domenica 31 agosto 2008

Pallone meccanico

Oggi, 31 agosto 2008, è ricominciato il campionato di calcio, ed io mi sento come la cavia di un progetto di studio a sfondo sociologico che va avanti da parecchi anni ormai, sulla traccia del seguente protocollo sperimentale: "Come trasformare nel tempo la passione viscerale di un ragazzino italiano medio, volgendola in plateale disprezzo che può sfiorare punte di odio." Ormai l'ho capito, ho raggiunto la consapevolezza: non me ne rendevo conto, ma da anni sono stato inserito in questo programma stile "Arancia meccanica", o forse era molto più modestamente solo una scommessa come quella fatta dai fratelli Duke in "Una poltrona per due". Qualche Mortimer delle sfere alte del calcio deve aver sfidato un qualche altro Rundolph del medesimo ambiente, che per la somma di un dollaro, sarebbe riuscito a prendere un ragazzino, capace nei primi anni Ottanta di assistere tremando d'emozione per 90 minuti ad una semifinale di Coppa Campioni fra Inter e Real (regolarmente persa dall'Inter, anche questo sarà stato previsto nel protocollo?), e farlo diventare un adulto (si fa per dire...) che ormai schiva come la peste ogni notizia di calcio in ogni sua forma, televisiva, giornalistica, e in formato di chiacchiera da bar.

In mezzo ai due estremi c'è stato:

1) la graduale e definitiva mutazione del campionato in un torneo fatto di 3 o 4 squadre ipermilionarie straniere da una parte, che gareggiano contro le italiane dall'altra, e regolarmente le stracciano. Per dire, prendiamo l'Inter, ad esempio...informatemi voi, che da un po' io non seguo: l'hanno poi autorizzata quest'anno a schierare in campo due giocatori italiani insieme?;

2) la costante presenza, tutta la settimana, tutti i giorni, a tutte le ore, su tutti gli schermi, di dibattiti litigati sullo sfondo del nulla, tenuti da fini intellettuali che son passati direttamente dall'uso dei piedi a quello della parola senza far troppo caso alla differenza che ci passa;

3) violenze periodiche espresse in ogni forma e grado, con allegato e programmato ufficiale periodo di sdegno, prontamente rincalzato da regolare periodo di ordinaria disamministrazione, sull'onda del sempre verde Decoubertiniano motto: "Francia o Spagna, purchè se magna!";

4) ogni sorta di Moggiopolata calciotruffevole che fantasia umana possa immaginare, condita dal sempre più profondo radicamento del senso genuino di questo sport nei sani valori della pecunia che, si sa, non olet, ma se sei in serie B profuma meno, e allora rifacciamoci il lifting all'anima e giù che si può tornare a macinar palanche a destra e a manca...

Eh...no...decisamente no...il calcio al 31 di agosto...non me lo dovevano fare...niente, ci si vede dai...ormai non vale neanche più la pena di indignarsi...per dimenticare, sarà meglio fare un salto al Korova Milkbar, per un goccio di Latte Più...

The dark side of the moon

(Foto di Gillipixel)


“…A lungo, durante la parte più lunga della nostra storia, il mito fu per gli uomini la fonte prima del sapere. Poi divenne una sequenza di storie insidiose e vane, significativa soltanto per capire come gli uomini erano vissuti nel passato. Altre erano diventate le fonti del sapere. Ciò che il mito prima raccontava, ora si dimostrava e si applicava. Ma qualcuno si accorse che una parte del sapere del mito era rimasta sigillata all’interno del nuovo sapere. Poco male, pensarono i più. Sapremo qualcosa in meno sul nostro passato. Ma che importa il passato, quando abbiamo di fronte l’immensità del presente? Alcuni però insistevano. Si erano accorti che quella parte inaccessibile del mito trattava delle sentenze finali del tribunale. E nessun altro testo ne trattava, perché quelle sentenze non vengono pubblicate. Nacque così in pochi la speranza che attraverso i miti si potesse venire a conoscere qualcosa che altrimenti non si sarebbe mai riusciti a scoprire. I più lo ritenevano una grave illusione, ma non potevano provare che lo fosse, perché gli mancavano recenti sentenze del tribunale che potessero contrapporre a quelle antiche. Infatti le sentenze tuttora non vengono pubblicate. Intanto il mondo continuava a essere avviluppato in processi e sentenze, mai definitive però. I processi erano tutti visibili, le sentine tutte provvisorie…“


“K.” - Roberto Calasso (2005)


Nessuna come quella attuale, fra le epoche che ci hanno preceduto nel corso della storia, è mai stata così sicura di sé riguardo alla limpidezza delle vicende che si svolgono alla luce del sole dell’eterno presente, entro il quale ci si vuole illudere di riuscire ad esaurire il senso completo del vivere. Ma forse oggi come mai prima, ci troviamo sprovveduti e disarmati di fronte alla sorpresa inevitabilmente e incessantemente riproposta dai raggi lunari che continuano ad illuminare con il loro mistero fioco gli sterminati territori dell’inspiegato. Galileo, padre fondatore del pensiero scientifico moderno, affermò per primo che le leggi del mondo sono scritte con linguaggio matematico. Ma a questo aggiungeva un’imprescindibile postilla: esiste una vasta porzione di realtà intorno alla quale la parola dei numeri non è in grado di pronunciarsi. Tale precisazione era fondamentale nell’economia del pensiero galileiano, altrettanto quanto la sua pars construens.

Un certo percorso negli sviluppi successivi del pensiero verso la modernità ha tuttavia finito per ignorare lentamente e sempre più ampliamente questo risvolto basilare del sapere scientifico delle origini, fino a che, con l’avvento dell’Illuminismo, si è giunti a dare la spallata definitiva per il suo accantonamento ufficiale. Il Mito tuttavia non ha mai smesso di sussistere e di ripresentarsi puntualmente dal profondo, per cercare di lenire le vastissime falle di angoscia e di dubbio che continuano a fare breccia contro la superficie in apparenza risolta dell’esistenza. Ed è nell’arte che il Mito continua a ritrovare ai nostri giorni la propria modalità privilegiata per continuare a parlarci.

Solo se la si mantiene calata nell’atmosfera mitologica che le è propria, dell’opera di Franz Kafka si possono afferrare le suggestioni e i significati più profondi, ed è ciò che fa Roberto Calasso nel suo bellissimo e complesso saggio tributato al grande scrittore boemo. Il lucido sguardo visionario di Kafka si fa esemplare nella principale delle sue opere, Il processo, dove si assimila l’esistenza ad un interminabile ed incommensurabile procedimento giudiziario dai risvolti infiniti. Tutto in Kafka è paradosso, tutto è sospensione del senso dell’esistere sulla soglia ultima dell’irresolubile. Nel processo, al lettore può capitare di venir sorpreso a più riprese da un senso di assurdità degli eventi narrati. Ma più che di assurdità, è corretto parlare di paradossalità, entro la quale le contraddizioni del vivere vengono lasciate sussistere nella loro effettiva inconciliabilità, riuscendo non di meno a gettarvi sopra pochi, sporadici bagliori lunari, insufficienti ma indispensabili per continuare ad esplorare i territori lasciati incustoditi dall’accecante solarità propria del sapere scientifico.

Insieme a Carl Gustav Jung, possiamo così porre in rilievo il tratto essenziale comune ad arte e mito: “Il paradosso meglio si adatta all'inconoscibile di quanto si adatti la chiarezza che strappa il mistero dalla sua oscurità, presentandolo come qualcosa di conosciuto. Questa usurpazione fuorvia l'umano intelletto nella hybris, facendogli credere di aver raggiunto mediante un atto conoscitivo il possesso del mistero trascendente, di averlo atterrato. Perciò il paradosso riflette un gradino più alto dell'intelletto e, non forzando l'inconoscibile ad apparire come conoscibile, riproduce più fedelmente lo stato effettivo delle cose."

sabato 30 agosto 2008

Break on through...

(Foto di Gillipixel)

“…Allacciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola auto-trascendenza; invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di universi-isole…“


Aldous Huxley - “Le porte della percezione” (1954)

Filosofia e saggezza narrativa si nutrono spesso a vicenda, e laddove la prima giunge ad abbracciare vastissimi orizzonti concettuali coinvolgenti il senso del mondo e del vivere, trattandone tuttavia inevitabilmente nell’ambito della propria rigorosa complessità disciplinare, spesso le incursioni della seconda nei medesimi contesti di pensiero sono in grado di farci accedere con più levità ed immediata presa conoscitiva ai territori occupati dai medesimi spazi sapienziali.

Le vicissitudini della nostra tradizione culturale hanno ricevuto uno scossone decisivo dal momento in cui Cartesio diede inizio ad una delle più potenti “rivoluzioni copernicane” che mai abbiano interessato il corso del pensiero umano: la devastante forza del dubbio radicale contenuta nel suo celeberrimo “cogito”. A partire dalla nascita della filosofia, in Grecia, sino ai pensatori immediatamente precedenti Cartesio, non era mai stata sostanzialmente messa in dubbio la consequenzialità tra mondo esterno al pensiero e mondo pensato. Il mondo esisteva esternamente seguendo una propria autonomia, indipendente dalla coscienza dell’uomo, la quale non faceva altro che prenderne atto, “registrare”, tutt’al più interpretare, nella certezza però del sussistere di un dato esteriore autosufficiente, compiuto ed indagabile. Con Cartesio la prospettiva si ribalta: la fonte originaria, il soggetto scaturente, diventa ora il pensiero stesso. Forzando gli strumenti filosofici fino a toccare le estreme conseguenze della “verificabilità”, egli afferma che l’unica verità incontrovertibile rimane il pensare considerato di per sè, denudato, svuotato di verità in ogni suo contenuto, tranne che nella consapevolezza del proprio “stare pensando”.

Da quel passaggio, si può convenire che abbiano preso le mosse i primi movimenti effettivi del pensiero moderno: lo sguardo dell’uomo si è definitivamente rivolto verso la propria interiorità e, con un paradosso solo apparente, si è in questo modo vorticosamente intensificata la consapevolezza di essere in grado di intervenire con amplissima potenza sul mondo in quanto “frutto indistinto” dalle rappresentazioni del pensiero. Ma allo stesso tempo, applicando alla propria condizione esistenziale la considerazione più radicale mai concepita, l’uomo “sa per la prima volta” di essere in ultimissima analisi “solo dentro di sé”.

Parte di questi concetti vertiginosi, e molte alte considerazioni, vengono sfiorati da Aldous Huxley con la sua efficacissima immagine. Egli ricorre al momento di vicinanza forse più intenso che possa intercorrere tra due esseri umani, la forma di comunicazione più densa ed “ulteriore”: l’amplesso amoroso, inteso nella più alta delle sua accezioni, come sovrapposizione reciproca di tratti di anima attraverso i sensi. Huxley ci ricorda che, paradossalmente, nonostante secoli di poesia e di fascinazione artistica tese ad esaltare la potenza di questo tema, nemmeno in tali frangenti lo “scambio di significati” riesce ad essere totale e definito. La barriera innalzata dal “cogito” cartesiano non crolla neanche di fronte a tale supremo momento di fusione emotiva ed esistenziale.

E se la saggezza degli antichi, pur nella provvisorietà di un proverbio, ha da sempre considerato come,“post coitum”, si ritrovi ad essere “omne animal triste”, magari il motivo sta proprio nel fatto che è attraverso quell’atto, come in nessun altro, che l’altezza dello scambio di senso, l’illusione di essere usciti dalla gabbia del “cogito”, raggiunge quote talmente elevate da far risultare la successiva ricaduta dolorosa, svuotante, nello smarrimento del trovarsi di nuovo nella propria singolare introversione, e di averne sfiorato solo per pochi attimi i limiti più lontani. Citando i tormenti espressivi di generazioni e generazioni di artisti, forse Huxley non avrebbe saputo parlarci più chiaro di quanto non faccia con questa metafora, che condensa nello spasmo e nelle convulsioni emotive dell’amplesso, il tentativo umano più potente di valicare i confini della propria “reclusione in se stessi”.

venerdì 29 agosto 2008

Nelle province dell'anima

(Foto di Gillipixel)

“…La provincia è la grande riserva intellettuale, artistica, spirituale del Paese. Questa sua meravigliosa sonnolenza, questo suo divino torpore, non servono a conciliare il sonno, ma a pensare. Ed è dal cervello, dalle idee, che nascono le uniche cose buone della vita…“

Giovannino Guareschi (1930 ca.) - Citazione da “Chi sogna nuovi gerani?”

Succede talvolta di leggere una frase, una considerazione, le riflessioni di un grande autore, e di trovarvi dentro richiamati concetti e pensieri incontrati altrove, espressi da chi in altri ambiti del sapere si è interessato di esplorare la natura dell’esistere e del confronto dell’uomo con il mondo. Da qui uno degli aspetti più affascinanti connessi alla lettura e ai libri: questo loro consistere in un territorio trasversale, fatto di idee e dei loro echi, di rimandi e di improvvisi riferimenti, e così via senza limite, in una ragnatela conoscitiva rinnovata in continuazione nei suoi mille e uno punti di contatto disseminati lungo la propria trama.

E non sempre si tratta di idee sovrapponibili alla perfezione, ma talvolta sono pensieri “imparentati” che si contaminano e si arricchiscono nell’accostamento e nel vicendevole scambio di suggestione concettuale che ne può derivare. Giovannino Guareschi con ogni probabilità non avrà conosciuto l’opera del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel (Berlino, 1858 – Strasburgo, 1918), mentre è impossibile che quest’ultimo, per ragioni anagrafiche, si sia potuto dilettare con la lettura dei racconti o degli articoli del cantore del Mondo piccolo. Ma il magico universo delle parole scritte è capace di fare incontrare anche due personalità così distanti, nell’eredità culturale e nell’interpretazione della vita che con il loro lavoro ci hanno lasciato.

Un saggio di Simmel del 1903, intitolato “La metropoli e la vita spirituale”, è incentrato sull’analisi delle caratteristiche che distinguono quelli che lui definisce come “tipo metropolitano” e “tipo di provincia”. L’uomo è un essere differenziale, afferma Simmel. In altre parole, secondo il filosofo, il dato esistenziale più immediato e pregnante nel determinare comportamento e modalità di vita delle persone, deriva dal continuo confronto fra stimoli diversi che le coinvolgono durante la loro esperienza quotidiana. L’assorbimento e la rielaborazione degli impulsi derivanti da tale stimolazione necessita l’utilizzo più o meno intensivo di dosi di energia psichica. Per energia psichica Simmel intende la somma dei vari “quanti” di coscienza che ciascuno è in grado di dedicare ad ogni stimolo che investe la sua sfera percettiva e la sua consapevolezza.

L’energia psichica, le “quote” di coscienza disponibili, sono tuttavia limitate per ciascun individuo. E per di più tale limite si presenta sia in termini di estensione in superficie, sia in termini di profondità. I limiti in estensione dell’energia psichica hanno a che fare con la quantità delle esperienze sopportabili, mentre i limiti in profondità appartengono più alla dimensione qualitativa degli stimoli esistenziali recepiti. Una stimolazione della coscienza da parte di fonti di tipo prevalentemente sensoriale (ad esempio: la congestione del traffico, i rumori della città, una chiacchiera fatta di sfuggita con un semi-sconosciuto a proposito del tempo o del prezzo del petrolio, o ancora il moderno bombardamento di immagini e di suoni, l’ansia determinata dal continuo stillicidio di orari ed appuntamenti da rispettare, ecc.) coinvolge maggiormente le riserve superficiali dell’energia psichica. D’altro canto invece, un confronto in termini più “affettivi” con taluni stimoli provenienti dall’esterno (ad esempio: parlare con una persona sforzandosi di ascoltare e capire i suoi problemi, fermarsi ad osservare con attenzione l’ambiente circostante e il comportamento altrui, vagliare la prospettiva di scelte e decisioni difficili da prendere, ecc.), implica il ricorso molto più intenso agli strati più profondi della coscienza.

Secondo Simmel dunque, in questa ottica, la sovrabbondanza di stimolazioni a cui vengono sottoposti gli abitanti della grande città determina appunto la formazione dello stile di vita di un tipo umano peculiare, che egli definisce “tipo metropolitano”, ben distinto sotto questo aspetto esistenziale dal “tipo di provincia”, che trascorre invece parte significativa del suo tempo in ambienti più tranquilli e monotoni. E dal momento che il ricorso alle energie psichiche più profonde implica l’utilizzo di una maggior quantità di riserve di coscienza, per non rischiare di “esaurire” queste ultime, il “tipo metropolitano” sarà tendenzialmente obbligato dalle circostanza ambientali a mantenere in superficie il livello dei propri rapporti col mondo: per difendersi dalla pletora di stimoli, potrà concedere ad essi di volta in volta solo pochi “quanti” di limitata qualità psichica.

Diverso carattere, sempre tendenzialmente parlando, avrà invece l’approccio con la realtà che potrà concedersi di tenere il “tipo di provincia”: la sequenza di eventi e sollecitazioni a cui viene giornalmente sottoposto è meno intensa e frequente, ed egli si potrà permettere di affrontarli con maggiore profondità, riservando a ciascuno dosi qualitative di coscienza più vaste, elaborando maggiormente la riflessione, l’introspezione e favorendo l’accumulo interiore di un’esperienza che si deposita negli strati della conoscenza più prossimi alla sfera di influenza dell’anima.

giovedì 28 agosto 2008

Facciamo finta che...

(Foto di Gillipixel)

“…I film mi piacevano come possono piacere a chiunque […] Per quanto le immagini potessero sembrarmi belle o ammalianti, non mi appagavano mai con la stessa potenza delle parole. Avevo l’impressione che troppo fosse dato, che non si lasciasse abbastanza all’immaginazione di chi guarda, e poi c’era il paradosso che più i film si approssimavano a simulare la realtà, e meno gli riusciva di rappresentare il mondo – che sta dentro di noi non meno che attorno a noi. Perciò istintivamente avevo sempre preferito i film in bianco e nero a quelli a colori, e il muto al sonoro. Il cinema è un linguaggio visivo, un modo per raccontare storie proiettando immagini su uno schermo bidimensionale. L’aggiunta del suono e del colore aveva sì creato l’illusione di una terza dimensione, ma defraudando le immagini della loro purezza. Il compito non era più tutto sulle loro spalle, e alla fin fine suono e colore, invece di trasformare il cinema nel perfetto medium ibrido – nel migliore dei mondi possibili -, aveva infiacchito quel linguaggio che avrebbe dovuto galvanizzare…“

“Il libro delle illusioni” - Paul Auster (2002)

Nessuna fra le convinzioni riguardanti l’arte che vengono comunemente accettate a livello di un pubblico non esperto, è forse più ingannevole dell’idea secondo la quale l’espressione artistica andrebbe intesa come rappresentazione, riproduzione della realtà. L’arte, in qualsiasi delle forme attraverso le quali essa possa venir concretizzata (musica, pittura, scultura, poesia, cinema, nel caso in questione, ecc.), rimane sempre e comunque un linguaggio, un insieme di segni investito di una volontà di significazione. E in particolare, si tratta di un linguaggio in larga parte non codificato, anzi, un linguaggio che ritrova continuamente il suo senso più genuino proprio nella capacità di sapersi originalmente rinnovare ogni qual volta si dimostri in grado di infrangere la codificazione fino al momento raggiunta.

L’arte dunque comporta sì un intervento di elaborazione del mondo che sta attorno a noi, ma operato a partire (e non potrebbe essere altrimenti) dal mondo che sta dentro di noi. Eppure la verosimiglianza continua ad essere pervicacemente ritenuta il metro di giudizio a cui lo spettatore comune ha il diritto di aggrapparsi nel momento in cui si trova a confrontarsi con un’opera d’arte. Ma se si considerano solamente alcuni fatti banali, ci si rende conto che non può esistere pretesa più improponibile. La battaglia intrapresa ai fini di ottenere una copia del reale, per forza di cose, risulta non solo persa in partenza, ma anche del tutto insensata.

Battaglia persa in partenza, perché l’obiettivo da raggiungere è infinito, e infinitamente vasto è il compito di riuscire a racchiuderlo attraverso un medium adeguato: un quadro impressionista rimane pur sempre un pezzo di tela cosparso di macchie di colori bidimensionali; e il più “realistico” dei film non è altro che una serie di lampi di luce riflessi da uno schermo; e così via esemplificando. Non di meno rimane vero che nell’opera d’arte il dato infinito iniziale viene paradossalmente colto tramite pochi elementi espressivi finiti, grazie all’immensa saggezza sintetica dell’artista.

Battaglia insensata perché, anche ponendo per assurdo l’ipotesi che un giorno si possa escogitare un medium fisico in grado di riprodurre alla perfezione la copia esatta di una porzione del reale, l’operazione avrebbe un valore molto simile al gesto di uno studente che, affrontando un problema di geometria, finisse per riconsegnare il foglio al professore senza aver tentato di cercare la soluzione, bensì dopo aver semplicemente ricopiato pari pari, sotto a quello originale, il testo dell’enunciato del quesito.

I mediatori utilizzati non possono essere che reali, concreti e circoscritti (le pennellate, i fotogrammi, le parole, il marmo, ecc.), ma il risultato non vuole essere una copia del vero, bensì una sua interpretazione: l’intento dell’artista è allargare la conoscenza sul mondo, esplicando, attraverso forme inedite che nessuno prima di lui era mia riuscito ad esprimere in quei termini, i nuovi aspetti della vita messi in risalto con la propria ricerca creativa. Un quadro cubista, con il suo tentativo di racchiudere in senso sintetico spazio-temporale la frazione di mondo presa in considerazione, è astrazione. Ma, seppur in misura e con propositi di significazione differenti, sono astrazione anche le statue di Fidia e di Policleto, nel loro intento di avvicinarsi alla suprema idealizzazione della figura umana.

La prossima volta dunque che vi ritroverete a passare in rassegna le opere di un museo, e magari davanti ad una statua greca del periodo classico vi capiterà di sentire un altro visitatore esprimere la propria meraviglia esclamando: - Che bella! Sembra vera! -, potrete sentirvi autorizzati a considerare senza scrupolo di coscienza alcuno che il povero sprovveduto alla fin fine non avrà fatto altro che sprecare i soldi del biglietto.

mercoledì 27 agosto 2008

Anche le cowgirls profumano di blues

“…Il grande boato del 1906, che distrusse praticamente l’intera San Francisco, gli indiani lo presero come un segno. […] Entro un contesto naturale il fenomeno non sarebbe mai apparso un olocausto. Lontano dai centri di intruppamento cui diamo il valore di città […] movimenti protoplastici del globo […] a profondità diverse e a svariate intensità, si verificano di continuo e quindi non nel tempo, ma per tutto il tempo. Per tutto il tempo è come dire fuori del tempo, perché la nozione di tempo è inseparabilmente saldata a quella di progressione, ma ciò che è già dappertutto non può evidentemente progredire. Da lì, il balzo al limitare del sogno è breve: l’eternità della gioia, intesa come un continuo presente, compresa la danza dell’invecchiamento che noi scambiamo per un dispiegarsi cronologico invece che per una posizione fissa di consapevolezza cellulare sempre più profonda, è colta nel suo insieme e sempre. Quando i cittadini di San Francisco cominciarono immediatamente a ricostruire, gli indiani rimasero comprensibilmente delusi. […] ci sono innumerevoli modi per vivere su questa tremolante sfera in allegria e in buona salute, e probabilmente uno solo – quello industrializzato, urbanizzato, che tende a intruppare – di viverci stupidamente e l’uomo è andato a scegliere proprio quello. La gente di San Francisco non aveva saputo leggere il segno. Si era arresa, optando per rimanere nel tempo e quindi fuori dell’eternità…"

“Even cowgirls get the blues” - Tom Robbins (1976)

L’idea di tempo inteso in senso progressivo, lineare, unidirezionale ed evolutivo, affonda le proprie radici nella vasta tradizione concettuale che fa da substrato alla nostra chiave interpretativa del mondo, il pensiero filosofico greco, il quale tuttavia sin dal suo principio era già portatore del germe stesso della propria contraddizione. Da una parte, il grande tracciato speculativo aristotelico, risultato vincente attraverso i secoli fino a noi. Ma dall’altra, originata dallo stesso ceppo ontologico, la posizione minoritaria di Parmenide (che bollava come concettualmente assurda la pretesa di un passaggio di stato dal nulla all’essere, e viceversa, a sottendere l’idea stessa del divenire), oggi ripresa da uno dei maggiori filosofi viventi, Emanuele Severino, come punto fondante del proprio originale sistema di pensiero.

E forse non è un caso che proprio oggi la paradossalità della sfida fra Achille e la tartaruga diventi sintomatica come non mai di un’epoca che si affanna a stipare il tempo di sempre maggiori intensità, e ad amplificare l’istante mediante una condensazione quasi patologica degli eventi.

L’ironia è uno degli strumenti di analisi privilegiati dalla forza indagatrice del romanzo. E la dote di saper condurre i concetti sul limite di attriti logici capaci di insinuare il dubbio, laddove gli spazi interstiziali della vita danno adito a spiragli di contraddizione, è fra le prerogative principali del grande narratore. Il dato romanzesco coltiva questa sua peculiare eterodossia senza pretesa alcuna di includere termini di verificabilità, ma non di meno è in grado di far luce su brani di verità esistenziale innegabili. Robbins insinua in noi il sospetto che mai in nessuna epoca storica quanto in quella moderna, dominio del modello di società cosiddetto occidentale, si sia espressa tanta e tale contraddittorietà ammantata da un apparente velo di rassicurante razionalità. Al sapere del romanzo non possiamo chiedere il rigore della coerenza, ma non per questo possiamo sostenere che le sue affermazioni non giungano a sfiorare importanti verità sul senso del vivere.

Da Parmenide a Severino, passando per Tom Robbins: le palesi contraddizioni del nostro mondo improntato alla religione del divenire possono essere afferrate grazie all’ausilio di fonti conoscitive diverse. Ma se con Parmenide e Severino non è possibile sfuggire alle rigorose leggi dell’indagine filosofica, con Tom Robbins è proprio l’infrazione delle regole che ci fornisce un’arma gnoseologica in più. L’assurdo è maggiormente avvicinabile dalle categorie dell’ironia. E allora possiamo vedere un mondo votato alla perpetuazione di se stesso attraverso meccanismi che finiscono col servire più la propria logica interna che non il bene dell’uomo. Nel segno di una produzione economica che deve aumentare sempre in progressione, per foraggiare la propria stessa logica, al di là dei benefici effettivi che sa arrecare alle vite di tutte le persone, fino ad essere giunta a dar vita all’estremo non senso che ci impone, nei frangenti recessivi, il dovere di consumare per poter produrre di più. Oppure, ancor più a ruota libera (ma si potrebbe proseguire l’elenco ad libitum), un mondo che, dimostrando una cecità molto simile a quella degli abitanti di San Francisco nel 1906, esalta il mito della velocità e manda al massacro i propri giovani su auto e motociclette che possono sfiorare i trecento km. orari, con la raccomandazione però, per l’amor del cielo, di essere prudenti!

martedì 26 agosto 2008

Castelli di libri

“…Sui treni, per salvarsi, leggevano. Linimento perfetto. La fissa esattezza della scrittura come sutura di un terrore. L’occhio che trova nei minuscoli tornanti dettati dalle righe la nitida scorciatoia per sfuggire all’indistinto flusso delle immagini imposto dal finestrino. […] L’eternamente cangiante multiformità del mondo intorno e l’impietrito microcosmo di un occhio che legge. Come un nocciolo di silenzio nel cuore di un boato. […] forse, sempre, e per tutti, altro non è mai, lèggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall’incontrollabile strisciare via del mondo. Non si leggerebbe nulla se non fosse per paura […] Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vile…“

“Castelli di rabbia” - Alessandro Baricco (1991)

Riflessioni prese a prestito dall’esperienza di ottocenteschi proto-viaggiatori in treno: leggere viaggiando sui primi convogli a vapore: una metafora che si immerge dentro ad un’altra metafora: un viaggio contenuto in un altro viaggio: il rifugio nel rassicurante focolare domestico dei propri pensieri, protesi verso la cantilenante dimensione dettata dall’andirivieni del nero su bianco, laddove possiamo ascoltare ciò che vogliamo sentirci raccontare da qualcuno che ci sussurra una ninna nanna dell’anima servendosi della nostra stessa voce interiore, mettendo temporaneamente in sospeso le insicurezze e le durezze del mondo concreto che scorre incontrollabile appena fuori dalla lieve membrana del finestrino. Immagine nell’immagine, che simbolicamente introduce alla continua volontà dell’uomo di fissare l’incessante mutevolezza del divenire esistenziale, in un senso che rassicuri e protegga dagli angosciosi indizi disseminati nel mondo dalla potenziale caducità del tutto. Leggere mentre si viaggia, viaggiare mentre si legge. Considerate da entrambi i punti di vista che la situazione può offrire, sentiamo che si tratta di due azioni che si rispecchiano, facendosi eco l’un l’altra: si perdono i confini che stabiliscono le caratteristiche dell’uno e dell’altro gesto, mentre il percorso fisico percepito scorrere all’esterno, si intreccia, si contamina, si confonde, si arricchisce con il fluire dei pensieri che nascono dalle parole scritte. Ne scaturisce una sorta di addentrarsi all’interno di un’introduzione già in atto: le meditazioni del lettore vengono accolte dentro ad una predisposizione alla riflessione, già innescata dall’accogliente linearità del movimento dei vagoni. In larga parte, nelle due circostanze, si tratta di azioni che si accetta di subire di buon grado: sul percorso del treno si può influire solamente nel momento della scelta iniziale, così come accade con la decisione presa su quale libro leggere. Arreca sollievo e consolazione infatti la consapevolezza di quanto i due effettivi tragitti si snodino in seguito senza la necessità di un contributo decisivo da parte della nostra volontà: per fortuna, ci penseranno i binari e le parole che il narratore ha scritto per noi, a cullarci nel duplice viaggio che consente per qualche momento di lasciare in sospeso le responsabilità del vivere e il peso di scegliere in che senso azionare gli “scambi” che determineranno le direzioni della nostra esistenza.

giovedì 14 agosto 2008

Quando il giornale si piegava per il lungo

Tipico dell’uomo, che è un «animale immaginante» (oltre che un «animale politico», «zòon politikòn», e a volte solo un animale), è associare certi dettagli a corrispettivi periodi della vita. Anche se quasi sempre non c’è nessun nesso apparente fra le due cose messe insieme, non di meno questi abbinamenti pian piano assumono un senso comune nel nostro ordine di idee, e alla fine ci si crede davvero.

Così stamattina, mentre camminavo per strada col giornale in mano e cercavo di ripiegarlo nel modo migliore perché mi desse meno impaccio, mi son venuti in mente i tempi in cui il quotidiano si poteva piegare per il suo lato lungo. Da quando quasi tutti i giornali hanno infatti adottato il formato ridotto, tabloid mi pare che si dica, si possono al più avvoltolare nel senso del titolo. La buona e vecchia ripiegatura in quattro non c’è più modo di farla, se non a costo di maltrattare in modo indegno il malloppo di fogli. Una volta fatta la piega a metà, parallela al titolo, qui si forma infatti una sorta di costola più coriacea di quelle di Moby Dick, e non c’è modo di aver ragione della sua rigidità, perlomeno se si vogliono ottenere esiti ordinati.

Quando viaggiavo in treno con una certa frequenza, avevo imparato che se non hai a disposizione un tavolo per appoggiare il giornale, ci vuole una certa arte nella sfogliatura, altrimenti ti ritrovi in mano un coacervo di pagine che ti fa passare anche la voglia di leggere gli articoli. Ripiegare bene la prima pagina su se stessa, dando alla “costina” così creata un certo filo ficcante, è fondamentale. Se fai bene questa prima piega, poi tutte le altre voltate di pagina le vanno dietro abbastanza fedelmente. Questa perizia acquisita è poi molto utile, anzi direi fondamentale, se si legge il giornale in poltrona oppure, per i pigri più raffinati ed esigenti, se si “panciolla” in lettura placidamente coricati sul divano o addirittura a letto.

In generale, mi sembra che invece questi giornaletti “tabloidati” di oggi siano comunque refrattari alla piega verticale e quindi più scomodi. La riduzione delle dimensioni, una scelta a favore del minore ingombro e quindi apparentemente di una maneggevolezza maggiore, ha in realtà creato un oggetto più scomodo.

Questa cosa, per riprendere l’assunto iniziale riguardante l’immaginifico ed illogico potere associativo umano, un po’ mi infastidisce. Il buon giornalone ripiegabile in quattro mi sembrava infatti più mansueto, sintomo di un periodo in cui la frenesia efficentistica diffusa nella nostra società, pur avendo certamente già raggiunto livelli notevoli, tuttavia conservava ancora spiragli di cedevolezza nei quali si potevano insinuare i ritmi umani familiarmente più pacati e distesi. Invece questo “tabloidetto” spocchioso di adesso, mentre si ribella alla sua piegatura più fisiologica, sembra quasi gracchiare petulante fra i “cric e crac” delle sue male grinze: «No, no, no…non mi puoi leggere a letto!».

Con ogni probabilità, la riduzione delle dimensioni dev’esser in effetti stata dettata in prima battuta da ragioni economiche, per risparmiare carta, per rendere meno costosa la distribuzione, più agevole la fase di stampa, e per chissà quali altri motivi che non so. Solo dopo si accampa la motivazione della maneggevolezza, ma l’obiettivo raggiunto in questo senso, sempre che la mia analisi sia corretta, sembra proprio l’opposto.

Tra il placido “giornalone” di qualche tempo fa ed il nervosetto “tabloid” di oggi c’è insomma la stessa differenza che passa tra una florida ragazzona vista per strada, sulle cui curve e morbidezze rotonde il tuo sguardo non ha potuto fare a meno di incollarsi rapito, ed una spigolosa top-model o l’attricetta di turno, che “ti devono” piacere perché “lo ha detto” qualche guru della moda o peggio un mago del marketing.