mercoledì 9 febbraio 2011

La fiaccola sotto il “minèn”


"...And being alone
is the best way to be.
When I'm by myself it's
the best way to be.
When I'm all alone it's
the best way to be.
When I'm by myself
nobody else can say goodbye..."

Edie Brickell - 1988

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Io ci provo ad auto-persuadermi di essere un nativo italico. Poi però succede sempre qualche piccolo episodio che mi rammenta la mia vera condizione di indigeno Gillipixilandese.

Potrebbe sembrare questione di “snobismo al contrario”, di malsana rivincita dell’orgoglio campagnolistico nei confronti dell’ostile omologazione urbana, di iper-campanilismo patologico. Ma credetemi che non è nulla di tutto ciò. Il fenomeno si concreta su oggettive basi linguistiche e la lingua, si sa, non mente mai.

In un certo senso, la lingua è il più diretto “tratto d’unione” con la realtà di cui possiamo disporre. Le parole attraverso le quali raccontiamo le cose agli altri e a noi stessi, quando sono dette o pensate con cuore limpido ed occhio asciutto, assumono la valenza delle cose medesime chiamate in causa.

Non so se capita anche a voi, ma la sensazione che io provo soffermandomi talvolta ad assaporare le sillabe mentre si formano sotto il palato quando parlo le parole, oppure nel pensiero, quando le idee si condensano nei suoni del muto pronunciamento interiore, è quella di possedere direttamente in bocca la cosa nominata, oppure di avviluppare fra le volute cerebrali il significato concreto del termine pensato, senza passaggi intermedi fra me e la realtà esterna.

Certo, anche la presa sensoriale sulle cose è altrettanto potente. Toccare, vedere, annusare, gustare. Son tutte azioni che ci consentono una comunicazione molto forte con l’«essere» che sta fuori e dentro di noi.
Ma a mio parere, attraverso nessun altra prerogativa umana sappiamo possedere il mondo nella misura così intensa che ci è concesso di fare con la parola.
Sembrerà un’affermazione impropria, ma io credo che i sensi permettano comunicazione col mondo, mentre solo con le parole può avvenire una effettiva comunione con esso.

Va praticamente da sé che un “dispositivo esistenziale” così pregnante può attivarsi nella sua forma più genuina solamente attraverso la lingua che sentiamo come la più familiare, ovvero per il tramite del linguaggio maggiormente in grado di convogliare la nostra spontaneità più istintiva e diretta.

Mi riferisco, ad esempio, alla lingua che viene naturale usare per prima quando capita di sbottare in un’esclamazione quasi automatica o in espressioni scaturite da eventi improvvisi e inattesi (per riprendere un tema di alcuni articoli fa, mi viene in mente ad esempio una bella maledizione scagliata, guidando, alla volta di un altro automobilista particolarmente scorretto; oppure un colorito apprezzamento, umanamente non arginabile, che fuoriesce alla vista di un bellezza femminile particolarmente vistosa e prorompente…).

Per me questa lingua, che tra l’altro finisce anche per costituire una sorta di estroflessione della personalità più intima e sincera, è proprio il dialetto di Gillipixiland (…e con questo mi riaggancio finalmente a quanto dicevo in apertura).

Per cercare di precisare un po’ meglio il concetto con una piccola metafora, posso anche aggiungere che se il mio “Io” pensa i pensieri in italiano, il mio “Es” sente invece il mondo in dialetto.

Sono convinto di questo fatto ormai da un po’ di tempo, ma ultimamente sono incappato in un piccolo accadimento linguistico che me lo ha indirettamente confermato.

Alcuni giorni fa mi sono imbattuto nella parola “moggio”. Pur avendola sentita chissà quante volte, non mi ero mai domandato cosa significasse di preciso, forse per un’anomalia d’utilizzo che la caratterizza. Si tratta infatti di una parola arcaica quasi caduta in disuso, e tuttavia ricorrente con una certa frequenza in due sedi “letterarie” di tutto valore. In un caso, mi riferisco al Vangelo di Matteo («…Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può rimaner nascosta; e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio; anzi la si mette sul candeliere ed ella fa lume a tutti quelli che sono in casa…»); nell’altro invece, parlo del titolo di una tragedia di Gabriele D’Annunzio, «La fiaccola sotto il moggio», per l’appunto.

Chissà come mai, dicevo, pur avendo sentito svariate volte la parola in questi due contesti, non mi sono mai posto il problema del significato, accontentandomi di qualche vago riferimento ad un qualche oggetto genericamente campagnolo.

Ed eccoci al punto del mio aneddoto: essendo venuto a sapere con precisione il senso del termine solo pochi giorni fa, nell’attimo in cui è accaduta la “rivelazione”, senza pensarci su troppo, mi è venuto spontaneo esclamare: «…Aaah….al minén!!!…» (semi-trad.: «…Aaah….il minén!!!…»). Non so se si è capito bene, ma in pratica quel che è successo è stato che mi son reso conto di conoscere già l’oggetto indicato con la parola “moggio”, solamente che a me constava soltanto nella corrispettiva forma dialettale gillipixilandese, “minén” appunto.

Il moggio è in pratica un secchio, solitamente di legno (perché utilizzato ormai decenni fa), che funzionava da misura per i cereali. Riempiendolo sino all’orlo di frumento o di granturco, e “rasando” l’eccedenza con una barra spianatrice, in modo da ottenere un livello precisamente orizzontale di chicchi e perfettamente a filo con il bordo, si era sicuri di avervi introdotto un peso esatto di cereale. In questo modo, se nel moggio pieno ci stavano ad esempio 10 chili giusti di frumento, se ne cacciavano 5 in un sacco e si otteneva così la quantità già pre-pesata di 50 kg.

A testimonianza del mio essere medievale dentro, dovete sapere che il moggio l’ho utilizzato ai tempi della mia adolescenza. All’epoca, si stendevano al sole su un’antica aia in cemento, gentilmente concessa in prestito da un contadino locale, i pochi quintali di granturco ottenuti da un piccolo appezzamento di terreno, per un’essiccazione fatta in casa e in economia. La misura finale del peso, al momento dell’insaccatura definitiva, veniva fatta appunto tramite un moggio, che a me però era stato detto chiamarsi “minén” (parola che nel mio dialetto s’interseca gentilmente anche con un altro significato più giocoso e leggiadro: “minén” in gillipixilandese vuol dire infatti anche “gattino”).

E’ molto curioso, dunque: per anni ho sentito parlare di “moggio”, senza sapere cosa fosse, e tuttavia avevo usato il “minén” forse altrettante volte. In pratica, possedevo nella mia mente una parola (“moggio”) priva del corrispettivo oggetto significato nel concreto, mentre usavo quell’oggetto stesso catalogato con la parola (“minén”) che per me da allora lo classifica più con più immediatezza fra le cose reali.


4 commenti:

Vanessa Valentine ha detto...

Grande Edie e i New Bohemians, grande canzone!:)))))
Ho ancora la cassetta da qualche parte, mi devo ricomprare tutto su itunese....
Rincuorante sapere che altri esseri umani si stavano chiedendo che beato pappafico volesse dire "moggio".
Ho fatto un esame all'università sul debosciatissimo Gabriele D'A. col terrore che me lo chiedessero (per fortuna, no).
Comunque minèn è più carino, ovvio, intimorisce di meno.
Punto a suo favore che voglia dire anche gattino (adoro i gattini, belli belli belli).:))))))))

Gillipixel ha detto...

@->Vale: ehehehehe, ma lo sai Vale che ho la vaga impressione che questo moggio non lo sappia proprio nessuno che caspita fosse? :-) Questo mi fa rivalutare parecchio la mia storica conoscenza del minén :-) Tanto più che io l'ho anche usato di persona :-)
Nel tuo caso, credo di sapere perchè non conoscessi il significato di "moggio": associandolo soprattutto a D'Annunzio, quello che a te interessava maggiormente era la somma maestria nel deboscio del Vate, e non prestavi troppa attenzione a quel termine :-)

E' vero, minén per dire micino è proprio un termine delicato e tenero...
Grazie della tua visita gentile, sei sempre super-benvenuta qui :-)

Bacini luminosi :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

mai usato ne moggio ne minen, ma è bella l'immagine di una cosa che sappiamo cos'è senza saperlo :-)

baci ai cereali

ps mi sono messa in pari!!

Gillipixel ha detto...

@->Farly: eheheh :-) adesso sì che sento i miei articoletti completi, cara Farly :-) lo sai che senza le tue chiose puntuali, rimangono come zoppi :-)

A non aver usato nè moggio nè minèn, non ti sei persa granchè :-) Però a ripensarci, e solo a distanza di tempo, è un ricordo carino :-)

Toh...blogspot dice repactio :-) da un po' di tempo non lo capisco, ma ha sempre ragione :-)

Bacini micini :-)