sabato 12 maggio 2012

People spotting



Quando vado a visitare un museo, una mostra, un’esposizione temporanea o permanente che sia, ho sempre modo di veder messa in rilievo la mia ignoranza.

Un po’ perché quasi sempre mi ritrovo a vagare fra le opere conoscendo poco dell’artista in questione, del suo periodo storico, del discorso in cui si inserisce la sua poetica e così via (ma se è per questo, sono in buona compagnia, dato che la stessa condizione riguarda il 97% dei visitatori museali medi attuali, stando ad una ricerca da me recentemente commissionata alla società demoscopica GillipIxtat). E nemmeno so dire bene come mai mi si sia fissata in testa questa distorta convinzione di equiparare la visita museale alla visione cinematografica, per la quale, sì, l’ignoranza rispetto alla trama è un pregio di cui armarsi preventivamente.

Ma poi soprattutto, finisco per sentirmi insipiente fra le opere, perché sono soggetto, pressoché regolarmente, ad un curioso fenomeno di “fuga dell’attenzione”.

Dopo alcuni minuti, svanita l’iniziale ondata di curiosità per il tema in esposizione, mi accorgo che l’interesse, dapprima posato prevalentemente sulle superfici dipinte o sui rilievi scultorei, si mette a vagare altrove, andando a zonzo per le sale e finendo per appiccicarsi addosso alle persone.

La fluente vivezza umana finisce sempre per prevalere sulla fissità semi-eterna delle opere. Ignoranza dunque nel senso propriamente radicale della parola: mi metto quasi ad ignorare i quadri e vengo risucchiato nel turbinio di esistenzialità diffusa per le stanze museali.

Mi sono interrogato spesso intorno a questa propensione ed ho riflettuto in particolare riguardo a come essa si possa conciliare con la mia asocialità di fondo. Gli aspetti sono molteplici. Non ultima, la constatazione paradossale che mi viene da fare, secondo la quale l’asocialità potrebbe essere anche vista come una forma preziosa di riverenza per l’«umano». O perlomeno, un certo tipo di asocialità, quella più bonaria che non contempla pensieri malvagi nei confronti del prossimo. Un asociale, secondo questo assunto, sarebbe un tizio che «patisce» così tanto la presenza dell’«altro», da non riuscire ad assorbirne se non piccole dosi per volta. E le modalità di “dosaggio umano” proprie della scorribanda museale si prefigurano esattamente nei termini giusti per soddisfare questo necessità di sorbire essenza centellinata di gente, infuso d’umanità filtrato a trama minuta.

Ma perché proprio il bagno di folla museale, e non, per esempio, quello del centro commerciale o della semplice strada urbana brulicante di bipedi pensanti? Certo, il museo non è l’unico ed esclusivo luogo in cui praticare con profitto il “people spotting”. Lo si può fare con soddisfazione anche in molti altri ambienti, ma al museo risulta essere un’esperienza particolare. Lì le persone si aggirano recando in sé una disposizione d’animo preziosa, un’apertura acuita verso la bellezza: in quei frangenti, sono veri e propri forzieri vaganti di pensieri preziosi, col coperchio sollevato nell’atto di lasciare adito al venir colmati di stupore culturale.

D’accordo, fra i tanti ci capiterà in mezzo anche la donnetta di una certa età, coinvolta suo malgrado nella gita delle pentole, che ammirando in apparenza il più sublime dei Piero della Francesca, si sta in realtà crucciando fra sé e sé per il ritorno molesto di quel fastidioso dolore ad un callo. Oppure il ragazzotto in gita scolastica, tutto mentalmente preso dai suoi progetti di darsi da fare al meglio con la compagna di classe più carina, mentre gli ineffabili giochi tonali di un Kandinsky gli impressionano invano la retina.

Scremata tuttavia questa porzione di visitatori museali dal pensiero alieno (anch’essi pur sempre altamente degni di considerazione antropo-curioso-logica), resta l’insieme degli “ammuseati” a grandi linee reputabili come ortodossi, o quasi. Non fa difetto poi al ragionamento il fatto che fra questi ortodossi o presunti tali, si ritrovino anche tizi come me, già a loro volta rapiti fra i flutti del loro cogitare misto artistico-antropologico. Il “people spotting” museale non presuppone infatti la completa estraniazione rispetto alle opere in mostra, ma al contrario, si nutre proprio della dialettica suddivisione d’interesse, equamente ripartito fra opere ed umanità contemplante. Condizioni ancor più consone a questa forma di osmosi esistenziale si possono riscontrare nelle sale di lettura delle biblioteche. Qui il confronto individuale di ciascuno col suo libro rende particolarmente prezioso il distillato di pensosità brulicante di cui l’aria viene permeata. Peccato però che in biblioteca le entità umane siano statiche, mentre nel museo hanno il vantaggio di distribuirsi dinamicamente per gli spazi, agevolando al meglio la considerazione visiva ed il variegato rapporto con l’altrui fisicità, messa a disposizione con le modalità rarefatte della pura presenza semovente e meditante.

Osservare semplicemente la gente, liberi dall’urgenza di sentirsi in qualche modo chiamati a doverci avere a che fare in misura più dettagliata e diretta (magari col dialogo vero e proprio…), è dunque pratica assai gratificante per l’asociale virtuoso.

E forse non è un caso che questa via privilegiata al divertirsi con poco, venga esaltata nell’ambiente museale. La ritualità prevista dalla visita; l’esigenza supposta di un certo grado di concentrazione e di silenzio; la presenza delle opere stesse, così cariche di indicibile malia; lo stesso aspetto “faticoso” del passare in rassegna opere d’arte, insito nel duplice compito di macinare metri e metri coi piedi e al contempo filtrare nozioni su nozioni con la mente, oppure suggestioni su suggestioni con la pancia e con la sensibilità: sono tutti fattori che rendono l’umanità museale un soggetto particolarmente degno di nota nella pratica del “people spotting”.

Queste idee mi sono sempre parse poco più che balzane gillipixate, fino a quando non vidi alla tele un bel documentario dedicato alla troppo breve vita di Keith Haring, lo sfavillante quanto sfortunato artista americano, divenuto famoso nel mondo grazie al brulichio fascinoso e all’universalismo fumettistico dei suoi omini stilizzati. Lo stesso Haring dichiarò in un’intervista qualcosa di simile alle impressioni museali che ho cercato di tratteggiare oggi. Anche nel caso delle sue visite a mostre ed esposizioni, l’interesse migrava gradualmente ed inevitabilmente dalle opere alle persone presenti nelle sale. Magari non accadeva propriamente per “asocialismo”, ma in ogni caso gli accadeva.

Il “magnetismo animale” delle vite vive e visitanti, messo a contatto con la nobilitazione ideale dei valori esistenziali celata nelle opere d’arte, dà adito ad un confronto polare fra due espressioni del reale che si nutrono a vicenda.

E’ come se quei lampi di sospensione sublimata dell’essenza vitale, colti attraverso le opere, causassero sgomento e desiderio di rifugiarsi nella rassicurazione che il flusso attivo della vita stessa, presente nei visitatori, è pur sempre capace di arrecare con il suo costante moto cronologico. Mentre nel frattempo, è come se la sgusciante presenza umana decantata nella sua turistica fuggevolezza, avesse a sua volta necessità di sentirsi poggiare su fondamenta di significati stabili, meno precari, che nelle opere si presume di rinvenire. Nella duplice sete per una forma viva e pulsante dell’«essere», e per una forma dell’«essere» fissata nei suoi sub-intuiti “valori eterni”.

E se non mi sono spiegato molto bene, non crucciatevi oltremodo, cari amici viandanti per pensieri, perché ovviamente tutto questo va preso nello spirito del più puro divertirsi con poco.




2 commenti:

Paolo Falconi ha detto...

Ciao Gill
sarà vero tutto quello che dici... non lo metto in dubbio, ma credo di avere una certa conoscenza della vita. o almeno penso...
con la storia di trovare tipe con il baule aperto... ehhh
disponibili a cianciare di arte, e magari a farsi palpare ... da chi con faccia da Bronzino, sa avvicinarsi cauto e leggiadro, quasi incurante, pur mirando due bei Boccioni e di tergo un Bosh da far impallidire... sarà la primavera del Botticelli... che ci si sento un Bramantino e allungando ... la Manet ( la mano morta) la tipa sorridendo ... pare la Gioconda:-)
A quel punto penserai mica di portarla a vedere Paolo Uccello ...
e i Macchiaioli ... ai visto mai che ce scappa almeno almeno in Segantini, ma se Lei non ti manda a Van Gogh, allora si mio caro Gill che potrai farle vedere la cappella sistina e sentirti Beato Angelico:-)))

Gillipixel ha detto...

@->Paolo: ahahahhahah :-) anche la tua versione delle visite museali è molto interessante, Paolo :-)
Quando parlavo di Keith Haring in effetti, ho tralasciato di dire un dettaglio: a lui la gente intorno interessava proprio ai fini rimorchiatòri :-)

Certo, questa è una delle opzioni assolutamente da non disdegnare: andare per la cultura, elidendo poi dalla parola il Cosmè Tura ed occupandosi solo del ... :-)

Ciao Paolo, grazie per il tuo florilegio artistico ridereccio :-)