Credo che si possa imparare qualcosa sulla fotografia anche semplicemente guardandosi intorno. Con questo non voglio sostenere una sorta di “purezza autodidattica” da seguire a tutti i costi. Fare corsi, studiarsi manuali, imparare le potenzialità tecniche dello strumento utilizzato, seguire i consigli degli esperti, tutto ciò rimane sempre la strada maestra. E magari se mi fossi impegnato in qualcuna di queste attività pure io, ora saprei tirare fuori foto più interessanti dal “mare magnum” del “fotografabile universale” che mi circonda. Soprattutto, riuscirei a realizzarle tecnicamente meglio.
Avere un occhio fotograficamente allenato è tuttavia un’altra questione. Possedere la propensione fotografica nello sguardo, ecco come definirei questo atteggiamento. E’ questa la parte “didatticamente” meno trasmissibile nell’arte del fermare le immagini, essendo appunto anche quella meno codificabile e circoscrivibile con precisione.
Quando si inizia ad interessarsi di foto in maniera non banale, quando si riesce a subodorare in cosa diavolo consista quel meccanismo magico capace di trasformare in “bloccatore di attimi” anche il meno pretenzioso dei fotografi, allora ci si rende conto di come le foto “non scattate” siano altrettanto importanti di quelle effettivamente fermate sulla pellicola o fra i pixel. E’ infatti da quel momento in poi che si viene presi dalla deliziosa ossessione di affibbiare continuamente alla realtà un “taglio fotografico”.
Mi capita di continuo, mentre sono in giro, di osservare una scena che sarebbe stata meritevole di uno scatto. Dal momento che non si può avere sempre e perennemente a portata di mano la macchina fotografica, va a finire che le foto rimaste irrealizzate sono molto più numerose di quelle scattate per davvero. Oppure, le foto possono sfuggire anche quando si è lì con la macchina in mano, prontissimi allo scatto, ma la realtà si rivela ancora più veloce della nostra eventuale tempestività. Le foto “non fatte” non vanno tuttavia del tutto perdute. Esse possono in ogni caso rivelarsi significative, perché rappresentano continue mini-lezioni di fotografia alle quali abbiamo l’opportunità di assistere.
In fondo, a quale tipo di operazione diamo vita quando scattiamo una foto? Cos’altro facciamo, se non “mettere in sospeso” una certa porzione di realtà che è venuta assumendo in quel preciso attimo un assetto formale del tutto particolare?
Nell’attività ordinaria dell’osservare quotidiano, ci scorrono continuamente davanti allo sguardo migliaia di scene. Quand’è che succede di coglierne una meritevole di essere fermata fotograficamente?
Per cercare di spiegare come la vedo io, mi piace servirmi di una metafora. Il nostro campo visivo è come una sorta di lavagna “a caratteri mobili”, sulla cui superficie scorrono di continuo raggruppamenti di lettere. Righe, colonne, annuvolamenti, rasserenamenti, condensazioni e rarefazioni di lettere. Queste lettere sono l’insieme degli stimoli visivi che continuamente riceviamo. Nel normale scorrimento del nostro vedere, possono presentarsi con un certo ordine e anche ben armonicamente distribuite. Nell’angolo alto a destra, può far bella mostra di sé una nuvoletta di “a” ben disegnata; al centro si possono delineare delle righe di “m” e di “c” alternate, tutte in bella disposizione geometrica; e così via.
Ma è soltanto a certe condizioni che queste lettere si allineano, si organizzano, si dispongono figurativamente, finendo per dare forma a vere e proprie parole degne di essere immortalate in foto.
Non mi riferisco a “parole” intese nel vero senso del termine, ovviamente: non si dimentichi che ci troviamo pur sempre nel bel mezzo della mia sgangherata metafora. Non sto parlando insomma di vocaboli dotati di un significato codificato, di gruppi di lettere già collezionate in un dizionario. In questo caso, chiunque potrebbe diventare un grande fotografo, perché riconoscere le parole di volta in volta sarebbe un gioco da ragazzi. Facile come parlare o leggere, appunto. Si tratta invece di “parole visive” ad interpretazione aperta, ma nondimeno capaci di evocare “pregnanze significative” di rilievo, una volta assorbite dal corredo culturale ed emotivo dell’osservatore. Non c’è una scuola che possa insegnare il linguaggio di queste parole. Non c’è ricetta precisa, né prescrizioni definite una volta per tutte. Si impara a coglierle con l’esperienza visiva e sviluppando una sensibilità per la continua osservazione.
Questo è quanto per oggi, cari amici viandanti per pensieri, ma prima di chiudere, vi dico ancora un paio di piccole cose. Innanzitutto, debbo precisare che la mia metafora della “lavagna mobile” è fortemente debitrice ai concetti di “studium” (la nuvolaglia di lettere) e di “punctum” (le medesime lettere organizzate in parole), elaborati da Roland Barthes nel suo affascinante saggio sulla fotografia, intitolato «La camera chiara» (Einaudi, 1980). Se dunque volete sapere qualcosa di serio sulla fotografia, vi rimando alla lettura del medesimo.
In conclusione poi, vi devo confessare che tutto questo sproloquio ve lo sareste potuto serenamente evitare, se una delle scorse mattine non mi fosse successo di vedermi sfumare sotto gli occhi una bella foto. Guidavo nella brughiera di Gillipixiland e mi rimiravo il paesaggio che lentamente andava svelando i suoi colori alla luce incipiente dell’alba (sempre con un occhio guardingo al fosso, naturalmente…). Lo scenario era quanto di più armonico ed elegante sapessero offrire le potenzialità paesaggistiche Gillipixilandesi, ma niente di più. Strada facendo, ci si è messo anche un grazioso stradello ghiaiato, a fendere piacevolmente l’ampio respiro della distesa verde di un bel prato rigoglioso. Ma tutto rimaneva pur sempre nei confini di una abituale distribuzione di “lettere visive” sulla lavagna dello scenario che mi scorreva davanti.
Quand’ecco, tutto ad un tratto, quelle “lettere” si sono organizzate in una “parola”: la stradina bianca è stata lentamente percorsa da un vecchio “Maggiolone Wolkswagen”, proprio un modello originale, probabilmente degli anni ’70, neanche tanto ben tenuto. Dimostrava insomma con fierezza tutti i suoi gloriosi trascorsi automobilistici.
Si fosse trattato di qualsiasi altro automezzo contemporaneo, nulla sarebbe mutato nella “uniformità letterale” della lavagna. Invece, tutte le “implicazioni vintage”, l’accumulo di ricordi e il contrasto di epoche innescato dalla vetustà motoristica epifanicamente manifestata nel mezzo di quello sfondo naturale, sono state la molla sufficiente a far “parlare” quella scena. Non avevo sotto mano la macchina fotografica ed anche avendola avuta, non avrei potuto scattare, essendo impegnato nella guida. Non me ne rammarico però, perché anche questa è rimasta un’importante foto “non colta”, fra le tante.
Che poi, volete mettere la soddisfazione di non essere andato nel fosso?
E adesso, a proposito di vintage, beccatevi questa secchiata di melassa anni ’70…
Avere un occhio fotograficamente allenato è tuttavia un’altra questione. Possedere la propensione fotografica nello sguardo, ecco come definirei questo atteggiamento. E’ questa la parte “didatticamente” meno trasmissibile nell’arte del fermare le immagini, essendo appunto anche quella meno codificabile e circoscrivibile con precisione.
Quando si inizia ad interessarsi di foto in maniera non banale, quando si riesce a subodorare in cosa diavolo consista quel meccanismo magico capace di trasformare in “bloccatore di attimi” anche il meno pretenzioso dei fotografi, allora ci si rende conto di come le foto “non scattate” siano altrettanto importanti di quelle effettivamente fermate sulla pellicola o fra i pixel. E’ infatti da quel momento in poi che si viene presi dalla deliziosa ossessione di affibbiare continuamente alla realtà un “taglio fotografico”.
Mi capita di continuo, mentre sono in giro, di osservare una scena che sarebbe stata meritevole di uno scatto. Dal momento che non si può avere sempre e perennemente a portata di mano la macchina fotografica, va a finire che le foto rimaste irrealizzate sono molto più numerose di quelle scattate per davvero. Oppure, le foto possono sfuggire anche quando si è lì con la macchina in mano, prontissimi allo scatto, ma la realtà si rivela ancora più veloce della nostra eventuale tempestività. Le foto “non fatte” non vanno tuttavia del tutto perdute. Esse possono in ogni caso rivelarsi significative, perché rappresentano continue mini-lezioni di fotografia alle quali abbiamo l’opportunità di assistere.
In fondo, a quale tipo di operazione diamo vita quando scattiamo una foto? Cos’altro facciamo, se non “mettere in sospeso” una certa porzione di realtà che è venuta assumendo in quel preciso attimo un assetto formale del tutto particolare?
Nell’attività ordinaria dell’osservare quotidiano, ci scorrono continuamente davanti allo sguardo migliaia di scene. Quand’è che succede di coglierne una meritevole di essere fermata fotograficamente?
Per cercare di spiegare come la vedo io, mi piace servirmi di una metafora. Il nostro campo visivo è come una sorta di lavagna “a caratteri mobili”, sulla cui superficie scorrono di continuo raggruppamenti di lettere. Righe, colonne, annuvolamenti, rasserenamenti, condensazioni e rarefazioni di lettere. Queste lettere sono l’insieme degli stimoli visivi che continuamente riceviamo. Nel normale scorrimento del nostro vedere, possono presentarsi con un certo ordine e anche ben armonicamente distribuite. Nell’angolo alto a destra, può far bella mostra di sé una nuvoletta di “a” ben disegnata; al centro si possono delineare delle righe di “m” e di “c” alternate, tutte in bella disposizione geometrica; e così via.
Ma è soltanto a certe condizioni che queste lettere si allineano, si organizzano, si dispongono figurativamente, finendo per dare forma a vere e proprie parole degne di essere immortalate in foto.
Non mi riferisco a “parole” intese nel vero senso del termine, ovviamente: non si dimentichi che ci troviamo pur sempre nel bel mezzo della mia sgangherata metafora. Non sto parlando insomma di vocaboli dotati di un significato codificato, di gruppi di lettere già collezionate in un dizionario. In questo caso, chiunque potrebbe diventare un grande fotografo, perché riconoscere le parole di volta in volta sarebbe un gioco da ragazzi. Facile come parlare o leggere, appunto. Si tratta invece di “parole visive” ad interpretazione aperta, ma nondimeno capaci di evocare “pregnanze significative” di rilievo, una volta assorbite dal corredo culturale ed emotivo dell’osservatore. Non c’è una scuola che possa insegnare il linguaggio di queste parole. Non c’è ricetta precisa, né prescrizioni definite una volta per tutte. Si impara a coglierle con l’esperienza visiva e sviluppando una sensibilità per la continua osservazione.
Questo è quanto per oggi, cari amici viandanti per pensieri, ma prima di chiudere, vi dico ancora un paio di piccole cose. Innanzitutto, debbo precisare che la mia metafora della “lavagna mobile” è fortemente debitrice ai concetti di “studium” (la nuvolaglia di lettere) e di “punctum” (le medesime lettere organizzate in parole), elaborati da Roland Barthes nel suo affascinante saggio sulla fotografia, intitolato «La camera chiara» (Einaudi, 1980). Se dunque volete sapere qualcosa di serio sulla fotografia, vi rimando alla lettura del medesimo.
In conclusione poi, vi devo confessare che tutto questo sproloquio ve lo sareste potuto serenamente evitare, se una delle scorse mattine non mi fosse successo di vedermi sfumare sotto gli occhi una bella foto. Guidavo nella brughiera di Gillipixiland e mi rimiravo il paesaggio che lentamente andava svelando i suoi colori alla luce incipiente dell’alba (sempre con un occhio guardingo al fosso, naturalmente…). Lo scenario era quanto di più armonico ed elegante sapessero offrire le potenzialità paesaggistiche Gillipixilandesi, ma niente di più. Strada facendo, ci si è messo anche un grazioso stradello ghiaiato, a fendere piacevolmente l’ampio respiro della distesa verde di un bel prato rigoglioso. Ma tutto rimaneva pur sempre nei confini di una abituale distribuzione di “lettere visive” sulla lavagna dello scenario che mi scorreva davanti.
Quand’ecco, tutto ad un tratto, quelle “lettere” si sono organizzate in una “parola”: la stradina bianca è stata lentamente percorsa da un vecchio “Maggiolone Wolkswagen”, proprio un modello originale, probabilmente degli anni ’70, neanche tanto ben tenuto. Dimostrava insomma con fierezza tutti i suoi gloriosi trascorsi automobilistici.
Si fosse trattato di qualsiasi altro automezzo contemporaneo, nulla sarebbe mutato nella “uniformità letterale” della lavagna. Invece, tutte le “implicazioni vintage”, l’accumulo di ricordi e il contrasto di epoche innescato dalla vetustà motoristica epifanicamente manifestata nel mezzo di quello sfondo naturale, sono state la molla sufficiente a far “parlare” quella scena. Non avevo sotto mano la macchina fotografica ed anche avendola avuta, non avrei potuto scattare, essendo impegnato nella guida. Non me ne rammarico però, perché anche questa è rimasta un’importante foto “non colta”, fra le tante.
Che poi, volete mettere la soddisfazione di non essere andato nel fosso?
*******
E adesso, a proposito di vintage, beccatevi questa secchiata di melassa anni ’70…
4 commenti:
la secchiata di melassa anni 70 mi ha provocato 3 carie e un mal di pancia nottuno...
sulle foto: certe volte sto lì con la macchina fotografica in mano, mi arriva un'immagine, meravigliosa e penso "questa è troppo bella, la voglio solo ricordare" e non scatto.
bacini con flash
@->Farly: quello di non scattare, cara Farly, a volte può essere un atto di "eroismo fotografico" :-) oppure un modo alternativo di intendere la fotografia, valutandola più per i "vuoti" che per i "pieni"...oppure è semplicemente un gesto che ci sentiamo di fare senza darci troppe spiegazioni, quando siamo già belli saturi di essere :-)
A volte la frensia dello scatto può dare un po' di dipendenza...il tuo modo è un ottima soluzione per venirne fuori :-) una bella foto lasciata nell'empireo delle foto non scattate non è la fine del mondo :-)
Bacini grandangolari :-)
Spesso è davvero meglio rivedere le foto non fatte con gli occhi della memoria. Così, tanto per sentire con più sensi, e non solo uno.
Alcuni paesaggi di montagna all'alba, città lontane o momenti ormai irraggiungibili, sedimentati comunque grazie all'emozione che mi hanno fatto provare e quindi migliorati, ampliati, colorati...
Forse, ma forse ma sì.
:))))))
@->Vale: mi fa piacere ritrovare anche te nel partito della foto mancata, Vale :-) in fondo, è un tratto che deve far parte anche del corredo filosofico del pigro :-)
Niente ansia di catturare il più possibile, solo serenità e calma nel prendere il meglio che viene :-) e quello che non si è potuto, è stato comunque bello :-)
Anche questo particolare che hai aggiunto è molto interessante: nelle foto mancate ci possiamo mettere tutti i sensi e figurarcele così anche meglio di come sarebbero venute :-) le possiamo rivedere in 3d, 4d, 5d :-)
Bacini in 10d :-)
Posta un commento