martedì 28 maggio 2019

Ma te?...Mah!...


Moltiplicare fra loro due numeri, in matematica, vuol dire sommare il primo tante volte, quante ce ne indica il secondo (o viceversa).

Ad esempio: 48 x 27 si può sostanzialmente trovare scrivendo una fila di 48 + 48 lunga ventisette volte.

Sembra un modo ben astruso di considerare la moltiplicazione, eppure è così che la intendevano certi popoli antichi, tra i quali, fra gli altri, anche i Romani.

Non possedevano infatti la nozione di scrittura delle cifre in base alla posizione, sviluppata invece, “a parte”, dalla matematica indiana e poi portata in occidente attraverso la mediazione degli arabi.

In numeri romani III vuol dire 3, dove ogni stanghetta verticale indica 1, con ciascun 1 in questa cifra che vale quanto gli altri.

Nel sistema che abbiamo imparato noi fin dalle elementari, invece, se scrivo 111, innanzitutto vuol dire centoundici, ma poi ogni 1 ha un valore diverso dall’altro. Il primo, da destra, vale 100; il secondo, 10; il terzo, 1.

Con la posizione, ogni numero cambia significato: questo consente già di dominare cifre molto più grandi, che non usando una scrittura e una concezione dei numeri indifferenti al posto occupato.

Questa idea, unita all’introduzione del concetto dello “zero” (anch'esso sconosciuto ai Romani), fornì alla mente umana un “panorama” dei numeri in cui calcolare, molto più potente di prima.

Data la conoscenza delle tabelline, moltiplicare due cifre, allora, se prima era una lenta aggiunta di “strati”, diventa come infilare quelle due cifre (anche grosse) in una centrifuga che gira molto veloce e le risputa unite nel risultato finale.

Dietro questa idea, non c'è solo una conquista matematica, ma anche un diverso modo di guardare al mondo, e a se stessi nel mondo: una trama filosofica di fondo più raffinata.

Quel “centrifugare” fra loro i numeri, probabilmente non sarebbe stato concepito dagli antichi indiani se non avessero sviluppato prima una forma di consapevolezza di se stessi, contenente già i tratti intesi ancora oggi.

Gli indiani, forse fra i primi nella storia, presero coscienza di un “io” e di un “sé”, che pur contenuti nella stessa persona, sono anche due entità distinte.

Ogni individuo è una persona unica, ma può e sa pensare a se stesso come “guardandosi dal di fuori”, come personaggio di uno scenario in cui egli si vede calato, protagonista di un racconto, nel quale può anticipare mosse, prevedere scenari, ipotizzare possibili sviluppi, e così via.

Questa capacità di riuscire a “raccontarsi a se stesso”, attore e spettatore insieme, non è sempre stata in possesso dell’uomo.

L’ha scoperta.

Così come ha scoperto la moltiplicazione.
La cosa bella che imparenta le due idee, emerge da una particolare eccezione contenuta nell’atto del moltiplicare.

Quando calcoliamo 1 x 1, mettiamo in relazione due unità, ma il risultato ottenuto è ancora una unità sola.

Così accade nella nostra coscienza, che sa sdoppiarsi in auto-osservazione di sé, pur dando sempre come risultato l'unicità dell'individuo che siamo.

1 x 1 = 1

È forse questa la scrittura più significativa per cogliere la dualità condensata in individuo, nella quale consistiamo.

[Lo spunto per questa “forse” macchinosa riflessione mi è venuto dalla lettura di un misteriosissimo, criptico, ma affascinantissimo libro: “L’ardore” (2010), di Roberto Calasso (Adelphi)].


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