Come tutti gli esseri umani, anche io provo passioni.
Ne provo tantissime e non di rado anche parecchio sconquassanti. Ma stranamente, dal di fuori, non si nota un granché di tutto ciò che mi bolle in pentola. Ancor più stranamente, ricordo che questa mia attitudine iniziò ad acuirsi soprattutto nel periodo adolescenziale. Proprio in quella fase della vita così ricolma per ciascuno di sconvolgimenti emotivi e di potenti vibrazioni interiori, in me si sviluppò una sorta di pudore nel lasciar trasparire il coinvolgimento in fervori di ogni genere, un senso della misura comportamentale oltremodo persistente quanto, probabilmente, inutile.
Avevo “deciso”, oppure lo aveva deciso per me qualche entità psichica (…o “numinosa”, che è poi un po’ la stessa cosa) di buttare tutto di dentro, lasciando quasi completamente sguarnite le palizzate del fortino della mia personalità, affacciate verso la grande prateria del mondo là fuori.
Questo atteggiamento si è portato dietro alcune conseguenze. La più vistosa sta forse nel fatto che le mie passioni non sono praticamente mai totalizzanti. Non mi voto anima e corpo alla “fede” per una passione. Rimane sempre fuori un margine di indipendenza critica, guidata da una non indifferente dose d’ironia, che mi offre nel contempo la consapevolezza di poter cercare “oltre” in ogni momento. O perlomeno, dopo aver fatto passare una discreta fase di attaccamento affettivo ad un certo aspetto della vita. In questa maniera, credo di esser riuscito, nel tempo, ad assaggiare tanti aspetti buoni di tante passioni, senza aver mai fissato stabilmente la mia dimora emotiva nel territorio di nessuna di esse.
Se non fosse espressione eccessivamente trombonesca e pretenziosa, mi piacerebbe definirlo “nomadismo passionale”.
Ho amato alla follia la pallacanestro e anche oggi il ricordo delle mille giornate trascorse con gli amici al campetto, danzando come sciamani ispirati dal ritmo dei nostri palleggi, mi commuove. Ma quando incappo in una partita di basket mentre slalomeggio fra i canali tv, raramente il mio interesse viene attirato in misura particolare. E impressioni simili si potrebbero riportare anche riguardo a tanti altri miei “appassionamenti”.
Altra conseguenza di questo mio ambivalente e bifacciale modo di vivere le passioni, è che anche dalle “non-passioni” mi possono derivare, e mi sono derivati, momenti emotivi particolarmente importanti. Come dall'automobilismo, ad esempio.
Mi riferisco in particolare, alla Formula 1, ovviamente. Della Formula 1 e delle automobili non me n'è mai potuto fregare di meno. Tuttora lo considero uno degli sport più pallosi che si possano immaginare. Il potere soporifero di quei domenicali pre-partenza post-prandiali, per me rimane sempre un portento incredibile. Non ci si capacità mai a sufficienza della bizzarria di uno sport in grado, da una parte, di impiegare le tecnologie più esasperate e di far raggiungere a degli esseri umani le velocità più elevate pensabili oggi stando attaccati alla superficie terrestre, ma nel contempo così efficace nel far venir sonno.
Eppure alla Formula 1 sono legato da tre ricordi, che pur con sfumature d'animo differenti, mi sono piuttosto cari a loro modo. Il primo riporta la mia memoria a quando ero ancora un bimbo o poco più. Mio babbo decise che tutta la famiglia quella domenica avrebbe fatto una gita a Monza, al Gran Premio. In qualche maniera, si rivelò una giornata memorabile e ricca di sorprese, un misto di stupore e mistero minaccioso, ai miei occhi infantili ancora troppo poco avvezzi a familiarizzare con certe umane follie passionali e con certi eccessi.
Tutto e tutti sembravano esser stati inghiottiti da un turbine di non senso in crescendo, quel giorno. La mattinata si era aperta nella relativa normalità. Ricordo che nel lungo girovagare per il grande parco in cerca di un posto di osservazione ottimale, rasentammo l'antica parabolica del vecchio tracciato del circuito, ormai abbandonata per la sua pericolosità. Mi parve letteralmente “un muro” e nella mia fantasia fanciullesca si fecero largo immagini di lontani bolidi “ a salsiccioto” dei tempi eroici di Nuvolari e Fangio, arditamente incollati dalla forza centrifuga a quella parete stradale ormai tutta screpolata e decrepita.
Poi, di man in mano che si avvicinava l'ora della gara, il delirio prese forma sempre più nettamente. La gente, letteralmente invasata, non si faceva scrupolo di abbandonarsi agli eccessi più smodati, pur di posizionarsi in quel posticino ritenuto più strategico da permettere la visione di un mezzo millisecondo in più di bolide sfrecciante. I giganteschi tabelloni pubblicitari, fatti di tralicci metallici e cartone, si tramutarono in graduali alveari zeppi di persone arrampicate sopra, che forando il pannello, si producevano la propria privata finestrella di visione.
Ogni albero in prossimità della pista, ma dico letteralmente ciascuno di essi, poteva vantare il suo inquilino, un novello barone rampante del fanatismo motoristico, abbarbicato fra i rami e ben deciso a non cedere la posizione ad altri, anche sfidando le impellenza dei normali ritmi fisiologici del corpo. Ve lo giuro, vidi un povero demente pisciare di sotto incurante di tutto, del pudore, del buon senso e pure delle teste dei sottostanti, che lo ricambiarono giustamente con accidenti ed invettive ben più salate della pioggia acida da essi forzatamente subita.
Gli altoparlanti ripetevano senza sosta inviti a non salire su nessun rilievo di nessun tipo, girava persino voce che un tizio si fosse fatto veramente male, cadendo di sotto. Forse si era addirittura spiaccicato senza più rimedio alcuno. Le frecce tricolore dipinsero il cielo, ma sempre per la fitta vegetazione, l'effetto più evidente della loro esibizione lo potemmo “godere” soprattutto col naso, sotto forma di denso polverone bianco-rosso-verde calato al suolo.
Poi finalmente venne dato il via ed un minimo di giustificazione ad aver sopportato fino a quel momento tutto quel gran termitaio di pazzi, lo potemmo assaporare. Non ricordo di preciso, ma mi pare che fossero in gara tra gli altri Mario Andretti, con la Lotus dalla nera livrea John Player Special, forse Niki Lauda o Jody Scheckter per le Ferrari, forse James Hunt, addirittura con la stranissima Tyrrel a 6 ruote. I ricordi si confondono molto e non sono sicuro di nessuno di questi nomi, ma quello di cui sono ancora più che certo è che non avevo mai visto delle cose andare così forte e fare così tanto rumore. Ad ogni nuova tornata del gruppone di auto, era come una sequela di urla strazianti emesse da rapidissime belve meccaniche nel riverbero di una foresta di umani regrediti a quello spirito tribale e selvaggio, fuori da qualsiasi tempo.
Non ricordo nemmeno chi vinse, ma alla fine la bandiera a scacchi fece calare il sipario su quel sabba sgangherato officiato in onore degli dei della biella e del pistone, e tutti poterono riversarsi sull'asfalto della pista, ammirando anche da vicino qualche vettura rimasta in panne, trascinata fino ai box a motore spento.
Poi ci fu solo il tempo per un paio di dettagli gentili: la frittata coi funghi che la mamma aveva portato da casa, un assoluta novità, mai assaggiata prima con quell'ingrediente dentro, sano promemoria del fatto che la nostra campagnolità ci avrebbe atteso tutta integra ed incorrotta una volta rientrati a Gillipixiland, nonchè la fugace visione della macchina di Diabolik (solo in seguito seppi trattarsi di un Jaguar E type) mescolata alle vetture del pubblico accorso, che illuminò la mia fantasia di fumettaro inveterato sin dalla più tenera età.
Questo giusto in tempo per immergersi nel ritorno a casa, che si rivelò non meno assurdo di tutto il resto della giornata, imbottigliati con la nostra ruggente Fiat 128 in una coda senza fine, mentre sotto gli occhi passavano lenti cartelli di amene località con l'immancabile desinenza in “ate”, calandoci in un mantra toponomastico che solo a pronunciarlo faceva scattare dentro l'irresistibile frenesia di mettere su una fabbrichetta o un mobilificio, specialità credenze in truciolato puro e rivestimento in formica.
Giunti a questo passo del mio confabulare, cari amici viandanti per pensieri, non posso scansare la constatazione di quanto il discorso mi si sia allungato oltre ogni aspettativa. Dunque, per non tediarvi oltremodo, vi rimando ad una prossima puntata, sempre dedicata alla mia “non-passione” per la Formula 1.
Ne provo tantissime e non di rado anche parecchio sconquassanti. Ma stranamente, dal di fuori, non si nota un granché di tutto ciò che mi bolle in pentola. Ancor più stranamente, ricordo che questa mia attitudine iniziò ad acuirsi soprattutto nel periodo adolescenziale. Proprio in quella fase della vita così ricolma per ciascuno di sconvolgimenti emotivi e di potenti vibrazioni interiori, in me si sviluppò una sorta di pudore nel lasciar trasparire il coinvolgimento in fervori di ogni genere, un senso della misura comportamentale oltremodo persistente quanto, probabilmente, inutile.
Avevo “deciso”, oppure lo aveva deciso per me qualche entità psichica (…o “numinosa”, che è poi un po’ la stessa cosa) di buttare tutto di dentro, lasciando quasi completamente sguarnite le palizzate del fortino della mia personalità, affacciate verso la grande prateria del mondo là fuori.
Questo atteggiamento si è portato dietro alcune conseguenze. La più vistosa sta forse nel fatto che le mie passioni non sono praticamente mai totalizzanti. Non mi voto anima e corpo alla “fede” per una passione. Rimane sempre fuori un margine di indipendenza critica, guidata da una non indifferente dose d’ironia, che mi offre nel contempo la consapevolezza di poter cercare “oltre” in ogni momento. O perlomeno, dopo aver fatto passare una discreta fase di attaccamento affettivo ad un certo aspetto della vita. In questa maniera, credo di esser riuscito, nel tempo, ad assaggiare tanti aspetti buoni di tante passioni, senza aver mai fissato stabilmente la mia dimora emotiva nel territorio di nessuna di esse.
Se non fosse espressione eccessivamente trombonesca e pretenziosa, mi piacerebbe definirlo “nomadismo passionale”.
Ho amato alla follia la pallacanestro e anche oggi il ricordo delle mille giornate trascorse con gli amici al campetto, danzando come sciamani ispirati dal ritmo dei nostri palleggi, mi commuove. Ma quando incappo in una partita di basket mentre slalomeggio fra i canali tv, raramente il mio interesse viene attirato in misura particolare. E impressioni simili si potrebbero riportare anche riguardo a tanti altri miei “appassionamenti”.
Altra conseguenza di questo mio ambivalente e bifacciale modo di vivere le passioni, è che anche dalle “non-passioni” mi possono derivare, e mi sono derivati, momenti emotivi particolarmente importanti. Come dall'automobilismo, ad esempio.
Mi riferisco in particolare, alla Formula 1, ovviamente. Della Formula 1 e delle automobili non me n'è mai potuto fregare di meno. Tuttora lo considero uno degli sport più pallosi che si possano immaginare. Il potere soporifero di quei domenicali pre-partenza post-prandiali, per me rimane sempre un portento incredibile. Non ci si capacità mai a sufficienza della bizzarria di uno sport in grado, da una parte, di impiegare le tecnologie più esasperate e di far raggiungere a degli esseri umani le velocità più elevate pensabili oggi stando attaccati alla superficie terrestre, ma nel contempo così efficace nel far venir sonno.
Eppure alla Formula 1 sono legato da tre ricordi, che pur con sfumature d'animo differenti, mi sono piuttosto cari a loro modo. Il primo riporta la mia memoria a quando ero ancora un bimbo o poco più. Mio babbo decise che tutta la famiglia quella domenica avrebbe fatto una gita a Monza, al Gran Premio. In qualche maniera, si rivelò una giornata memorabile e ricca di sorprese, un misto di stupore e mistero minaccioso, ai miei occhi infantili ancora troppo poco avvezzi a familiarizzare con certe umane follie passionali e con certi eccessi.
Tutto e tutti sembravano esser stati inghiottiti da un turbine di non senso in crescendo, quel giorno. La mattinata si era aperta nella relativa normalità. Ricordo che nel lungo girovagare per il grande parco in cerca di un posto di osservazione ottimale, rasentammo l'antica parabolica del vecchio tracciato del circuito, ormai abbandonata per la sua pericolosità. Mi parve letteralmente “un muro” e nella mia fantasia fanciullesca si fecero largo immagini di lontani bolidi “ a salsiccioto” dei tempi eroici di Nuvolari e Fangio, arditamente incollati dalla forza centrifuga a quella parete stradale ormai tutta screpolata e decrepita.
Poi, di man in mano che si avvicinava l'ora della gara, il delirio prese forma sempre più nettamente. La gente, letteralmente invasata, non si faceva scrupolo di abbandonarsi agli eccessi più smodati, pur di posizionarsi in quel posticino ritenuto più strategico da permettere la visione di un mezzo millisecondo in più di bolide sfrecciante. I giganteschi tabelloni pubblicitari, fatti di tralicci metallici e cartone, si tramutarono in graduali alveari zeppi di persone arrampicate sopra, che forando il pannello, si producevano la propria privata finestrella di visione.
Ogni albero in prossimità della pista, ma dico letteralmente ciascuno di essi, poteva vantare il suo inquilino, un novello barone rampante del fanatismo motoristico, abbarbicato fra i rami e ben deciso a non cedere la posizione ad altri, anche sfidando le impellenza dei normali ritmi fisiologici del corpo. Ve lo giuro, vidi un povero demente pisciare di sotto incurante di tutto, del pudore, del buon senso e pure delle teste dei sottostanti, che lo ricambiarono giustamente con accidenti ed invettive ben più salate della pioggia acida da essi forzatamente subita.
Gli altoparlanti ripetevano senza sosta inviti a non salire su nessun rilievo di nessun tipo, girava persino voce che un tizio si fosse fatto veramente male, cadendo di sotto. Forse si era addirittura spiaccicato senza più rimedio alcuno. Le frecce tricolore dipinsero il cielo, ma sempre per la fitta vegetazione, l'effetto più evidente della loro esibizione lo potemmo “godere” soprattutto col naso, sotto forma di denso polverone bianco-rosso-verde calato al suolo.
Poi finalmente venne dato il via ed un minimo di giustificazione ad aver sopportato fino a quel momento tutto quel gran termitaio di pazzi, lo potemmo assaporare. Non ricordo di preciso, ma mi pare che fossero in gara tra gli altri Mario Andretti, con la Lotus dalla nera livrea John Player Special, forse Niki Lauda o Jody Scheckter per le Ferrari, forse James Hunt, addirittura con la stranissima Tyrrel a 6 ruote. I ricordi si confondono molto e non sono sicuro di nessuno di questi nomi, ma quello di cui sono ancora più che certo è che non avevo mai visto delle cose andare così forte e fare così tanto rumore. Ad ogni nuova tornata del gruppone di auto, era come una sequela di urla strazianti emesse da rapidissime belve meccaniche nel riverbero di una foresta di umani regrediti a quello spirito tribale e selvaggio, fuori da qualsiasi tempo.
Non ricordo nemmeno chi vinse, ma alla fine la bandiera a scacchi fece calare il sipario su quel sabba sgangherato officiato in onore degli dei della biella e del pistone, e tutti poterono riversarsi sull'asfalto della pista, ammirando anche da vicino qualche vettura rimasta in panne, trascinata fino ai box a motore spento.
Poi ci fu solo il tempo per un paio di dettagli gentili: la frittata coi funghi che la mamma aveva portato da casa, un assoluta novità, mai assaggiata prima con quell'ingrediente dentro, sano promemoria del fatto che la nostra campagnolità ci avrebbe atteso tutta integra ed incorrotta una volta rientrati a Gillipixiland, nonchè la fugace visione della macchina di Diabolik (solo in seguito seppi trattarsi di un Jaguar E type) mescolata alle vetture del pubblico accorso, che illuminò la mia fantasia di fumettaro inveterato sin dalla più tenera età.
Questo giusto in tempo per immergersi nel ritorno a casa, che si rivelò non meno assurdo di tutto il resto della giornata, imbottigliati con la nostra ruggente Fiat 128 in una coda senza fine, mentre sotto gli occhi passavano lenti cartelli di amene località con l'immancabile desinenza in “ate”, calandoci in un mantra toponomastico che solo a pronunciarlo faceva scattare dentro l'irresistibile frenesia di mettere su una fabbrichetta o un mobilificio, specialità credenze in truciolato puro e rivestimento in formica.
Giunti a questo passo del mio confabulare, cari amici viandanti per pensieri, non posso scansare la constatazione di quanto il discorso mi si sia allungato oltre ogni aspettativa. Dunque, per non tediarvi oltremodo, vi rimando ad una prossima puntata, sempre dedicata alla mia “non-passione” per la Formula 1.
4 commenti:
vedo che la primavera ci fa lo stesso effetto, fa venire a galla i ricordi più belli della nostra fanciullezza.
bacini sgommanti!
p.s.
la parola spam di oggi è: "bacin"
@->Marisa: ehehehe :-) dev'essere così, Mari...in fondo è bello lasciarsi andare ai ricordi e crogiolarsi un po' in essi...ma senza esagerare: ricorda sempre che dobbiamo occuparci principalmente della bellezza di adesso...lo so che è molto nascosta di questi tempi, ma da qualche parte c'è...c'è, fidati
Ed è una sfida molto più stimolante, cercare una materia rara :-)
Bacini e bacin :-)
ecco vivere con un piede sempre fuori dalla porta, mai star del tutto dentro alle cose... ha vantaggi e svantaggi, un vantaggio è certo il mantenera sempre un punto di vista un po' più obiettivo, una capacità di ridere di sé e di tutte le situazioni che salva l'anima ed altro dal nero universo del prendersi-sul-serio.
bellissimi ricordi i tuoi :-)
bacini mezzo-passionali
@->Farly: siccome stavolta hai fatto tu la parte propositiva della chimera, cara Farly, a me toccherà la parte destruens :-) e allora dico che gli svantaggi stanno nell'essere scambiato per una persona fredda, uno un po' abulico, distaccato...ma io so che non sono così e a modo mio sono un po' contento anch'io :-)
Bacini da formula 1 :-)
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