mercoledì 27 agosto 2008

Anche le cowgirls profumano di blues

“…Il grande boato del 1906, che distrusse praticamente l’intera San Francisco, gli indiani lo presero come un segno. […] Entro un contesto naturale il fenomeno non sarebbe mai apparso un olocausto. Lontano dai centri di intruppamento cui diamo il valore di città […] movimenti protoplastici del globo […] a profondità diverse e a svariate intensità, si verificano di continuo e quindi non nel tempo, ma per tutto il tempo. Per tutto il tempo è come dire fuori del tempo, perché la nozione di tempo è inseparabilmente saldata a quella di progressione, ma ciò che è già dappertutto non può evidentemente progredire. Da lì, il balzo al limitare del sogno è breve: l’eternità della gioia, intesa come un continuo presente, compresa la danza dell’invecchiamento che noi scambiamo per un dispiegarsi cronologico invece che per una posizione fissa di consapevolezza cellulare sempre più profonda, è colta nel suo insieme e sempre. Quando i cittadini di San Francisco cominciarono immediatamente a ricostruire, gli indiani rimasero comprensibilmente delusi. […] ci sono innumerevoli modi per vivere su questa tremolante sfera in allegria e in buona salute, e probabilmente uno solo – quello industrializzato, urbanizzato, che tende a intruppare – di viverci stupidamente e l’uomo è andato a scegliere proprio quello. La gente di San Francisco non aveva saputo leggere il segno. Si era arresa, optando per rimanere nel tempo e quindi fuori dell’eternità…"

“Even cowgirls get the blues” - Tom Robbins (1976)

L’idea di tempo inteso in senso progressivo, lineare, unidirezionale ed evolutivo, affonda le proprie radici nella vasta tradizione concettuale che fa da substrato alla nostra chiave interpretativa del mondo, il pensiero filosofico greco, il quale tuttavia sin dal suo principio era già portatore del germe stesso della propria contraddizione. Da una parte, il grande tracciato speculativo aristotelico, risultato vincente attraverso i secoli fino a noi. Ma dall’altra, originata dallo stesso ceppo ontologico, la posizione minoritaria di Parmenide (che bollava come concettualmente assurda la pretesa di un passaggio di stato dal nulla all’essere, e viceversa, a sottendere l’idea stessa del divenire), oggi ripresa da uno dei maggiori filosofi viventi, Emanuele Severino, come punto fondante del proprio originale sistema di pensiero.

E forse non è un caso che proprio oggi la paradossalità della sfida fra Achille e la tartaruga diventi sintomatica come non mai di un’epoca che si affanna a stipare il tempo di sempre maggiori intensità, e ad amplificare l’istante mediante una condensazione quasi patologica degli eventi.

L’ironia è uno degli strumenti di analisi privilegiati dalla forza indagatrice del romanzo. E la dote di saper condurre i concetti sul limite di attriti logici capaci di insinuare il dubbio, laddove gli spazi interstiziali della vita danno adito a spiragli di contraddizione, è fra le prerogative principali del grande narratore. Il dato romanzesco coltiva questa sua peculiare eterodossia senza pretesa alcuna di includere termini di verificabilità, ma non di meno è in grado di far luce su brani di verità esistenziale innegabili. Robbins insinua in noi il sospetto che mai in nessuna epoca storica quanto in quella moderna, dominio del modello di società cosiddetto occidentale, si sia espressa tanta e tale contraddittorietà ammantata da un apparente velo di rassicurante razionalità. Al sapere del romanzo non possiamo chiedere il rigore della coerenza, ma non per questo possiamo sostenere che le sue affermazioni non giungano a sfiorare importanti verità sul senso del vivere.

Da Parmenide a Severino, passando per Tom Robbins: le palesi contraddizioni del nostro mondo improntato alla religione del divenire possono essere afferrate grazie all’ausilio di fonti conoscitive diverse. Ma se con Parmenide e Severino non è possibile sfuggire alle rigorose leggi dell’indagine filosofica, con Tom Robbins è proprio l’infrazione delle regole che ci fornisce un’arma gnoseologica in più. L’assurdo è maggiormente avvicinabile dalle categorie dell’ironia. E allora possiamo vedere un mondo votato alla perpetuazione di se stesso attraverso meccanismi che finiscono col servire più la propria logica interna che non il bene dell’uomo. Nel segno di una produzione economica che deve aumentare sempre in progressione, per foraggiare la propria stessa logica, al di là dei benefici effettivi che sa arrecare alle vite di tutte le persone, fino ad essere giunta a dar vita all’estremo non senso che ci impone, nei frangenti recessivi, il dovere di consumare per poter produrre di più. Oppure, ancor più a ruota libera (ma si potrebbe proseguire l’elenco ad libitum), un mondo che, dimostrando una cecità molto simile a quella degli abitanti di San Francisco nel 1906, esalta il mito della velocità e manda al massacro i propri giovani su auto e motociclette che possono sfiorare i trecento km. orari, con la raccomandazione però, per l’amor del cielo, di essere prudenti!

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