sabato 30 agosto 2008

Break on through...

(Foto di Gillipixel)

“…Allacciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola auto-trascendenza; invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di universi-isole…“


Aldous Huxley - “Le porte della percezione” (1954)

Filosofia e saggezza narrativa si nutrono spesso a vicenda, e laddove la prima giunge ad abbracciare vastissimi orizzonti concettuali coinvolgenti il senso del mondo e del vivere, trattandone tuttavia inevitabilmente nell’ambito della propria rigorosa complessità disciplinare, spesso le incursioni della seconda nei medesimi contesti di pensiero sono in grado di farci accedere con più levità ed immediata presa conoscitiva ai territori occupati dai medesimi spazi sapienziali.

Le vicissitudini della nostra tradizione culturale hanno ricevuto uno scossone decisivo dal momento in cui Cartesio diede inizio ad una delle più potenti “rivoluzioni copernicane” che mai abbiano interessato il corso del pensiero umano: la devastante forza del dubbio radicale contenuta nel suo celeberrimo “cogito”. A partire dalla nascita della filosofia, in Grecia, sino ai pensatori immediatamente precedenti Cartesio, non era mai stata sostanzialmente messa in dubbio la consequenzialità tra mondo esterno al pensiero e mondo pensato. Il mondo esisteva esternamente seguendo una propria autonomia, indipendente dalla coscienza dell’uomo, la quale non faceva altro che prenderne atto, “registrare”, tutt’al più interpretare, nella certezza però del sussistere di un dato esteriore autosufficiente, compiuto ed indagabile. Con Cartesio la prospettiva si ribalta: la fonte originaria, il soggetto scaturente, diventa ora il pensiero stesso. Forzando gli strumenti filosofici fino a toccare le estreme conseguenze della “verificabilità”, egli afferma che l’unica verità incontrovertibile rimane il pensare considerato di per sè, denudato, svuotato di verità in ogni suo contenuto, tranne che nella consapevolezza del proprio “stare pensando”.

Da quel passaggio, si può convenire che abbiano preso le mosse i primi movimenti effettivi del pensiero moderno: lo sguardo dell’uomo si è definitivamente rivolto verso la propria interiorità e, con un paradosso solo apparente, si è in questo modo vorticosamente intensificata la consapevolezza di essere in grado di intervenire con amplissima potenza sul mondo in quanto “frutto indistinto” dalle rappresentazioni del pensiero. Ma allo stesso tempo, applicando alla propria condizione esistenziale la considerazione più radicale mai concepita, l’uomo “sa per la prima volta” di essere in ultimissima analisi “solo dentro di sé”.

Parte di questi concetti vertiginosi, e molte alte considerazioni, vengono sfiorati da Aldous Huxley con la sua efficacissima immagine. Egli ricorre al momento di vicinanza forse più intenso che possa intercorrere tra due esseri umani, la forma di comunicazione più densa ed “ulteriore”: l’amplesso amoroso, inteso nella più alta delle sua accezioni, come sovrapposizione reciproca di tratti di anima attraverso i sensi. Huxley ci ricorda che, paradossalmente, nonostante secoli di poesia e di fascinazione artistica tese ad esaltare la potenza di questo tema, nemmeno in tali frangenti lo “scambio di significati” riesce ad essere totale e definito. La barriera innalzata dal “cogito” cartesiano non crolla neanche di fronte a tale supremo momento di fusione emotiva ed esistenziale.

E se la saggezza degli antichi, pur nella provvisorietà di un proverbio, ha da sempre considerato come,“post coitum”, si ritrovi ad essere “omne animal triste”, magari il motivo sta proprio nel fatto che è attraverso quell’atto, come in nessun altro, che l’altezza dello scambio di senso, l’illusione di essere usciti dalla gabbia del “cogito”, raggiunge quote talmente elevate da far risultare la successiva ricaduta dolorosa, svuotante, nello smarrimento del trovarsi di nuovo nella propria singolare introversione, e di averne sfiorato solo per pochi attimi i limiti più lontani. Citando i tormenti espressivi di generazioni e generazioni di artisti, forse Huxley non avrebbe saputo parlarci più chiaro di quanto non faccia con questa metafora, che condensa nello spasmo e nelle convulsioni emotive dell’amplesso, il tentativo umano più potente di valicare i confini della propria “reclusione in se stessi”.

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