sabato 16 maggio 2015

Segno, simbolo, arte


Questa settimana la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” per intoppi vari ha saltato un turno. Mi piacerebbe però fare ugualmente un piccolo discorso che tocca in qualche modo i significati profondi dell’arte. Lo spunto mi è venuto leggendo un bel libro di Umberto Galimberti, intitolato “La casa di psiche” (Feltrinelli – 2005).

Nel capitolo dieci, si parla della “Polisemia del simbolo in Jung”. L’argomento è complesso e non giurerei di aver capito proprio tutto, ma una cosa credo di averla colta: la differenza che sussiste fra “segno” e “simbolo”, la quale a mio avviso reca notevoli implicazioni anche rispetto al discorso artistico.

Sia segno, sia simbolo sono modi della significazione, metodi della trasmissione di significati. Il segno e il simbolo sono supporti più o meno fisici, strumenti più o meno concreti “per dire”, “per intendere qualcosa”. Sono una cosa che “sta per” un senso. Qui già dovremmo insospettirci e pensare che l’arte in qualche modo sia coinvolta nella faccenda. Pensiamo ad una parola, ad una pennellata sulla tela, ai suoni di una melodia, alle forme di una scultura, e così via. Il discrimine fra ciò che è arte e ciò che invece è semplice trasmissione di significati certi e circoscritti, si gioca per buona parte intorno alla differente natura del segno rispetto a quella del simbolo.

Un piccolo inquadramento storico può aiutare. 

L’uomo primitivo tendeva a vedere il mondo attraverso il simbolo. La filosofia greca inaugura invece il modo di pensare cosiddetto occidentale, che fa del segno il suo strumento prediletto di confronto con la realtà. Il “segno” è il supporto concreto adeguato a sostenere l’univocità del “concetto”. Prima dei filosofi, e in particolare prima di Platone e Aristotele, l’uomo non aveva mai usufruito della potenza conoscitiva del “concetto”. Concettualizzare vuol dire sintetizzare in una idea definita, la molteplicità delle cose. 

Dicendo “cavallo”, chi ascolta comprende che mi riferisco “universalmente” a tutti i cavalli “particolari” esistenti; lo stesso dicendo “topo”, “mano”, “freddo”, “tetta” (così, per sdrammatizzare un po’ la seriosità dell’esposizione…). L’idea di “topo”, di “mano”, di “freddo”, di “tetta”, nessuno le ha mai viste nel concreto, eppure dai greci in avanti rappresentano per noi quegli strumenti della conoscenza che non lasciano “scarti di senso”. L’idea (o concetto) esclude dal linguaggio tutto ciò che non pertiene al suo significato preciso e ben delineato. Tutto questo ha a che fare col “segno”: il segno è lo strumento del linguaggio con cui si rimanda ad un significato certo e circoscritto.

Tutt’altro discorso invece riguarda il simbolo”. Galimberti cita Jung, il quale afferma: «…Il segno sta per una cosa nota, il simbolo rimanda a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto…[…]…Un’espressione proposta per una cosa nota rimane sempre un mero segno e non costituirà mai un simbolo. E’ perciò assolutamente impossibile creare da connessioni note un simbolo vivo, cioè pregno di significato, giacché ciò che così si crea non contiene mai più di quanto vi è stato messo dentro. Ogni fenomeno psicologico è un simbolo, se si suppone che esso affermi o significhi anche qualcosa di più e di diverso che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza…».

Ora, volendo, il ragionamento si potrebbe fare alquanto complesso e forse si andrebbe anche oltre la portata delle mie semplici capacità intellettuali. Il modesto scopo di questa breve trattazione, credo tuttavia di averlo già raggiunto, ravvisando proprio in questa straordinaria frase di Jung, quella che secondo me può essere presa anche come bellissima definizione del senso dell’arte. 

Si può parlare dunque di arte quando ci si affida ad un simbolo (spesso espressione di “fenomeni psicologici”) per affermare o significare «…qualcosa “di più” e “di diverso” che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza…».

E per chiudere col triplice botto finale, come negli spettacoli di fuochi d’artificio, ribadisco il concetto e vi saluto con queste tre stupende chiose a raffica fatte da Galimberti stesso, riguardo a tutta la questione (con una piccola precisazione di termini: per Jung, il Sé è l'unità complessiva della personalità, che abbraccia coscienza e inconscio, mentre l'Io è il centro della mente cosciente). 

Dice dunque Galimberti:

«…”Symbolon” è dunque espressione che dice unità da remote distanze, tensione verso una totalità assente richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente. In termini junghiani: se l’Io è l’espressione della “situazione” presente, il Sé è quella totalità assente verso cui il simbolo “de-situa”. Il Sé dell’uomo è infinitamente più comprensivo del suo Io, così come i confini del possibile sono infinitamente più ampi della realtà determinata e consaputa…».

E qui mi domando ancora, ma poi chiudo davvero: l’arte non è costituita forse da un rivolgersi a quella totalità assente verso cui il simbolo “de-situa”? Non è in altre parole un’avventurosa esplorazione dei territori del Sé, realizzata viaggiando sul mezzo di trasporto offerto dall’energia dei simboli?

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