martedì 9 febbraio 2010

Nato bifolco, globalizzato crebbi


«...So I'll start a revolution from my bed
'Cause you said the brains I had went to my head...».

Don’t look back in anger” - Oasis, 1995

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Per una strana congiuntura biografico-temporale, la mia infanzia ha idealmente abbracciato il lasso di diversi secoli dell’umano costume abitativo.
Cerco di spiegarvi come.
I miei piedini di neonato o poco più fecero bizzarramente in tempo ad affondare nei rimasugli del medioevo, per poi zompare a piccoli balzelli sequenziali nell’onda lunga del boom economico del secondo dopoguerra, finendo col diguazzare alfine, divenute ormai discrete "fette" ben posate, nell’odierno mondo wide-webbante.
A volte, per “auto-impressionarmi”, mi soffermo su questa considerazione: «…da piccolo vivevo in una casa senza bagno, senza acqua calda, senza termosifoni e col cesso di fuori…mentre adesso navigo su internet…».

Eppure non era cosa tanto strana, durante il periodo in cui la mia infanzia capitò, nascere in una casa impostata architettonicamente ancora come da secoli e secoli si era sempre fatto.
Semplicemente, di tutti i comfort moderni, non si sentiva più di tanto la necessità. Mi sono interrogato sulla questione, e credetemi che era così. Il punto non stava tanto nelle possibilità economiche. Tutte le famiglie, la mia e quelle dei miei amici, erano ormai approdate ad una discreta agiatezza, “post-post” bellica, di mezzi e di possibilità. Ma il cesso era sempre rimasto là fuori, ben distaccato dalle altre stanze, e se non fosse stato che per sentito dire in città la gente ce l’aveva a due passi dal letto e lo chiamava bagno, a nessuna di noi anime rurali sarebbe mai venuto in mente di muoverlo dal suo olezzante esilio, e soprattutto a nessuno sarebbe venuta l’idea di chiamarlo diversamente da cesso.

Il senso della privatezza e dell’intimità degli spazi aveva già compiuto decine e decine di anni ormai (…roba ottocentesca), ma la brezza della modernizzazione aveva interessato soprattutto i nuclei urbani principali e magari anche l’aggregato abitativo più centrale dei paesi. Per il resto, fra la prima periferia rurale ed il west, le case permanevano organizzativamente nella loro sostanziale impostazione medievale, se non addirittura longobarda o romana.

Il “Rubicone residenziale” dei nostri tempi moderni fu segnato dalla scoperta del corridoio. Quando i nostri babbi alla fine si fecero praticamente tutti la casa nuova, anche a noi, teneri virgulti scaturiti dall’«economico boato», venne svelato il secolare mistero del disimpegno, la sconosciuta malia dell’andito fra le diverse domestiche stanze.
Sin dai tempi del dinamico mercante dell’evo di mezzo, sin da quando lo scaltrito e duttile bifolco feudale si legò col filo doppio dell’odio e dell’amore alla gleba sempiterna, lo spazio era stato concepito fondamentalmente nelle sue accezioni di concretezza. In casa si entrava soprattutto per ripararsi, riposare, rifocillarsi, riprodursi e poco più. Ogni metro quadrato coperto da un tetto andava fatto rientrare sotto queste voci, e non era concepito spazio di transito puro o destinato ad attività in qualche modo non fruttifere di eventi tangibili.
Sotto questo aspetto, la domesticità era proiettata sul mondo.
Le distinzioni fra interno ed esterno assumevano più un carattere logistico-pratico, che non implicazioni ideali a definire una cesura netta fra uno spazio dell’intimità privata da una parte, ed una dimensione deputato alla vita pubblica dall’altra.

La casa della mia primissima infanzia era una delle quattro fette di una grossa torta edile. Case a schiera, le hanno chiamate dopo; ma lì, della specificazione geometrica e quantitativa degli spazi, c’era poco o nulla. Quel gigante di sassi e laterizi irregolarmente squadrati, somigliava più ad un organismo vivente, che respirava, sudava, assorbiva rigide nebbie e morbide rugiade, all’unisono coi suoi abitanti.
Un bestione di muri e travi lignee cresciuto assieme alle generazioni umane, animali e vegetali, aggiungendo una o più stanze sulla misura della prole mutevole, un nuovo prociletto o una piccola scuderia sulla scorta delle previsioni suine ed equine di lungo e medio termine, spicchi di fienile aggiuntivi a riecheggiare la felicità e la copiosità delle stagioni trascorse.
Un vero e proprio microcosmo urbano era questo variegato castello della mia bambinitudine, una concrezione di vita ai margini delle ramificazioni di campagnolità paesana più profonde.
Davanti, la grande aia sulla via principale, da tempo immemore teatro di interminabili giochi di bimbi, col suo palcoscenico chiuso talvolta dalle gioiose quinte profumate di lenzuola, panni, calzini e mutandoni freschi di bucato steso ad asciugare, cassa di risonanza di risate, chiacchiere, canti, schiamazzi di festosi frangenti ed imprecazioni.
Alle spalle del grande casone, un altro piccolo cortile chiuso a cavedio dal dedalo di pollai, ripostigli, porciletti, rimesse, antichi stallaggi per i cavalli, portichetti e depositi di legna.
Ogni “appartamento” ti accoglieva direttamente nella stanza in cui si pranzava, si vedeva la tele, si trascorrevano le giornate lunghe d’invernale luce breve, si sorbiva il fresco dai muri generosi nelle brevi giornate estive di chilometrico bagliore. Sul retro, un altro vano di dimensioni simili faceva da lavanderia, cucina ed ambiente per servizi vari.
La scala, ripidissima, stretta e perennemente semibuia, ti portava al piano superiore come sollevato dalle mani di un ciclope di legno rumoroso, e là in alto ti ritrovavi nel piccolo dedalo di stanze tutte comunicanti, senza quasi senso del “tuo” né del “mio”, ma solo con un'impressione diffusa ed ipnotica di “nostro”.
A mitigare l’inverno, le braci nel padellino, infilate sotto le coperte tenute su a capanna dal “prete”, una sorta di ingegnosa maxi-balestra di legno flessibile; e d’estate la frescura che risaliva dal cortiletto posteriore, tanti pomeriggi di afa martellante, aspettando nel letto un coccodè dal pollaio che segnava la sveglia dalle mie pennichelle infantili…

E certo, fra le quattro o cinque famiglie ch'eravamo, il senso del "questa è casa mia" e "quella è casa tua" era ben chiaro a tutti, ma in una dimensione sfumata, senza soluzione di continuità, nè demarcazioni troppo rigide.

Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri: sono cresciuto in una casa senza bagno ed acqua calda.
Ma sono sempre io, che adesso posso parlare a voi ed al mondo, stando seduto sulle mie mutande (*), nella mia sedia illuminata dall’azzurrino riverbero di un computer…

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( *) = Piccola non-verità in forma di licenza poetica: in realtà, quando scrivo, indosso solo 5 gocce di Chanel n.° 5…



4 commenti:

scodinzola ha detto...

Bello il computer... mezzo straordinario che ci consente di essere nel mondo semplicemente stando seduti davanti a una tastiera e a un monitor a casa nostra. Ma l'atmosfera di quei cortili profumati dalla biancheria e pieni di voci..... Non ha eguali.
Semplicemente emozionante.
Hai dimenticato una cosa... il gatto di casa e i suoi... buffetti

Gillipixel ha detto...

@->Scodinzola: grazie, Scodi :-) sei sempre carinissima...è vero però, scordarsi del lato felino dei ricordi non è normalmente da me :-)
Però devo dire che la mia passione micesca nel mio caso si intensificò di più nel periodo adolescenziale...ad ogni modo, avrò ancora occasione di addentrarmi in gattevoli narrazioni :-)
Bacetti buffettosi :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

ehm 5 gocce di chanel... ehm strana evoluzione dalla ruralità avita... più che globalizzato mi finisci profumato...

bel post di amarcord chimera-gattesca, ti immagino arrotolato a ronfare davanti alla cucina economica, almeno finché la nonna di turno ti molla una pedata per mandarti a caccia di topi :-) quasi mi parte una storia parallela, ma questa va per un'altra volta...
bella anche la colonna sonora... besos fusi

Gillipixel ha detto...

@->Farly: ahahahahaha :-) la mia immagine immaginata di gattaccio pedatato affettuosamente dalla nonna mi è piaciuta un sacco, Farly :-) ogni tua evoluzione della storia sarà ben accetta: l'attendo con grande piacere :-)
auntlike dice blogspot, suggerendomi non fare troppo la vecchia zia con profumi vari, perchè anche l'oracolo sa che l'omo ha da puzzà :-D e fa pure rima :-D Bacini extra moenia :-)