mercoledì 28 ottobre 2009

Epifanie gastronomiche del delta


«…Sotto il tiglio là nella landa
noi rompemmo fiori ed erba,
voi che passate potete vedere
dove io posai la testa.
Se saprete che lei era con me
questo non sarà certo mai vergogna,
era lei la donna che volevo
per essere chiamato col mio nome…»
Sotto il tiglio
Angelo Branduardi - 1976

Mi fanno impazzire (nel senso bello del termine) certi versi di poesie o canzoni, oppure taluni brevi lacerti di brani narrativi, che sotto il manto di una disarmante semplicità comunicativa apparente, sanno evocarti miniere di senso.
Non saprei dire di preciso per quale strano meccanismo semantico questo fenomeno certe (poche) volte si verifica, mentre per la restante maggior parte delle volte non scatta.
Ad esempio, prendete questo minimale, effimero doppio rigo della canzone di Branduardi citata sopra:
«…era lei la donna che volevo
per essere chiamato col mio nome…».
Ecco, so che per la maggior parte della gente, questa frase dirà poco o nulla più del suo significato ordinario.
Io invece l’ho adorata dal primo momento che la sentii. E’ strano a dirsi, ma mi è sempre suonata di una profondità incredibile.

A voler proprio stringere il concetto, ci sono due modi fondamentali di usare le parole. Il modo di base è il modo “gastronomico”, così definito dagli esperti perché si può riassumere anche con il famoso adagio popolare «…parla come mangi…» (sto menando un po’ il gigionesco cane della fantasia per l’aia paraculturale…per non dire paraculare…si vede?...).
Quando ti esprimi in modalità gastronomica ti attieni dunque fedelmente al codice ufficiale della lingua che usi.
«…Il cane abbaia…», «…Sta nevicando…», «…Passami il sale, per cortesia…», «…C’è un elefante in garage…»: questi sono solo alcuni esempi di espressioni “gastronomiche”. Qui, ciò che le parole esprimono va in una singola direzione: tra suono e senso c’è una corrispondenza pressoché biunivoca. In linea di Massimo (…un mio caro amico, grande maniaco della forma fisica), nell’espressione gastronomica, ad un suono corrisponde un solo significato e viceversa.
Non a caso, la modalità espressiva gastronomica è nota anche come “parlar con foce ad estuario”: il corso del flusso espressivo si sfoga nell’oceano del significare con un solo canale d’uscita.
Poi c’è il modo di usare le parole che sempre gli esperti di prima (sempre quelli dell’aia, ancora col cane lì in giro) definiscono il “parlar con foce a delta”. Le parole utilizzate sono tali e quali a quelle usate quando ci si esprime gastronomicamente, ma vuoi per un certo modo di combinarle fra loro, vuoi per gli abbinamenti inusuali ed evocativi che si possono escogitare, finiscono per dire mille cose ulteriori rispetto al loro significato ufficiale codificato.
Nel “parlar con foce a delta”, le parole, dal mero punto di vista “sonoro e sillabico”, sono le stesse della modalità gastronomica, ma il loro fluire è costruito in modo tale che una volta prossime al mare, ci si immettono in mille rivoli quasi ingovernabili.

Ma vi dicevo di Branduardi e del suo tiglio. Se quei due versi della canzone mi esaltano così tanto, forse è proprio perché si pongono a metà strada tra la forma gastronomica e il “parlar con foce a delta”. La frase di per sé è gastronomica a più non posso: «…era lei la donna che volevo per essere chiamato col mio nome…».
«…Beh, chiaro…» viene quasi spontaneo sbottare, «…cosa volevi che ti chiamasse col tuo codice IBAN?!?!?!…».
Ma non fatevi ingannare dalle apparenze, cari amici viandanti per pensieri: spesso l’epifania più raffinata si cela dietro la più menzognera delle spiazzanti banalità.
Vagheggiare che la donna attesa mi chiamasse col mio nome, vuol dire aver predisposto da tempo l’animo all’idea di una persona capace di donare preziosità alla parte più scontata di me stesso. Solo lei è stata in grado di dare quel risalto particolare ed unico ad un gesto che mille volte svariate altre persone avevano compiuto nei miei confronti.
Branduardi è cantautore dalle note “simpatie” medievaleggianti e leggendarie. Forse allora non è una coincidenza il fatto che questo concetto di una rinnovata verginità del nominare, ricordi così da vicino certi “luoghi narrativi” classici di quelle atmosfere: solo l’eletto potrà estrarre la spada dalla roccia; “uno” solo sarà il bacio in grado di ridestare la Bella Addormentata oppure di far tornare al ranocchio la leggiadria che gli compete. Gesti alla portata di tutti, ma del tutto inutili finché non eseguiti dalla persona voluta dall’«essenza delle cose».
Allo stesso modo, solo la “mia” donna saprà chiamarmi davvero col “mio” nome.

Ecco allora perché, cari amici, ho voluto parlarvi oggi delle “epifanie gastronomiche del delta”: perchè sono tra le più raffinate possibili. Al di là del fatto che quella analizzata nella fattispecie vi sia garbata più o meno, bisogna riconoscere il valore assoluto di certi “gastronomi del delta” (mi viene in mente un nome per tutti, forse il più grande: Ernest Hemingway). Perché ciò che riescono a fare è la pratica in assoluto più difficile, per chiunque si cimenti nella produzione di materiale creativo-espressivo: saper spalancare universi di bellezza attraverso l’utilizzo degli strumenti essenziali a disposizione di tutti.
Servendosi di parole che tutti sanno usare, usandole pressoché nel modo da tutti usato, i “gastronomi del delta” portano alla luce l’unicità del dire.

Anzi, sapete cosa vi dico?
Mi avvoltolo sul finale in un triplo salto mortale metaforico carpiato, riassuntivo di tutti i significati espressi nel presente scrittino, e vi saluto concludendo che è esattamente il “gastronomo del delta” il vero e proprio estrattore della spada della bellezza dalla roccia dell’arte.



11 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

tu pensa che quella frase a me fece un effetto raggelante. vi leggevo quella terribile necessità dell'essere definiti attraverso gli occhi di un altra persone. come se il nome, il sé, non avesse alcun senso in fondo se non nominato dall'eletto/a... sono stata abbastanza complicata? bacio chimerico

Gillipixel ha detto...

@->Farly: sì, sì, Farly, a livello di complicazione, direi che ci siamo :-)
In effetti è un'accezione possibile, quella che suggerisci: il nominare come possesso (se ho capito bene :-)...
Concordo che si tratti di un'opzione alquanto asfissiante e non mi piace per nulla...
Però io questo l'ho intravisto di meno, nei versi branduardeschi :-)
Ci ho letto di più il nominare come scoperta, come rinnovo di identità, come inaugurazione di una nuova era esistenziale
...non so...d'altra parte, una chimera non può che essere complicata :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

ingiork dice blogspot che è il più complicato di tutti. :) ecco sul rinnovo d'identità che viene dall'incontro concordo e non lo pensavo come possesso, ma come vera e propria definizione del sé, una sorta di "io esisto perché tu mi nomini". pensa che casino se esisti solo perché ti nominano, se sei da solo che fai? :D

Gillipixel ha detto...

@->Farly: aaaaahhhhhhh :-) ho capito Farly...ma qui ci si butta sul pirandelliano, allora :-) In questo caso non temere: all'ombra del tiglio dell'evo mediano, queste complicanze moderniste non erano annoverate :-)
Però, tornando un po' serio: quello che dici secondo me è sì un po' inquietante, ma al tempo stesso inevitabile...noi viviamo nella considerazione degli altri: a tratti può essere soffocante, ma non ne possiamo fare a meno...il nominare è nato in origine come atto di fusione fra individui...l'individuo non nominato non avrebbe avuto probabilmente nessuna chanche di sopravvivere...
e mi fermo qui, perchè ormai le mie vaccate stanno saturando l'aria tutt'intorno :-D

ANTONELLA ha detto...

Molto particolare la tua interpretazione del linguaggio.Infatti non è solo la questione di mettere in fila le parole seguendo la sintassi, ma , cosa misteriosa, saper dare alla parola quel " succo" che il lettore possa spremere e di cui quindi possa nutrirsi. La frase dell'autore è piena di significato . Chi, ritornando in un luogo dove aveva passato mementi d'amore non abbia cercato un impronta, un segno della felicità provata? e Chi, amando, non ha dato al proprio nome il senso vero della propria identità realizzata? Bellissimo post. Davvero

Gillipixel ha detto...

@->Antonella: grazie, grazie, grazie, Anto...(...tanto non lo ripeterei mai abbstanza :-)
Mi stralusinghi :-)
Il nominare è cosa nobile e peculiarmente umana...io ho un nome solo, come quasi tutti :-) però se ci penso mi rendo conto di avere tanti nomi quante sono le persone che lo pronunciano :-)
Questo è il bello della non quantificabilità dell'esistere :-)

Rosa ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Rosa ha detto...

http://famouspoetsandpoems.com/poets/t__s__eliot/poems/15121

buona lettura! (bel post)

Gillipixel ha detto...

Grazie Rose, per questa piccola grande perla...hai saputo combinare una citazione che mette insieme sia il presente tema, sia i nostri stabeniamini mici :-)
Se questo non vuol dire avere lettori eccezionali... :-*

maria rosaria ha detto...

sentirsi chiamare dalla persona amata tocca nel profondo; credo però, che in generale, sentir pronunciare il proprio nome, crea l'effetto della considerazione altrui verso sé stessi... ci ho fatto caso spesso, osservando la reazione di chi viene "appellato" e soffermandomi anche su me... il primo a rispondere è un narcisistico sussulto.
un andar per pensieri filosofici, il nostro gil!
bravo!
baci

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: ehehheeh, troppo carina EmRose, Grazie :-) è vero, sentirsi chiamare comporta sempre un'emozione sottile ma ben distinta :-)
Io ho sempre fatto fatica però a far coincidere il mio io col mio nome...quel suono sono io? :-) mi vengono sempre in mente domande simili, quando ci penso :-)
Va beh, bacini :-)