(Foto di Gillipixel)
“…A lungo, durante la parte più lunga della nostra storia, il mito fu per gli uomini la fonte prima del sapere. Poi divenne una sequenza di storie insidiose e vane, significativa soltanto per capire come gli uomini erano vissuti nel passato. Altre erano diventate le fonti del sapere. Ciò che il mito prima raccontava, ora si dimostrava e si applicava. Ma qualcuno si accorse che una parte del sapere del mito era rimasta sigillata all’interno del nuovo sapere. Poco male, pensarono i più. Sapremo qualcosa in meno sul nostro passato. Ma che importa il passato, quando abbiamo di fronte l’immensità del presente? Alcuni però insistevano. Si erano accorti che quella parte inaccessibile del mito trattava delle sentenze finali del tribunale. E nessun altro testo ne trattava, perché quelle sentenze non vengono pubblicate. Nacque così in pochi la speranza che attraverso i miti si potesse venire a conoscere qualcosa che altrimenti non si sarebbe mai riusciti a scoprire. I più lo ritenevano una grave illusione, ma non potevano provare che lo fosse, perché gli mancavano recenti sentenze del tribunale che potessero contrapporre a quelle antiche. Infatti le sentenze tuttora non vengono pubblicate. Intanto il mondo continuava a essere avviluppato in processi e sentenze, mai definitive però. I processi erano tutti visibili, le sentine tutte provvisorie…“
“K.” - Roberto Calasso (2005)
Nessuna come quella attuale, fra le epoche che ci hanno preceduto nel corso della storia, è mai stata così sicura di sé riguardo alla limpidezza delle vicende che si svolgono alla luce del sole dell’eterno presente, entro il quale ci si vuole illudere di riuscire ad esaurire il senso completo del vivere. Ma forse oggi come mai prima, ci troviamo sprovveduti e disarmati di fronte alla sorpresa inevitabilmente e incessantemente riproposta dai raggi lunari che continuano ad illuminare con il loro mistero fioco gli sterminati territori dell’inspiegato. Galileo, padre fondatore del pensiero scientifico moderno, affermò per primo che le leggi del mondo sono scritte con linguaggio matematico. Ma a questo aggiungeva un’imprescindibile postilla: esiste una vasta porzione di realtà intorno alla quale la parola dei numeri non è in grado di pronunciarsi. Tale precisazione era fondamentale nell’economia del pensiero galileiano, altrettanto quanto la sua pars construens.
Un certo percorso negli sviluppi successivi del pensiero verso la modernità ha tuttavia finito per ignorare lentamente e sempre più ampliamente questo risvolto basilare del sapere scientifico delle origini, fino a che, con l’avvento dell’Illuminismo, si è giunti a dare la spallata definitiva per il suo accantonamento ufficiale. Il Mito tuttavia non ha mai smesso di sussistere e di ripresentarsi puntualmente dal profondo, per cercare di lenire le vastissime falle di angoscia e di dubbio che continuano a fare breccia contro la superficie in apparenza risolta dell’esistenza. Ed è nell’arte che il Mito continua a ritrovare ai nostri giorni la propria modalità privilegiata per continuare a parlarci.
Solo se la si mantiene calata nell’atmosfera mitologica che le è propria, dell’opera di Franz Kafka si possono afferrare le suggestioni e i significati più profondi, ed è ciò che fa Roberto Calasso nel suo bellissimo e complesso saggio tributato al grande scrittore boemo. Il lucido sguardo visionario di Kafka si fa esemplare nella principale delle sue opere, Il processo, dove si assimila l’esistenza ad un interminabile ed incommensurabile procedimento giudiziario dai risvolti infiniti. Tutto in Kafka è paradosso, tutto è sospensione del senso dell’esistere sulla soglia ultima dell’irresolubile. Nel processo, al lettore può capitare di venir sorpreso a più riprese da un senso di assurdità degli eventi narrati. Ma più che di assurdità, è corretto parlare di paradossalità, entro la quale le contraddizioni del vivere vengono lasciate sussistere nella loro effettiva inconciliabilità, riuscendo non di meno a gettarvi sopra pochi, sporadici bagliori lunari, insufficienti ma indispensabili per continuare ad esplorare i territori lasciati incustoditi dall’accecante solarità propria del sapere scientifico.
Insieme a Carl Gustav Jung, possiamo così porre in rilievo il tratto essenziale comune ad arte e mito: “Il paradosso meglio si adatta all'inconoscibile di quanto si adatti la chiarezza che strappa il mistero dalla sua oscurità, presentandolo come qualcosa di conosciuto. Questa usurpazione fuorvia l'umano intelletto nella hybris, facendogli credere di aver raggiunto mediante un atto conoscitivo il possesso del mistero trascendente, di averlo atterrato. Perciò il paradosso riflette un gradino più alto dell'intelletto e, non forzando l'inconoscibile ad apparire come conoscibile, riproduce più fedelmente lo stato effettivo delle cose."
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