Siete sempre stati convinti che sogno e scrittura non abbiano nulla a che vedere l’uno con l’altra? Questo è successo semplicemente perché non avevate ancora sentito raccontare ciò che sto per dirvi oggi in questo articoletto.
Come vedete, oggi sono partito sul modesto andante….
Ma la mia blaterata considerazione odierna, nasce più che altro da un secondo “blando” interrogativo. Così, proprio una bazzecola da quattro soldi che ognuno si domanda quotidianamente, appena messi già i piedi dal letto. L’ulteriore auto-quesito in questione è infatti questo: come si esplicitano di preferenza le nostre sensazioni di esserci al mondo? Niente paura, non ho nessuna intenzione, con questa terminologia para-altisonante e trombonesca, di andar a scomodare Martin Heidegger. Mi riferisco semplicemente all’impressione che più ci si impone quando ci riferiamo al concetto della “consistenza di noi stessi”.
In cosa consisto io, con più evidenza, a me stesso?
La risposta più pertinente credo che sia: consisto in un incessante rimuginio verbale interiore. Fate un po’ mente locale a questa cosa e vedrete che non mi sto sbagliando di tanto. Ripensate magari ad un piccolo episodio vissuto qualche attimo prima, non importa se poco significativo. Mettiamo che siete appena stati seduti a tavola a pranzare. In cosa è consistito in prevalenza il vostro percepire voi stessi negli attimi in cui stavate mangiando? Certo, è consistito nell’essere immerso in uno scenario di sapori, suoni, voci magari, profumi, odori, sensazioni al tatto e così via, ma molto più in generale è consistito nel prodotto dei vostri pensieri a proposito di tutti quegli stimoli esterni, a loro volta rimescolati con una quantità altrettanto, se non ben più vasta, di considerazioni riflessive aggiunte, nate direttamente dal vostro repertorio mentale.
«...Ehi, ehi, ferma un attimo…» sbotteranno a questo punto i più attenti fra i miei cari amici viandanti per pensieri, «...ma cosa ci vieni a raccontare, Gillipix? Qui ci stai rifilando il vecchio “cogito ergo sum” cartesiano, solamente un po’ camuffato con un paio di logore braghe da bifolco…».
D’accordo, d’accordo, non vi volevo mica nascondere nulla, né tanto meno avevo la pretesa di venirvi a raccontare qualche nuova teoria filosofica assolutamente inedita. Sono soltanto le mie solite quattro vaccate…
Però sono convinto che ci si renda poco conto di quanto il nostro consistere più che altro in “materiale mentale” sia uno stato talvolta così totalizzante. Ciò che di noi s’impone continuamente è un incessante dialogo interiore. Noi siamo un continuo parlare intimo con interlocutori fittizi dei quali non possiamo fare assolutamente a meno. Essi rappresentano, per così dire, il nostro ossigeno esistenziale.
Avevo tuttavia detto in apertura che avrei parlato di sogno e scrittura. Ecco, per arrivare a quel tema, è necessario fare un altro piccolo passo avanti nella disquisizione. Se nello stato di veglia, il nostro dialogare interiore si costruisce prevalentemente sul contrasto, sul conflitto, nel sogno invece “si ottiene ragione” molto più agevolmente. Nel sogno, gli altri nostri “sé” coi quali intessiamo ragionamenti e discussioni, non sono pedanti e tignosi sostenitori di valori inamovibili, magari sventagliati facendo leva su soffusi sensi di colpa, come accade nel rimescolio mentale da svegli.
Nel sogno i nostri “altri da noi” sono comprensivi, vengono incontro con molta più indulgenza alle nostre esigenze psicologiche e di riflesso anche fisiche. Nel sogno, anche quando l’atmosfera non è delle più piacevoli, ci sentiamo ad ogni modo protagonisti totali, personaggi assoluti della trama. Nel sogno io sono io, ma sono anche tutti quelli coi quali mi ritrovo ad aver a che fare. Nel sogno sono la mia persona e nel contempo sono anche tutto il mio mondo di quei momenti. Nel sogno viene meno quel distacco fra me e gli “altri da me”, percepito invece a volte anche molto duramente nello stato di veglia.
Ecco, a questo punto, mi domando e dico: una dinamica simile non si innesca anche calandosi nella dimensione dello scrivere? E in particolare, non si innesca a maggior ragione quando si tratta di scrivere nelle forme “romanzescamente” intese. Questa considerazione mi è balzata alla mente facendo particolarmente caso a certe diffuse sensazioni derivate spesso dalla lettura di diversi romanzi.
Tutta l’impalcatura narrativa vive emotivamente di una inestricabile fusione fra voce narrante ed entità psicologiche evocate attraverso i protagonisti della storia. Poco importa se sia stata scelta la strada del raccontare in prima, oppure in terza persona. Quel sapore di identificazione dei tanti sé in una unica entità, che è poi l’esito della scrittura, s’impone in ogni caso. Scrivendo, mettiamo nero su bianco i meccanismi del sogno, così come leggere ci offre la possibilità di addentrarci nelle atmosfere di un sogno altrui.
Ogni cosa scritta che possegga una certa profondità tematica, può essere intesa come frutto di un dialogo coi propri “simulacri interiori”, con una schiera di “alter-ego” scaturiti dall’intreccio delle sillabe depositate sulla pagina. Anzi, per essere più precisi salvando la metafora onirica, è più corretto definirli “alter-es”. Non sono infatti “altri da sé” parenti di quelli del rimuginare interno “utilitaristico” nel vissuto quotidiano. Gli “altri noi” scaturiti dall’atto dello scrivere sono più vicini a quelli del sogno, più simpatici ed accondiscendenti, ci offrono la loro complicità in misura più vasta, comprendono meglio le nostre esigenze spirituali, sono più disposti a venire a patti coi nostri capricci, con le nostre debolezze, con le fisime del cuore, dell’anima, e anche della “pancia”
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, concludendo, perdonatemi se oggi sono stato un po’ criptico ed ostico anziché no, nel mio argomentare. So anche che in questo momento starete pensando: «...Ma non si faceva prima a citare la famosa frase di Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”, in modo da risparmiarci tutto questo pippone di articolo sgangherato?…».
D’accordo, è tutto vero. Però pensateci un momento: che gusto c’è ad affidarsi sempre al senso comune? Non vale forse la pena, ogni tanto, di concedersi il lusso di qualche incursione nel “senso non comune”? Che gusto c’è a dire sempre le cose come stanno, tutte belle lineari, pulitine, palesi e scontate?
Se proprio proprio, quando si ha bisogno di qualcosa del genere, si fa sempre in tempo ad accendere la televisione…
Come vedete, oggi sono partito sul modesto andante….
Ma la mia blaterata considerazione odierna, nasce più che altro da un secondo “blando” interrogativo. Così, proprio una bazzecola da quattro soldi che ognuno si domanda quotidianamente, appena messi già i piedi dal letto. L’ulteriore auto-quesito in questione è infatti questo: come si esplicitano di preferenza le nostre sensazioni di esserci al mondo? Niente paura, non ho nessuna intenzione, con questa terminologia para-altisonante e trombonesca, di andar a scomodare Martin Heidegger. Mi riferisco semplicemente all’impressione che più ci si impone quando ci riferiamo al concetto della “consistenza di noi stessi”.
In cosa consisto io, con più evidenza, a me stesso?
La risposta più pertinente credo che sia: consisto in un incessante rimuginio verbale interiore. Fate un po’ mente locale a questa cosa e vedrete che non mi sto sbagliando di tanto. Ripensate magari ad un piccolo episodio vissuto qualche attimo prima, non importa se poco significativo. Mettiamo che siete appena stati seduti a tavola a pranzare. In cosa è consistito in prevalenza il vostro percepire voi stessi negli attimi in cui stavate mangiando? Certo, è consistito nell’essere immerso in uno scenario di sapori, suoni, voci magari, profumi, odori, sensazioni al tatto e così via, ma molto più in generale è consistito nel prodotto dei vostri pensieri a proposito di tutti quegli stimoli esterni, a loro volta rimescolati con una quantità altrettanto, se non ben più vasta, di considerazioni riflessive aggiunte, nate direttamente dal vostro repertorio mentale.
«...Ehi, ehi, ferma un attimo…» sbotteranno a questo punto i più attenti fra i miei cari amici viandanti per pensieri, «...ma cosa ci vieni a raccontare, Gillipix? Qui ci stai rifilando il vecchio “cogito ergo sum” cartesiano, solamente un po’ camuffato con un paio di logore braghe da bifolco…».
D’accordo, d’accordo, non vi volevo mica nascondere nulla, né tanto meno avevo la pretesa di venirvi a raccontare qualche nuova teoria filosofica assolutamente inedita. Sono soltanto le mie solite quattro vaccate…
Però sono convinto che ci si renda poco conto di quanto il nostro consistere più che altro in “materiale mentale” sia uno stato talvolta così totalizzante. Ciò che di noi s’impone continuamente è un incessante dialogo interiore. Noi siamo un continuo parlare intimo con interlocutori fittizi dei quali non possiamo fare assolutamente a meno. Essi rappresentano, per così dire, il nostro ossigeno esistenziale.
Avevo tuttavia detto in apertura che avrei parlato di sogno e scrittura. Ecco, per arrivare a quel tema, è necessario fare un altro piccolo passo avanti nella disquisizione. Se nello stato di veglia, il nostro dialogare interiore si costruisce prevalentemente sul contrasto, sul conflitto, nel sogno invece “si ottiene ragione” molto più agevolmente. Nel sogno, gli altri nostri “sé” coi quali intessiamo ragionamenti e discussioni, non sono pedanti e tignosi sostenitori di valori inamovibili, magari sventagliati facendo leva su soffusi sensi di colpa, come accade nel rimescolio mentale da svegli.
Nel sogno i nostri “altri da noi” sono comprensivi, vengono incontro con molta più indulgenza alle nostre esigenze psicologiche e di riflesso anche fisiche. Nel sogno, anche quando l’atmosfera non è delle più piacevoli, ci sentiamo ad ogni modo protagonisti totali, personaggi assoluti della trama. Nel sogno io sono io, ma sono anche tutti quelli coi quali mi ritrovo ad aver a che fare. Nel sogno sono la mia persona e nel contempo sono anche tutto il mio mondo di quei momenti. Nel sogno viene meno quel distacco fra me e gli “altri da me”, percepito invece a volte anche molto duramente nello stato di veglia.
Ecco, a questo punto, mi domando e dico: una dinamica simile non si innesca anche calandosi nella dimensione dello scrivere? E in particolare, non si innesca a maggior ragione quando si tratta di scrivere nelle forme “romanzescamente” intese. Questa considerazione mi è balzata alla mente facendo particolarmente caso a certe diffuse sensazioni derivate spesso dalla lettura di diversi romanzi.
Tutta l’impalcatura narrativa vive emotivamente di una inestricabile fusione fra voce narrante ed entità psicologiche evocate attraverso i protagonisti della storia. Poco importa se sia stata scelta la strada del raccontare in prima, oppure in terza persona. Quel sapore di identificazione dei tanti sé in una unica entità, che è poi l’esito della scrittura, s’impone in ogni caso. Scrivendo, mettiamo nero su bianco i meccanismi del sogno, così come leggere ci offre la possibilità di addentrarci nelle atmosfere di un sogno altrui.
Ogni cosa scritta che possegga una certa profondità tematica, può essere intesa come frutto di un dialogo coi propri “simulacri interiori”, con una schiera di “alter-ego” scaturiti dall’intreccio delle sillabe depositate sulla pagina. Anzi, per essere più precisi salvando la metafora onirica, è più corretto definirli “alter-es”. Non sono infatti “altri da sé” parenti di quelli del rimuginare interno “utilitaristico” nel vissuto quotidiano. Gli “altri noi” scaturiti dall’atto dello scrivere sono più vicini a quelli del sogno, più simpatici ed accondiscendenti, ci offrono la loro complicità in misura più vasta, comprendono meglio le nostre esigenze spirituali, sono più disposti a venire a patti coi nostri capricci, con le nostre debolezze, con le fisime del cuore, dell’anima, e anche della “pancia”
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, concludendo, perdonatemi se oggi sono stato un po’ criptico ed ostico anziché no, nel mio argomentare. So anche che in questo momento starete pensando: «...Ma non si faceva prima a citare la famosa frase di Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”, in modo da risparmiarci tutto questo pippone di articolo sgangherato?…».
D’accordo, è tutto vero. Però pensateci un momento: che gusto c’è ad affidarsi sempre al senso comune? Non vale forse la pena, ogni tanto, di concedersi il lusso di qualche incursione nel “senso non comune”? Che gusto c’è a dire sempre le cose come stanno, tutte belle lineari, pulitine, palesi e scontate?
Se proprio proprio, quando si ha bisogno di qualcosa del genere, si fa sempre in tempo ad accendere la televisione…