giovedì 28 giugno 2018

Le grattugie del cielo



Dove il mattino ha fatto un gradevole contratto con l’argine, s'incontrano pochi metri di ombra, su una distesa di camminamento altrimenti sotto il sole a picco per un'infinità di passi.

Una particolare curva del terrapieno, coincidendo col breve addensamento di alcuni pioppi a ciuffo (un “ciuffeto”) più vicini degli altri, concede al viandante una piazzola naturale di sosta refrigerata a temperatura ambiente mitigata.

Fermarsi, ascoltare l’alito del vento sopra tutto corpo e sollevare gli occhi in alto verso il fronzuto stormire dei rami, è un tutt’uno.

Pochi dettagli della natura riesco a trovare altrettanto evocativi e poetici, quanto un lenzuolo di cielo intravisto attraverso il crivello di una tremula cortina di rami abbondantemente fogliosi.

Pochi altri spettacoli sanno condensare così bene in sé la suggestione del molteplice che si sintetizza in un tema conduttore equilibrato.

Pochi professori di storia dell’arte saprebbero spiegare con altrettanta chiarezza, come da Monet a Jackson Pollock, ogni grande autore non abbia voluto raccontare niente di diverso da ciò che dicono con estrema limpidezza questi sfarfallamenti giocosi di fogliame.

Le piccole foglie del pioppo, fremendo una contro l’altra di migliaia di piccoli fugaci contatti, sono una distesa di manine salutanti e fatte nacchere nel vento.

Una simile apparecchiata di triangoli di cielo ritagliati dal fogliame, da un certo punto della storia poetica in poi, non ha potuto significare altro che queste parole:

“…Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi…” (Eugenio Montale),

dove il confondimento fra acqua e aria viene concesso senz’altro e con minimo sforzo, per licenza immaginativa.

Osservare il cielo, dunque, fra le “cangianze” vorticose del capriccio vegetale.

Lasciarsi inondare da grattugiate d'azzurro, piovute addosso come uno scroscio di caos addomesticato.

Galleggiare nelle profondità d’aria fresca d’ebano umbratile, come palombari appesi allo stupore della superficie di galleggiamento che s’intravede lassù, ordinatamente geometrizzata di assoluto.