Quando si ha poca voglia di scrivere, va praticamente da sé che anche la predisposizione alla lettura non sia poi così abbondante. Anzi, forse è meglio dire che di preciso non si sa bene quale delle due svogliatezze nasca prima dell’altra.
Una faccenda del genere mi è successa nell’ultimo periodo e devo dire che non si è ancora esaurita del tutto. Tuttavia, il mio massimo di astinenza assoluta dalla parola scritta può durare a dire tanto una giornata, due quando si esagera. Poi, anche a costo di avere a disposizione come materiale di lettura solamente le etichette dell’acqua minerale, mi ritorna il bisogno di nutrirmi di parole.
In quei casi però prediligo un ritorno blando alle emozioni concettuali convogliate dalle sillabe messe nero su bianco su di una pagina. I gialli, ad esempio, sono una buonissima soluzione in questo senso. Quello di cui si ha bisogno, più che altro, è una storia pura, ben architettata e ben narrata. Su consiglio di una cara amica, mi è successo infatti di leggere un buon giallo italiano, intitolato «Odore di chiuso» scritto da un giovane autore, Marco Malvaldi, e ne ho tratto buona soddisfazione. Era il libro giusto, al momento giusto.
In generale, per queste fasi poco “leggerecce”, la regola della “storia pura”, del racconto senza troppi fronzoli filosofici o riflessioni esistenziali, rimane sempre valida, qualunque sia l’ambito letterario scelto, giallo o non giallo che sia. Avendo in casa un classicone della letteratura per ragazzi, che da tempo desideravo affrontare, mi sono detto allora che anche un simile testo era l’ideale per i miei scopi del momento, di lettore a ranghi ridotti.
Ed eccomi lì con il mio libro in mano, bello e che immerso nella lettura. Non vi rivelo per il momento il titolo, strafamoso, perché ritengo che fare così giovi all’economia del mio articoletto.
Sulle prime insomma, tutto bene. La storia, arcinota perché sentita raccontare mille volte in mille salse, scorreva liscia. Conoscevo benissimo le vicende in questione, ma non le avevo mai lette nella versione originale, e questo era, fra gli altri, uno dei motivi principali d’interesse che mi avevano spinto a questa lettura.
Poi, ad un bel momento, ecco che incontro il seguente passo (portate pazienza, mantengo ancora il mistero sul titolo, sempre che non abbiate già intuito di cosa si tratta, e sostituisco con “xy” gli indizi più evidenti):
«…”Ho capito” disse allora un di loro “bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!”. “Impicchiamolo” ripeté l’altro. Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che facesse l’ultimo sgambetto: ma il “xy” dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava. Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a “xy” e gli dissero: “Addio a domani. Quando torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata”…».
Lì per lì non ci ho fatto caso più di tanto, non mi sembrava un passaggio eccessivamente truculento, con tutto quello che si può leggere in giro…ma dopo pochi secondi, ho fatto mente locale e mi sono ricordato: «..Ma minchia!!! Ma questo sarebbe un libro per ragazzi! Eccheccacchio! Roba che quasi quasi a Stephen King gli fa un baffo (...proprio per non dire una pippa)…».
Non vi nascondo insomma la mia perplessità nell’affrontare questo brano del racconto. Mi ero avvicinato a questo testo con in mente gli infiniti elogi sentiti più volte proclamare nei suoi confronti. Ne avevo sentito parlare sempre come di uno dei capolavori assoluti della letteratura per l’infanzia ed ora provavo un senso innegabile di stonatura. Sono stato addirittura tentato di mollare la lettura. Va beh che non sarà giusto nemmeno far crescere i bambini nella “bambagiosa” e “cotoniera” illusione che tutto il mondo e la vita siano soltanto un tripudio senza fine di rose e fiori, ma neanche farli partire in quarta così, con una bella impiccagione grassa grassa, mi sembrava il massimo della salute psico-esistenzial-affettiva.
Per fortuna, tuttavia, che talvolta la perseveranza paga. Non sempre, ma qualche volta sì. Ho così deciso di tenere duro, seguitando ad addentrarmi fra le pagine, e cammin facendo mi è parso di riuscire a calarmi meglio nella logica narrativa di quelle apparenti spietatezze gratuite.
Sì, perché l’episodio dell’impiccagione non era l’unico saggio di frastornante ferocia rintracciabile nel corso della narrazione. Al nostro povero protagonista, andando avanti, ne capitano ancora di cotte e di crude, robe da richiamare alla mente, con spontaneità immediata, la mitica esclamazione inserita da Andrea Mingardi nel suo celeberrimo capolavoro, “Delone”: «…Sòcmél! Che crudeltà mentale…».
Ed è stata proprio l’esagerazione incalzante degli episodi che pagina dopo pagina si susseguivano con ferocia fuori scala, che mi ha fatto scattare la molla di una possibile comprensione, o perlomeno di una mia plausibile interpretazione. Le disavventure nelle quali incappa il personaggio sono infatti tali e tanto grosse, che alla fine il lettore approda nel rassicurante territorio del “non senso”. In questa prospettiva, la genialità dell’autore precorre in un qualche modo lo spirito dei moderni cartoon, anticipa l’essenza di Willy Coyote, di Tom e Jerry, di Silvestro e Bugs Bunny, capaci di passare sotto una pressa o di uscire dalla centrifuga della lavatrice, solo un po’ buffamente malconci, ma altresì in grado di ripresentarsi perfettamente in forma, smacchiati e stirati come nuovi, nella scena successiva, grazie ad una semplice sgrullatina liberatoria.
E tutto ciò, in una prospettiva di senso più ampia, dove ci può condurre?
Può condurre ad una sotterranea esortazione rivolta dallo scrittore all’indirizzo dei giovani lettori, che nelle debordanti peripezie del loro beniamino sulla carta, potranno cogliere l’imbeccata pedagogico-poetica in grado di farli riflettere sulle durezze dell’esperienza umana, aprendo possibilità immense alla forza vitale che percorre i nostri giorni, raffigurata come quasi sempre in grado di oltrepassare persino le situazioni più disperanti, anche a costo di ricorrere all’ausilio di massicce dosi d’ironia ed alla accettazione, sempre posta sullo sfondo, di un vago e generalizzato senso dell’assurdo.
Certo, l’opera in questione possederà poi le altre mille sfumature interpretative ad essa attribuite dalla critica nei tanti anni in cui è stata letta e fatta oggetto di esegesi, ma io, molto umilmente, ho creduto di scorgerci anche questo marginale risvolto significante.
L’avrò pensata giusta? L’avrò pensata sbagliata? Boh!!!
Due cose però credo di averle capite.
Le sconfitte della vita, anche quelle apparentemente più definitive ed irreparabili, in realtà rappresentano praticamente sempre l’altra faccia di una sorta di resurrezione che ci attende dietro il prossimo angolo.
L’altra cosa è che quando incapperò di nuovo in una fase di stanca nella mia carriera di lettore, potrò passare direttamente e senza remore a sfogliare qualche racconto di Edgar Allan Poe o di Howard Phillips Lovecraft, che non mi sbaglierò di molto.
Ah…quasi dimenticavo: il personaggio del mio libro (e per derivazione logica anche il titolo del medesimo…) era ovviamente Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto Collodi.
Una faccenda del genere mi è successa nell’ultimo periodo e devo dire che non si è ancora esaurita del tutto. Tuttavia, il mio massimo di astinenza assoluta dalla parola scritta può durare a dire tanto una giornata, due quando si esagera. Poi, anche a costo di avere a disposizione come materiale di lettura solamente le etichette dell’acqua minerale, mi ritorna il bisogno di nutrirmi di parole.
In quei casi però prediligo un ritorno blando alle emozioni concettuali convogliate dalle sillabe messe nero su bianco su di una pagina. I gialli, ad esempio, sono una buonissima soluzione in questo senso. Quello di cui si ha bisogno, più che altro, è una storia pura, ben architettata e ben narrata. Su consiglio di una cara amica, mi è successo infatti di leggere un buon giallo italiano, intitolato «Odore di chiuso» scritto da un giovane autore, Marco Malvaldi, e ne ho tratto buona soddisfazione. Era il libro giusto, al momento giusto.
In generale, per queste fasi poco “leggerecce”, la regola della “storia pura”, del racconto senza troppi fronzoli filosofici o riflessioni esistenziali, rimane sempre valida, qualunque sia l’ambito letterario scelto, giallo o non giallo che sia. Avendo in casa un classicone della letteratura per ragazzi, che da tempo desideravo affrontare, mi sono detto allora che anche un simile testo era l’ideale per i miei scopi del momento, di lettore a ranghi ridotti.
Ed eccomi lì con il mio libro in mano, bello e che immerso nella lettura. Non vi rivelo per il momento il titolo, strafamoso, perché ritengo che fare così giovi all’economia del mio articoletto.
Sulle prime insomma, tutto bene. La storia, arcinota perché sentita raccontare mille volte in mille salse, scorreva liscia. Conoscevo benissimo le vicende in questione, ma non le avevo mai lette nella versione originale, e questo era, fra gli altri, uno dei motivi principali d’interesse che mi avevano spinto a questa lettura.
Poi, ad un bel momento, ecco che incontro il seguente passo (portate pazienza, mantengo ancora il mistero sul titolo, sempre che non abbiate già intuito di cosa si tratta, e sostituisco con “xy” gli indizi più evidenti):
«…”Ho capito” disse allora un di loro “bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!”. “Impicchiamolo” ripeté l’altro. Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che facesse l’ultimo sgambetto: ma il “xy” dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava. Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a “xy” e gli dissero: “Addio a domani. Quando torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata”…».
Lì per lì non ci ho fatto caso più di tanto, non mi sembrava un passaggio eccessivamente truculento, con tutto quello che si può leggere in giro…ma dopo pochi secondi, ho fatto mente locale e mi sono ricordato: «..Ma minchia!!! Ma questo sarebbe un libro per ragazzi! Eccheccacchio! Roba che quasi quasi a Stephen King gli fa un baffo (...proprio per non dire una pippa)…».
Non vi nascondo insomma la mia perplessità nell’affrontare questo brano del racconto. Mi ero avvicinato a questo testo con in mente gli infiniti elogi sentiti più volte proclamare nei suoi confronti. Ne avevo sentito parlare sempre come di uno dei capolavori assoluti della letteratura per l’infanzia ed ora provavo un senso innegabile di stonatura. Sono stato addirittura tentato di mollare la lettura. Va beh che non sarà giusto nemmeno far crescere i bambini nella “bambagiosa” e “cotoniera” illusione che tutto il mondo e la vita siano soltanto un tripudio senza fine di rose e fiori, ma neanche farli partire in quarta così, con una bella impiccagione grassa grassa, mi sembrava il massimo della salute psico-esistenzial-affettiva.
Per fortuna, tuttavia, che talvolta la perseveranza paga. Non sempre, ma qualche volta sì. Ho così deciso di tenere duro, seguitando ad addentrarmi fra le pagine, e cammin facendo mi è parso di riuscire a calarmi meglio nella logica narrativa di quelle apparenti spietatezze gratuite.
Sì, perché l’episodio dell’impiccagione non era l’unico saggio di frastornante ferocia rintracciabile nel corso della narrazione. Al nostro povero protagonista, andando avanti, ne capitano ancora di cotte e di crude, robe da richiamare alla mente, con spontaneità immediata, la mitica esclamazione inserita da Andrea Mingardi nel suo celeberrimo capolavoro, “Delone”: «…Sòcmél! Che crudeltà mentale…».
Ed è stata proprio l’esagerazione incalzante degli episodi che pagina dopo pagina si susseguivano con ferocia fuori scala, che mi ha fatto scattare la molla di una possibile comprensione, o perlomeno di una mia plausibile interpretazione. Le disavventure nelle quali incappa il personaggio sono infatti tali e tanto grosse, che alla fine il lettore approda nel rassicurante territorio del “non senso”. In questa prospettiva, la genialità dell’autore precorre in un qualche modo lo spirito dei moderni cartoon, anticipa l’essenza di Willy Coyote, di Tom e Jerry, di Silvestro e Bugs Bunny, capaci di passare sotto una pressa o di uscire dalla centrifuga della lavatrice, solo un po’ buffamente malconci, ma altresì in grado di ripresentarsi perfettamente in forma, smacchiati e stirati come nuovi, nella scena successiva, grazie ad una semplice sgrullatina liberatoria.
E tutto ciò, in una prospettiva di senso più ampia, dove ci può condurre?
Può condurre ad una sotterranea esortazione rivolta dallo scrittore all’indirizzo dei giovani lettori, che nelle debordanti peripezie del loro beniamino sulla carta, potranno cogliere l’imbeccata pedagogico-poetica in grado di farli riflettere sulle durezze dell’esperienza umana, aprendo possibilità immense alla forza vitale che percorre i nostri giorni, raffigurata come quasi sempre in grado di oltrepassare persino le situazioni più disperanti, anche a costo di ricorrere all’ausilio di massicce dosi d’ironia ed alla accettazione, sempre posta sullo sfondo, di un vago e generalizzato senso dell’assurdo.
Certo, l’opera in questione possederà poi le altre mille sfumature interpretative ad essa attribuite dalla critica nei tanti anni in cui è stata letta e fatta oggetto di esegesi, ma io, molto umilmente, ho creduto di scorgerci anche questo marginale risvolto significante.
L’avrò pensata giusta? L’avrò pensata sbagliata? Boh!!!
Due cose però credo di averle capite.
Le sconfitte della vita, anche quelle apparentemente più definitive ed irreparabili, in realtà rappresentano praticamente sempre l’altra faccia di una sorta di resurrezione che ci attende dietro il prossimo angolo.
L’altra cosa è che quando incapperò di nuovo in una fase di stanca nella mia carriera di lettore, potrò passare direttamente e senza remore a sfogliare qualche racconto di Edgar Allan Poe o di Howard Phillips Lovecraft, che non mi sbaglierò di molto.
Ah…quasi dimenticavo: il personaggio del mio libro (e per derivazione logica anche il titolo del medesimo…) era ovviamente Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto Collodi.
6 commenti:
be' alla prossima pausa leggitoria prova la favole dei fratelli grimm... quelle sì che sono truculente :-D
eccellente ritorno al saturday night di adolescente memoria
bacini fantastici
@->Farly: grazie della dritta, cara Farly :-) avevo spulciato un po' anche Andersen, e pure lui non se la cava male in fatto di tristumi :-)
Certo che le infanzie di tutte le epoche sono state ben servite :-)
Nessuno avrà mai pensato: "Hai visto mai che a raccontargli cose più piacevoli, magari poi da grandi fanno meno guerre?" :-)
Bacini fabulosi :-)
Ne avevo pensate tante, ma a Pinocchio non sarei mai arrivata :(
Concordo anche su quanto scrivi su Andersen che,non ho mai capito come possa essere considerato scrittore per l'infanzia. Le sue storie sono inquietanti, tristissime...
I fratelli Grimm, che cita Farlocca, sono truculente, quasi tutte provenienti da tradizioni orali.
Povera infanzia!!!
Ciao Gill,
Lara
@->Lara: veramente, Lara, uno fatica sette camice per trovare una motivazione plausibile per tutta quella spietatezza efferata :-)
Io ho provato a sparare lì una mia ipotesi, ma non so se funziona tanto :-)
Ti confesso che non lo avrei saputo dire nemmeno io che si trattava di Pinocchio, se non l'avessi letto proprio in questi giorni...c'è da dire infatti che normalmente queste fiabe le veniamo a conoscere attraverso trasposizioni filmiche, fumettisitche, televisive, nelle quali le parti più estreme di solito vengono edulcorate...
Rimane comunque un mistero come potessero pensare di fare qualcosa di buono per l'infanzia propinando scene così crude :-) ma son contento di aver messo in evidenza la questione, seppur con mie ipotesi un po' stiracchiate :-)
Bacini che vissero tutti felici e contenti :-)
Io da picolo leggevo il De Bello Gallico, le Memorie del Generale Patton e Carl von Clausewitz.
Mi arrabbiavo molto se nelle favole non c'era almeno un triplo omicidio.
E infatti oggi sono un soddisfatto criptofascista guerrafondaio.
;-)
@->Yossarian: ahahahhaah :-) sei una sagomaccia, Yoss :-) però stavolta hai peccato di eccessiva modestia: hai dimenticato di dire che sei anche un eccelso populista e un sopraffino qualunquista :-)
Ho capito dove volevi andare a parare, ti riferivi a quella mezza cappellata che ho detto in risposta a Farly...ecco, lo ammetto, era un'emerita cappellata :-) Ma l'ho detta un po' a mo' di battuta...non è che volessi sostenere improbabili automatismi educaticvo-bellici :-)
Prendi me, per esempio: anche io sono cresciuto con pistole e fucili giocattolo, archi e fionde che mi fabbricavo da solo, e la mia favola preferita aveva come protagonista un tizio che ne ha accoppati più della peste, Tex Willer :-)
Eppure è andata a finire che crescendo sono diventato il Vincenzo Mollica del web, il lupo de Lupis dei blogger :-) è evidente dunque che il teorema non reggerebbe :-)
Però rimane curioso come mai uno che si mette lì con l'intento di scrivere roba per bambini, la rimpinzi di passaggi crudi e spietati...un conto è il fatto che tutti i bimbi di tutti i tempi hanno sempre adorato trasgredire, procurandosi la fruizione segreta di storie da grandi...
mi viene in mente ad esempio Belfagor o Ritratto di donna velata, roba dei miei tempi che per una piccola mente erano delle mazzate di adrenalina adulta, ma me le pappai in piena serenità...o quasi :-)
Un conto è invece partire da zero con una storia apposita per bimbi e farcrirla di impiccati, tagliole fameliche e farabutti :-)
Grazie della visita, Yoss, sempre gradita :-)
Ciao :-)
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