sabato 14 maggio 2011

Di miopie e dettagli


Se è vero che tre indizi fanno una prova, allora io sono fortemente sospettato di timidezza aggravata e reiterata (o forse mi confondo con la regola che dice “tre corner, un rigore”, ma va bene lo stesso).

Ho sentito spesso persone piuttosto diverse fra di loro in quanto a modi di fare e carattere, che sostenevano di essere timide. La questione è sempre alquanto sottile. Da una parte entra in gioco la capacità di auto-valutarsi, che non è mai compito banale. Per altri versi invece, s’innesca il fattore “theory declared – theory in use”, ossia il meccanismo secondo il quale ciascuno di noi si muove nel mondo sulla base di una certa immagine posseduta di se stesso, pur non essendo poi così scontato che questa struttura mentale proiettata coincida per forza con la realtà effettiva delle cose. Anzi, nella maggior parte dei casi i due profili si differenziano e anche di parecchio.

Codesto parrebbe un autentico «culo di sacco», dunque. Come se ne esce? Uno dei modi sarebbe fidarsi del giudizio altrui. Ma anche qui ci si imbatte nuovamente in fattori di ordine soggettivo, per cui siamo un po’ da capo. L’altra strada potrebbe essere osservare gli indizi a disposizione, ed è quello che stavo per fare fin dall’inizio, se la mia balorda attitudine di partire per la tangente argomentativa non mi avesse dirottato il discorso fra le verze concettuali.

La prima traccia-fattore di fondo che deporrebbe a favore del mio essere timido, pare sia la miopia. Tempo fa lessi da qualche parte che il difetto nel vedere da lontano sarebbe innescato nel tempo, oltre che da moventi di tipo fisico, anche da componenti psicologiche significative. Il miope, secondo questa ipotesi, sarebbe un tizio che si ritrae dal mondo, rifiutando inconsciamente di spaziare con lo sguardo verso scenari distanti dal proprio intorno più familiare ad addomesticabile.

Vero o presunto che sia questo teorema, rimane un fatto: io sono miope (astenersi da battutacce, prego…).

Il secondo indizio concerne la sfera del parlare. Così come la mia vista è pigra nel diffondersi limpida sulle lunghe distanze, allo stesso modo anche le mie modalità nel conversare sono fortemente circoscritte da una sorta di miopia oratoriale, che mi spinge per istinto a ricercare piuttosto il dialogo sulle brevi distanze con le altre persone. Mi trovo a disagio se devo colloquiare con interlocutori posizionati piuttosto lontani da me. La voce mi si sfoca come la vista, le parole escono con contorni nebulosi e finisce quasi sempre che l’altro non capisce quel che dico.

Sarebbe parecchio buffo tuttavia se si potesse ovviare a tale miopia verbale indossando piccoli megafoni da conversazione a distanza, in forma di “occhiali vocali”. Si potrebbe forse dar vita in questo modo ad una nuova professione: l’«ottico vocale». Invece di farti leggere quelle righe di letterine sempre più piccole, ti farebbe sostenere una breve conversazione sul tempo, allontanandosi nel frattempo per verificare l’accettabilità del tuo volume in base alla distanza, e tarando su misura il tuo mini-megafono personalizzato, con i necessari decibel correttivi.

Del terzo “mistero intimidente” di cui sono affetto, mi sono accorto giusto alcuni giorni fa. Ero in giro per la città, con l’idea di scattare alcune fotografie, da utilizzare a corredo di un piccolo articolo che ho scritto (questione che esula dal mio presente argomentare…).
L’intenzione era di ritrarre i luoghi e le atmosfere di un certo quartiere caratteristico della città. Mi sono messo a scattare infilate di borghi, scorci ci strade, lunghe apparecchiate di case, senza lesinare ampi abbracci grandangolari, generose spaziature. Ma di man in mano che procedevo a furia di clic, mi rendevo conto che le immagini colte risultavano anonime, insipide, compositivamente smunte.

Poi mi è venuta l’idea di ritrarre una targa stradale in marmo, posta ad angolo sul muro di una casa, ad un crocicchio di due vie. Ho compreso nell’inquadratura anche alcuni altri dettagli circostanti, la pittoresca scrostatura di un muro, un lampione aggettante sulla via, dei vecchi scuri ad una finestra chiusa chissà da quanto tempo, ed è stata la prima foto decente che mi riusciva.

Lì ho capito di essere, anche in questo caso, un miope fotografo da dettaglio. Nella lunga distanza fotografica, mi smarrisco, il gorgo dell’«horror vacui» panoramico mi trascina giù, verso i suoi abissi d’insipienza espressiva. Fra i particolari invece mi sento a casa, così come quando posso finalmente levarmi gli occhiali e lasciar spaziare lo sguardo sul familiare andirivieni delle righe di un libro, oppure conversare amabilmente faccia a faccia con una persona che mi sta ad ascoltare davvero.



2 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

ecco un'altra ragione per essere chimera: io sono ipermetrope. da vicino non vedo una mazza, ma da lontano ... aaaah che panorami! faremo un libro fotografico dal titolo "in due ne famo uno sano" con dettagli e panorami bellissimi :-)

bacini cecati
ps sono sommersa ma prima o poi risorgo

Gillipixel ha detto...

@->Farly: eehheheeheheheh :-) la chimera si compensa sempre, cara Farly :-)
Blospot dice a tal proposito: didutry...trattasi di fatto della condizione ottica della chimera: "di" è chiaramente un richiamo al prefisso che raddoppia, e "dutry" è l'antico modo vichingo di definire le diottrie :-D

E minchia, dopo questa potrei chiudere la bottega di scribacchino che una vaccata così eccelsa non la saprò mai più tirare fuori...

No te preoccupe, lo sai che sono per i tempi rilassati :-)

Bacini vichinghi :-)