguardo dei mici è tutto un capitolo immenso, Kika :-) ci si potrebbero scrivere libri e libri...il problema è che paradossalmente sarebbero libri tutti dalle pagine bianche :-) perché lo sguardo del micio è uno dei fenomeni più ineffabili che sia dato di osservare...dici bene, è uno sguardo al di là della logica, è situato fuori dallo spazio e dal tempo...molto bello anche il tuo parallelo coi bambini: forse è così, i mici hanno lo sguardo di noi sotto i tre anni, di quando il nostro animo fluttuava ancora nell'indistinto :-)

Il micio di Tiffany merita davvero, è un pezzo di storia del cinema involontario e della indomabilità felina :-)

Bacini da Tiffany :-)