L'uomo, di man in mano che diventava “moderno”, si è andato sempre più convincendo di essere, lui stesso, il centro della realtà.
Gli antichi invece sapevano che l’uomo, rispetto al resto del mondo, non è altro che un fesso qualunque.
Per i romani, come per altri popoli dell'antichità, ogni cosa reale, animata o inanimata, possedeva un suo spirito, o “genio”.
L’uomo si sentiva dunque immerso in una miriade di altre entità degne di rispetto.
Non sempre capiva il senso profondo di queste altre “porzioni di essere”, e allora, per cercare di farsene in qualche modo una ragione, cercava una spiegazione nei miti.
Una bellissimo leggenda riguarda proprio il Po, e in qualche modo quindi anche la Bassa.
La riporta, nella sua meravigliosa opera “Metamorfosi”, Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.), uno dei più grandi scrittori latini, e di tutti i tempi.
Fetonte era figlio del Sole (Helios) e della mortale Clímene.
Un giorno, giocando con un amico che si vantava di aver un grande papà, Fetonte sopportò fino al limite della pazienza la boria di quel piccolo strafottente, ma quando non ce la fece più, gli sbottò nei denti: “…Ah sì? E allora sappi che mio papà è il Sole…”.
Subito l'altro gli scoppia a ridere nei denti e gli fa: “…Ma vai per nespole, pajàs (pagliaccio)…stai a sentire tutte le frottole che ti racconta quella sciroccata di tua mamma Clímene?…”.
Fetonte se ne torna a casa tutto adombrato (il massimo dello scorno, per un figlio del dio della luce), e rivolto alla dubbia genitrice, le fa: “…Mamma, ma com'è questa storia? Mi prendono in giro, mi dicono che il mio babbo non è il Sole…”.
Clímene giura e spergiura che si tratta della verità, lui è figlio proprio del Sole, e per averne certezza, non deve far altro che andarlo a trovare nella sua reggia.
Fetonte si incammina e seguendo le indicazioni di mammà, arriva proprio nell’immensa dimora di suo babbo, il Sole, che si era sistemato non male in un gran villone dalle parti dell'Etiopia, o dell'India, o giù di lì.
Helios, il Sole, accoglie il figliolo con grandi feste e saputo il motivo di quel viaggetto a casa sua, lo rassicura e aggiunge: “…Certo che sono tuo papà…per dimostrartelo, ecco, chiedimi ciò che vuoi, e lo avrai…”.
Fetonte gli chiede di poter condurre, da solo, per una giornata, il carro del sole.
Al papà, nonostante fosse un tipo focoso, vengono i sudori freddi: “…Azz…ma no…ma sei sicuro? È troppo pericoloso, sono capace solo io, nemmeno Zeus in persona si azzarderebbe…”.
Ma non c'è niente da fare, il ragazzino testardo come un mulo non cede, e il papà non può rimangiarsi la parola.
Alla fine, fra mille raccomandazioni, Fetonte prende le briglie e parte per la salita azzurra del cielo, c'è da mettere in scena l'alba sopra al mondo.
Ma un po' che sentono alla guida uno senza patente, un po' che gli vogliono tirare un bello scherzetto, i cavalli subito si mettono a fare i matti, scompigliando la rotta e scorrazzando a casaccio nell’aria col carro solare.
Cominciano dei disastri che non vi dico, città ustionate, fiumi in secca, un caldo boia dappertutto…tanto che alla fine, la Terra stessa, temendo per la sua sopravvivenza, implora Giove di porre fine a quello strazio scottante.
Giove, seppur a malincuore, piglia in mano uno dei suoi fulmini più potenti, e con la sua infallibile mira, sbatte una saettata precisa addosso al povero, scriteriato cocchiere, e lo incenerisce con gran sollievo del mondo.
I resti di Fetonte precipitano in un punto non meglio precisato, lungo le rive del fiume Eridano, nome usato dai latini per indicare quello che per noi sarebbe stato il Po.
La mamma Clímene, saputo della disgrazia, girovaga dappertutto, per avere anche una minima notizia sulla fine del suo sfortunato virgulto.
Arriva infine a una tomba, sopra la quale le Nàiadi d’Occidente, ninfe fluviali che vegliano sulle acque del Po (con l'aiuto del soprintendente alla fauna ittica, Nàśalaria), avevano pietosamente riportato questa epigrafe:
“Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; Non seppe guidarlo e cadde, ma fu impresa grandiosa”
(In latino: “Hic situs est Phaëthon, currus auriga paterni, quem si non tenuit, magnis tamen excidit ausis”).
Clímene si mette a piangere con somma disperazione, inondando di lacrime la tomba dello sfortunato ragazzo.
La raggiungono nel frattempo le Elíadi, altre sue figlie, nate anch’esse dalla sua unione col Sole (Helios).
Anche loro si mettono a disperarsi e a versare maree di lacrime per il dolore di aver perso così tragicamente il fratello.
Faetusa, Lampezie (questi i loro nomi), e una terza Elíade non nominata da Ovidio, si struggono talmente tanto e a lungo per il dolore, che lentamente vedono i propri corpi tramutarsi in pioppi.
La mamma Clímene cerca disperatamente di estrarre i corpi dalle cortecce, mentre la trasformazione non è ancora completa, ma ottiene solo di spezzare fragili rametti, e “…da questi stillano gocce sanguigne, come da ferite…” (“…at inde sanguineae manant tamquam de vulnere guttae…).
L’ultima parte delle Elíadi a venir soffocata dalle cortecce fu la bocca, mentre le estreme invocazioni alla madre si spegnevano sotto lo spietato avanzare ligneo.
E quando la scorza severa si chiude definitivamente, le ultime parole delle povere giovani sfumano nel vento, mentre le loro lacrime si mutano in gocce d'ambra, che indurite dal sole si staccheranno da allora, cadendo nelle acque del Grande Fiume, dove verranno raccolte dalle donne latine, per adornarsene.
La prossima volta dunque che farete un giretto lungo il fiume, intravedendo un pioppeto e “intrasentendo” un sussurro ventilato fra le foglie, sappiate che quello non è un semplice rumore fra gli altri, starete invece ascoltando il secolare sospiro delle dolci Elíadi.