Sapete cosa sono le “capacità attentive”?
A dire il vero, non è che lo sappia tanto bene nemmeno io. E magari farei meglio ad evitare di venirmi a bullare qui fra di voi, atteggiandomi a gran saccente. Ma si dà il caso che sentii parlare di questa nozione parecchio tempo fa ed essa da quella volta è sempre rimasta fra i miei beniamini concettuali. Più precisamente, fu un libro di psicologia che me la fece scoprire.
Della psicologia, mi ha sempre lasciato “Holdenianamente” di stucco (in un senso giovanile alla Holden Caulfield…) quel suo saper svelare faccende che per gran parte sapevi già, pur quasi non sapendo di averle sapute fino a quel momento. Il meccanismo è naturale, perché ovviamente le tematiche dei suoi studi sono sempre aspetti familiari del vivere, comuni a ciascun umano. Ma soltanto quando la psicologia scosta quel “velo” che li confonde e li camuffa nella nostra consapevolezza, ci si rende conto di non averli mai messi a fuoco così nitidamente prima di quell’attimo.
Ecco, per fare un esempio pecoreccio, buttandosi proprio in un parallelismo metaforico degno del mio immaginario “rozzesco”, potremmo dire che la psicologia sa rivelare verità apodittiche paragonabili all’evidenza preclara della seguente affermazione: “…le tette sono una delle grandi meraviglie della natura…”. Che è una cosa che tutti sanno, pur non rendendosene conto fino in fondo in questi termini precisi.
Ma bandendo le ciance, veniamo dunque alle “capacità attentive”.
Il concetto, detto un po’ in sintesi gillipexevole bestialis, si può sunteggiare nel seguente modo: la facoltà umana di prestare attenzione agli stimoli esterni, filtrandoli attraverso i sensi, è in qualche modo quantificabile e limitata. In particolare, esiste un tetto di stimolazioni che la nostra percezione è in grado di filtrare, oltre il quale molto del materiale sensoriale che ci investe, se ne va perduto. In pratica la nostra attenzione la possiamo vedere come una sorta di imbuto: dall’imboccatura ci può passare solo un certo quantitativo di stimoli, mentre il resto deborda inevitabilmente fuori, senza centrare il bersaglio, ossia senza andare ad imbibire il nostro cervello e la nostra consapevolezza.
L’esperimento che ricordo abbinato all’indagine di questa proprietà percettiva, era eseguito con dei giocatori professionisti di pallavolo. A questi veniva affidato il compito di ricevere il pallone battuto da un collega. Il giocatore in ricezione era chiamato inoltre a far fronte a diversi stimoli “attentivi distraenti”: doveva ad esempio sentire delle frasi da una cuffietta posta sulle orecchie, col compito di memorizzarne il più possibile, o era sottoposto ad altre simili modalità di impegno per la sua attenzione. Alla fine, gli sperimentatori, basandosi sulla percentuale di errore espressa dal giocatore nel ricevere la palla, potevano stilare dei veri e propri campionari di “misure distraenti”, stabilendo anche la maggiore o minore efficacia di un certo tipo di battuta.
Ecco, come quasi sempre capita ad ogni caro amico viandante per pensieri che s’imbatta nella lettura dei miei scribacchiamenti, a questo punto immagino che la considerazione sarà salita spontaneamente alle labbra di ciascuno: «…Sì, va beh, ma tutto questo che minchia mi rappresenta?...».
Il fatto è che tutta la questione delle “capacità attentive” mi è balenata alla mente una di queste sere, mentre scribacchiavo e canticchiavo, con la radio accesa in sottofondo. Ho allora riconsiderato per l’ennesima volta un fenomeno a me già ben stranoto: cercare di inseguire un motivetto, mentre un’altra musica ci depista sotto sotto, è una piccola ardua impresa. Si fatica parecchio e per ben che vada, dalla nostra capacità di riproduzione melodica (sia fischiettando, sia a voce), esce fuori un ibrido “stonaticcio” ed informe.
Questo mi ha fatto pensare che una tipologia di “distrazione attentiva” molto simile si verifica anche con i numeri: vi sarà capitato di contare o di eseguire anche piccoli calcoli, mentre in sottofondo vengono pronunciati altri numeri e cifre “distraenti” da altre persone. Il disagio esecutivo e l’impedimento operativo sono in tutto e per tutto “totalizzanti”, così come accade nel caso della musica.
Non è solamente questione di affinità del “materiale significante” che va ad interferire. Anche con le parole, per dire, succede qualcosa di simile. Ma con la parola, le nostre facoltà attentive hanno qualche via di scampo in più. Ad esempio, mentre si sta leggendo o scrivendo, c’è la possibilità di isolarsi in qualche modo dal depistaggio di altre persone che parlano. Chi ha l’abitudine di leggere in treno, lo può constatare agevolmente quando gli pare.
Coi numeri e con la musica invece no. Le scappatoie sono pochissime, se non nulle. Questo rappresenta forse una bislacca conferma, da me or ora confezionata, a quanto vanno dicendo da secoli pensatori ben più esimi del sottoscritto gillipixante. Per ricordarne solo uno, basta citare Pitagora (e scusate se è poco…), che aveva già colto ai suoi tempi la strettissima affinità fra i ritmi matematici e quelli musicali.
La musica e i numeri sono dunque non soltanto strettamente apparentati, ma hanno in comune anche questa loro proprietà di saper entrare in risonanza in misura molto profonda. Sono come “mattoncini di significato” che si attraggono irresistibilmente per andarsi ad incementare nel loro muro armonico di turno.
Concludo sottolineando che tutte queste considerazione le devo al digitale terrestre. A cosa è servita infatti l’introduzione di questa nuova forma di trasmissione del segnale televisivo? Ci ha portato tanti nuovi indispensabili canali di vendita di tappeti e prodotti dimagranti. Quelle due o tre reti che poi m’interesserebbero davvero, s’interrompono sempre a metà serata in un tripudio di quadratoni e scoppiettii che preannunciano il regolare oscuramento definitivo. Allora devio il telecomando sulle stazioni radiofoniche, ed è lì che comprendo l’importante ruolo del digitale: fare riscoprire il piacere di sentire la radio.
E’ stato giusto ascoltando la radio disponibile sui canali digitali della tv, che le riflessioni su numeri e musica mi hanno colto. La radio: anch’essa portatrice, per riprendere un tema di alcuni articoletti fa, di un fondamentale archetipo senza tempo, qual è l’atto del lasciarsi trasportare con l’immaginazione dal suono di una voce narrante o “melodiante”.
A dire il vero, non è che lo sappia tanto bene nemmeno io. E magari farei meglio ad evitare di venirmi a bullare qui fra di voi, atteggiandomi a gran saccente. Ma si dà il caso che sentii parlare di questa nozione parecchio tempo fa ed essa da quella volta è sempre rimasta fra i miei beniamini concettuali. Più precisamente, fu un libro di psicologia che me la fece scoprire.
Della psicologia, mi ha sempre lasciato “Holdenianamente” di stucco (in un senso giovanile alla Holden Caulfield…) quel suo saper svelare faccende che per gran parte sapevi già, pur quasi non sapendo di averle sapute fino a quel momento. Il meccanismo è naturale, perché ovviamente le tematiche dei suoi studi sono sempre aspetti familiari del vivere, comuni a ciascun umano. Ma soltanto quando la psicologia scosta quel “velo” che li confonde e li camuffa nella nostra consapevolezza, ci si rende conto di non averli mai messi a fuoco così nitidamente prima di quell’attimo.
Ecco, per fare un esempio pecoreccio, buttandosi proprio in un parallelismo metaforico degno del mio immaginario “rozzesco”, potremmo dire che la psicologia sa rivelare verità apodittiche paragonabili all’evidenza preclara della seguente affermazione: “…le tette sono una delle grandi meraviglie della natura…”. Che è una cosa che tutti sanno, pur non rendendosene conto fino in fondo in questi termini precisi.
Ma bandendo le ciance, veniamo dunque alle “capacità attentive”.
Il concetto, detto un po’ in sintesi gillipexevole bestialis, si può sunteggiare nel seguente modo: la facoltà umana di prestare attenzione agli stimoli esterni, filtrandoli attraverso i sensi, è in qualche modo quantificabile e limitata. In particolare, esiste un tetto di stimolazioni che la nostra percezione è in grado di filtrare, oltre il quale molto del materiale sensoriale che ci investe, se ne va perduto. In pratica la nostra attenzione la possiamo vedere come una sorta di imbuto: dall’imboccatura ci può passare solo un certo quantitativo di stimoli, mentre il resto deborda inevitabilmente fuori, senza centrare il bersaglio, ossia senza andare ad imbibire il nostro cervello e la nostra consapevolezza.
L’esperimento che ricordo abbinato all’indagine di questa proprietà percettiva, era eseguito con dei giocatori professionisti di pallavolo. A questi veniva affidato il compito di ricevere il pallone battuto da un collega. Il giocatore in ricezione era chiamato inoltre a far fronte a diversi stimoli “attentivi distraenti”: doveva ad esempio sentire delle frasi da una cuffietta posta sulle orecchie, col compito di memorizzarne il più possibile, o era sottoposto ad altre simili modalità di impegno per la sua attenzione. Alla fine, gli sperimentatori, basandosi sulla percentuale di errore espressa dal giocatore nel ricevere la palla, potevano stilare dei veri e propri campionari di “misure distraenti”, stabilendo anche la maggiore o minore efficacia di un certo tipo di battuta.
Ecco, come quasi sempre capita ad ogni caro amico viandante per pensieri che s’imbatta nella lettura dei miei scribacchiamenti, a questo punto immagino che la considerazione sarà salita spontaneamente alle labbra di ciascuno: «…Sì, va beh, ma tutto questo che minchia mi rappresenta?...».
Il fatto è che tutta la questione delle “capacità attentive” mi è balenata alla mente una di queste sere, mentre scribacchiavo e canticchiavo, con la radio accesa in sottofondo. Ho allora riconsiderato per l’ennesima volta un fenomeno a me già ben stranoto: cercare di inseguire un motivetto, mentre un’altra musica ci depista sotto sotto, è una piccola ardua impresa. Si fatica parecchio e per ben che vada, dalla nostra capacità di riproduzione melodica (sia fischiettando, sia a voce), esce fuori un ibrido “stonaticcio” ed informe.
Questo mi ha fatto pensare che una tipologia di “distrazione attentiva” molto simile si verifica anche con i numeri: vi sarà capitato di contare o di eseguire anche piccoli calcoli, mentre in sottofondo vengono pronunciati altri numeri e cifre “distraenti” da altre persone. Il disagio esecutivo e l’impedimento operativo sono in tutto e per tutto “totalizzanti”, così come accade nel caso della musica.
Non è solamente questione di affinità del “materiale significante” che va ad interferire. Anche con le parole, per dire, succede qualcosa di simile. Ma con la parola, le nostre facoltà attentive hanno qualche via di scampo in più. Ad esempio, mentre si sta leggendo o scrivendo, c’è la possibilità di isolarsi in qualche modo dal depistaggio di altre persone che parlano. Chi ha l’abitudine di leggere in treno, lo può constatare agevolmente quando gli pare.
Coi numeri e con la musica invece no. Le scappatoie sono pochissime, se non nulle. Questo rappresenta forse una bislacca conferma, da me or ora confezionata, a quanto vanno dicendo da secoli pensatori ben più esimi del sottoscritto gillipixante. Per ricordarne solo uno, basta citare Pitagora (e scusate se è poco…), che aveva già colto ai suoi tempi la strettissima affinità fra i ritmi matematici e quelli musicali.
La musica e i numeri sono dunque non soltanto strettamente apparentati, ma hanno in comune anche questa loro proprietà di saper entrare in risonanza in misura molto profonda. Sono come “mattoncini di significato” che si attraggono irresistibilmente per andarsi ad incementare nel loro muro armonico di turno.
Concludo sottolineando che tutte queste considerazione le devo al digitale terrestre. A cosa è servita infatti l’introduzione di questa nuova forma di trasmissione del segnale televisivo? Ci ha portato tanti nuovi indispensabili canali di vendita di tappeti e prodotti dimagranti. Quelle due o tre reti che poi m’interesserebbero davvero, s’interrompono sempre a metà serata in un tripudio di quadratoni e scoppiettii che preannunciano il regolare oscuramento definitivo. Allora devio il telecomando sulle stazioni radiofoniche, ed è lì che comprendo l’importante ruolo del digitale: fare riscoprire il piacere di sentire la radio.
E’ stato giusto ascoltando la radio disponibile sui canali digitali della tv, che le riflessioni su numeri e musica mi hanno colto. La radio: anch’essa portatrice, per riprendere un tema di alcuni articoletti fa, di un fondamentale archetipo senza tempo, qual è l’atto del lasciarsi trasportare con l’immaginazione dal suono di una voce narrante o “melodiante”.
4 commenti:
E' vero che c'è un numero limitato di stimoli recepibili dal nostro cervello ma è anche vero che ci sono differenze di percezione da individuo ad individuo, ad esempio.
Tu gia fai riferimento alla musica ma parli di relazione tra essa e i numeri matematici, invece io ti vorrei far notare quanta capacità di assorbire più stimoli a cui dare attenzione è maggiore nei musicisti rispetto ad altri individui.
Immagina un pianista cantante che impiega la mano sinistra in un esercizio, la mano destra in un altro, la vista nel coordinare il ritmo e le dinamiche di quegli esercizi, l'udito che lavora sull'intonazione, la voce che deve emettere suoni con parole e ritmi diversi rispetto a quello delle singole mani ed infine i piedi che devono gestire i due pedali per le varie sonorità.
Straordinario, non trovi?
@->Marisa: bellissima chiosa al mio articoletto, Mari :-) questo aspetto non l'avevo considerato, mentre scrivevo...è straordinario sì, concordo in pieno...mi hanno sempre impresionato parecchio anche i batteristi cantanti nel contempo, anche quello deve essere terribilmente difficile...sono sicuramente esempi di persone che sanno suddividere le capacità di prestare attenzione in misura veramente superba...
Grazie Mari per il tuo commento puntuale e molto interessante :-)
Bacini ritmici :-)
sai che scrivi sempre meglio? e poi in questi giorni continuavo a pensare al tuo blog come ad una passeggiata aleatoria tra i pensieri. numeri poetici di parole che portano a spasso la mente (e ti ci canto un motivetto sotto se vuoi;) )
baci saltellanti a destra con probabilità=p, a sinistra con probabilità=q e in dubbio su dove andare con probabilità =r
@->Farly: a me sembra di attraversare un periodo di scrittura confusa, cara Farly, ma se la tua impressione è invece questa, ben venga :-) in fondo non sono mai stato un buon giudice di me stesso, mi fido più di te :-)
E grazie anche per aver pensato ad andar per pensieri :-) è proprio quello il suo scopo, se ne ha uno :-) vagheggiare un po' in libertà, fra concetti e suggestioni, e stare a vedere un po' cosa succede :-)
Bacini n fattoriali :-)
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