E’ in grado un libro di irradiare una qualche forma non meglio definita di energia, anche solamente con la propria vicinanza? Naturalmente non ve lo saprei dimostrare, ma io credo di sì. Il fenomeno va sicuramente di pari passo con il grado di familiarità e di passione nutrita da ciascuno per questi cari vettori cartacei di cultura, è ovvio. Una persona che non ama i libri resterà ad essi indifferente sia che si ritrovi in mano un volume spalancato, sia esso riposto in cima ad un’ermetica e muta pila di propri simili libreschi sul comodino, o persino infilato sotto un’ascella a mo’ di termometro per rilevare la temperatura culturale corporea.
Di fatto, andando in giro per le più svariate ragioni con un libro fra le mani, nello zaino o in tasca (magari avendolo appena comprato, oppure portandomelo appresso per leggerlo negli spazi vuoti di tempo), mi sono accorto varie volte di sentirmi in una disposizione d’animo differente. In quelle occasioni, è come se le vibrazioni del contenuto di quel testo mi si trasmettessero beneficamente.
Le aspettative rispetto alla lettura, l’atteso rimescolio di pensieri, frasi, concetti messi nero su bianco, uniti a tutte le infinite rielaborazioni spontanee personali che si conta di intessere a partire dalla relativa finitezza quantitativa delle parole scritte su quelle pagine (per quanto il testo di un libro possa presentarsi tomescamente lungo, esso sarà pur sempre di una misura finita, mentre illimitate possono rivelarsi le considerazioni e i ragionamenti che da un libro possono nascere). Tutto questo sa diffondere intorno a sé la semplice ed oggettiva presenza di un libro. Il libro, anche rimanendo chiuso, funziona come una piccola pila esistenziale.
Una persona che conosco raccontava un aneddoto di gioventù. Un suo compagno di scuola, non il più solerte fra gli studiosi, anzi, decisamente allergico ai libri, perorava spesso fra gli amici un suo metodo didattico del tutto strampalato ma non privo di una venatura poetica. Quando andava a letto, era solito mettere il libro da studiare sotto al cuscino. In questo modo, sosteneva, le idee e le nozioni scritte sul libro sarebbero filtrate dalle pagine alla sua mente intanto che lui ronfava della grossa.
Ora, il miracolo ipotizzato dalla fantasia di quel lontano discolo non si verificherà esattamente nei termini da lui sperati. Ma un qualcosa di simile nondimeno avviene. Sapere che è sufficiente spalancare da un momento all’altro, in qualche punto a caso, la candida bocca delle pagine e lasciarsi trascinare dal bandolo della matassa di parole che lì dentro ci attende, trasmette talvolta un’emozione di gioia traboccante. Ci sono volte che questa irradiazione mi coglie anche a distanza, con improvvisi ed inusitati attacchi di contentezza, pensando che a casa mi aspetta la lettura di un certo libro appena iniziato.
Tutte queste idee probabilmente non ci sfiorerebbero nemmeno, se il mondo e le persone non ci deludessero così di frequente. Nel libro sappiamo di poter ritrovare un terreno franco. Il libro sa parlarci ed ascoltarci nello stesso momento, capacità, quest'ultima, preclusa anche alle persone meglio intenzionate e sensibili, per i limiti oggettivi imposti dalle dinamiche delle reali relazioni con gli altri.
Anzi: di più. Nel libro la disposizione accogliente dell'ascoltare e quelle propositive del creare, immaginare, ideare, si fondono in un tutt’uno. Un testo scritto ci parla nell'attimo medesimo in cui noi lo facciamo parlare attraverso il nostro pensiero, in una sorta di azzeramento dei normali avvicendamenti del tempo e delle ordinarie distinzioni fra ciò che siamo e ciò che è altro da noi. Questo meccanismo assomiglia molto a quanto accadde nei sogni, dove l'illusione di avere a che fare con qualcuno o qualcosa di altro da se stessi, confligge di continuo con una sotterranea indeterminazione della consapevolezza: la trama del sogno è in apparenza un fatto esterno, eppure, pur sapendo che siamo noi a crearla, ci lasciamo blandire dalla sua forza persuasiva. Nel sogno siamo “io” e “l'altro” contemporaneamente, e la volontà è in grado di uscire dagli angusti confini del “se stesso”, giungendo a determinare in qualche modo l'andamento degli eventi che nel mondo reale normalmente scorrono inafferrabili ed ingovernabili. Da questo punto di vista, leggere un libro è un po' come immergersi in un sogno.
Il libro vive di una realtà sospesa e, in quanto tale, immaginificamente eterna.
Volete dunque che tutta questa energia non abbia la forza di irradiarsi anche quando il libro è chiuso? Potrebbe forse trattenerla l'esile barriera di una copertina?
Il modo di fare cinema sembra cambiare molto più rapidamente rispetto ai propri contenuti, che non rispetto alle tecniche utilizzate. I tipi di inquadratura, i montaggi delle sequenze, l’uso della luce e aspetti simili, tendono ad apparirci ormai come appartenenti ad un repertorio consolidato, verrebbe quasi da dire ad un vocabolario noto. Mentre i significati espressi attraverso le storie narrate sembrano aggiornarsi maggiormente nel tempo, tenendosi al passo con le parallele modificazioni della cultura e della società.
Ciò che sembra, tuttavia, non è sempre così scontato. Spesso si tratta di variazioni contenutistiche ben camuffate, che sotto un apparente strato di novità, fanno ricorso a consolidati trucchetti già ben noti ai nostri nonni cineasti.
E’ il caso del buon vecchio espediente del MacGuffin, già teorizzato e più volte applicato da grandi registi del passato, come ad esempio, un nome per tutti, Alfred Hitchcock. Di questo escamotage filmico-narrativo parlai già diffusamente in altra occasione, ma ad uso di chi volesse evitare di sbarbarsi di nuovo il mio antico scrittino, riassumo per sommi capi. Il MacGuffin (italianizzato e parodiato da Walter Chiari nel celeberrimo sketch del Sarchiapone) si potrebbe definire in sostanza un “mistero vuoto”. Come ebbi a ricordare a suo tempo, uno dei più meravigliosi casi di utilizzo della tecnica del MacGuffin lo troviamo proprio nella stupenda pellicola Hitchcockiana «Intrigo internazionale», con Cary Grant, Eve Marie Saint e James Mason (più un giovane Martin Landau nei panni di un enigmaticissimo, al limite del kafkiano, luogotenente della ghenga dei cattivoni).
Pago da bere a chiunque mi sappia spiegare in cosa effettivamente consistesse l’arcano attorno al quale ruota tutta la storia del film. Si trattava di un MacGuffin, per l’appunto, ossia di un pretesto fittizio, di un “bersaglio narrativo” inconsistente, imbastito ad arte per creare suspense, attesa, curiosità, morbosità, senso d’inquietudine, di mistero. Cosa trafficavano, per cosa si arrabattavano, a quale scopo agivano così da birbaccioni, James Mason e compagnia malvagia cantante? La trama non lo rivela, perché non è importante: anche senza saperne di più, suspense e mistero scaturiscono ugualmente. Anzi, forse meglio. Ovviamente non è un accorgimento narrativo utilizzabile a cuor leggero da chiunque. Rimane il fatto che serve grande maestria registica per applicarlo.
Come si è aggiornato l’espediente del MacGuffin nelle pellicole più recenti, pur rimanendo nella sostanza il vecchio trucchetto di sempre? Registi e sceneggiatori si sono buttati sul tecnologico. Mi è venuto da constatarlo recentemente, guardando una sequenza del film «K-Pax – Da un altro mondo» (con Kevin Spacey), che mi si è minimo-comun-denominata in mente con tantissime altre scene di questo genere, viste in altri film.
La scena standard a cui mi riferisco è sintetizzabile nel modo seguente. C’è in ballo un enorme problema “scientifico / barra / tecnologico / barra / matematico” da risolvere. Passa di lì, più o meno per caso, il geniaccio di turno ed in men che non si dica, come stesse bevendo un bicchiere di Chianti, viene a capo del bandolo matematico-cervellotico della questione, facendo fare la figura dei peracottari al meglio della crema dei professori esperti in materia, i quali si erano scornati per anni contro l’invalicabile enigma. Di solito, il contorno narrativo prevede che il geniaccio sia un disadattato, messo ai margini del contesto sociale ordinario, nell’ambito del quale è reputato poco più di un coglionazzo qualunque.
Quasi di regola, è poi contemplata anche l’immersione emotiva nella fase rivelatoria della valentia mentale del protagonista. L’esplosione dell’epifania nell’empireo tecnicistica. Il momento superiore della catarsi, coincidente con l’acme dell’orgasmo da scioglimento del nodo conoscitivo. In parole povere: il geniaccio deve fare vedere quanto ne sa. Tale passaggio fondamentale avviene quando il nostro eroe si mette alla tastiera di un computer e, biascicando tre o quattro fregnacce riguardo alla legge del caos, più due spropositi sulla teoria delle stringhe, smanetta un po’ con la tastiera (normalmente l’effetto risulta più intenso se i tasti rispondono alle dita del geniaccio con sonori ticchettii), mentre d’incanto sul monitor, fino ad un attimo prima inceppato come un ferro vecchio, iniziano ad apparire fantasmagoriche e fluidissime immagini di frattali, orbite planetarie o simil-geometriche sagome, che sgorgano via con la scorrevolezza di un water “ex-gravemente occluso” ed ora felicemente disintasato.
Cosa c’entra in tutto ciò il MacGuffin? C’entra perché al 99% le teorie sostenute dal protagonista per illustrare cosa diavolo sta combinando con i tasti del pc, sono delle ciofeche siderali. Non importa che abbiano un fondamento, o una possibilità di spiegazione plausibile. Al regista interessa creare aspettativa, mistero e senso della sfida mentale.
Per il resto, per quanto gliene può sbattere allo spettatore medio (ma anche al regista stesso ed allo sceneggiatore, se è per questo), la legge del caos potrebbe avere tranquillamente a che fare con un’incauta scelta della desinenza errata dopo la radice “ca” del termine (”os” invece di doppia “z”?), mentre la teoria delle stringhe al massimo potrà rievocare una qualche stagione passata della moda, quando dai mocassini si passò a portare le sneakers.
In più, le uniche cinque o sei persone nel mondo che saprebbero dire davvero qualcosa di sensato sulla legge del caos o sulla teoria delle stringhe, quando vogliono vedere un film non si scomodano per niente di meno complicato di una pellicola di Pasolini o di Ingmar Bergman.
Nell’applicazione del MacGuffin tecnologico, d’altra parte, il regista è aiutato dalla diffusione capillare del computer in sempre più numerose case e uffici del pianeta. Gli spettatori ai quali è familiare la frustrazione di non venir a capo di qualche infernale smacchinamento informatico, sono sempre più numerosi. E sono sempre i medesimi che, una volta superato lo scoglio computeristico (autonomamente o con l’aiuto del solito amico smanettone), godono come dei facoceri tardo-barocchi.
Ecco allora che il momento in cui il geniaccio nostro beniamino riesce finalmente a sturare l’ingorgo algoritmico, tirando con smisurato senso liberatorio la catena dello sciacquone della sapienza tecnocratica, da un punto di vista estetico si trasforma quasi in un surrogato subliminale del culmine dell’eccitazione fisica immortalata nei film a luci rosse.
Alla fine dunque lo spettatore, da una parte gode, ma per altri versi fatica a reprimere fino in fondo quella vocina malignamente scafata che gli rimbomba nell'intimo. Il geniaccio di turno, dopo aver superato l'ardua prova sudando le proverbiali sette camice tecnologiche, lo sentiamo infatti un po' come l'amico cazzaro e “conta fòle” che ci aspetta fedele al bar, per prendere insieme l'aperitivo.
Viene in mente allora quella gustosa barzelletta degli anni '70, nella quale un tipo umano del genere raccontava ad un amico le incredibili sue gesta militari compiute nelle giungle di mezzo mondo, dove aveva sbaragliato col solo uso delle mani nude, orde di ribelli armati fino ai denti, belve feroci e dittatori sanguinari.
E come capitava all'amico paziente sul finale di barzelletta dopo aver ascoltato tutto il bufalesco racconto, viene una gran voglia di entrare nello schermo, andare vicino al geniaccio di turno e, sgranando due occhi così mentre si simula il più sbalordito e riverente stupore, chiedergli: «...ti posso toccare?...».
E dopo avergli assestato una gran pacca confidenziale sulla spalla, sentenziare: «...Ma vai a cagare, vàh!...».
Secondo quanto si evince dalla Genesi, l’uomo dev’esser stato creato di venerdì. O nel giorno che grosso modo dovrebbe corrispondere all’«occidentale» venerdì. La voce narrante biblica parla di sesto giorno, mentre mezzo paragrafo più avanti, racconta che appena 24 ore dopo Dio si riposò.
Nella tradizione ebraica, l’inizio settimana s’inaugura in domenica, seppur non denominata in questo modo, ovviamente. Da lì, i giorni sono semplicemente numerati (il giorno uno corrisponde appunto, come posizione, alla domenica cristiana; il due, al lunedì; il tre, al martedì; ecc.), sino al settimo, che prende il nome di sabato, in occasione del quale, com’è noto, cade la festività settimanale ebraica. Altra constatazione curiosa che si desume (sempre sorvolando un po’ di fantasia sui distinguo culturali fra tradizione ebraica e cristiana), è che Dio si mise al lavoro di domenica.
Considerare le iniziali vicende della Genesi come mitologiche, non inficia affatto il discorso della fede. L’essenza propria del mito risiede nel riuscire ad addentrarsi in talune verità fondamentali, pur nella mancanza di riscontri “storico-esistenziali” evidenti. In altre parole, non è fonte di contraddizione credere nella creazione divina da una parte, e nel contempo credere che non sia effettivamente esistito un primo uomo di nome Adamo, con tutte le sue peripezie, Eva, più gli annessi e i connessi ortofrutticoli.
Non è fonte di contraddizione nemmeno credere il contrario, ossia che nessuna delle due cose sia vera. Il mito non è portatore di verità inconfutabili, ma solamente intuibili “empaticamente”. La scienza o la filosofia si propongono d’inseguire verità “di mente”; il mito si occupa delle verità “di pancia” e “di cuore”. Il mito è un cammino poetico indirizzato al disvelamento del “vero”, che si sforza di supplire all’impossibilità di pervenire a quel “vero” per altre strade meno oscure. Più che nei meandri della storia, le verità portate a galla dal mito si nascondono nelle profondità della nostra psiche (gran frase ad effetto quest’ultima, ma per arrivarci è sufficiente prendere la psicanalisi, capovolgerla, ed osservarla dalla parte dei piedi anziché dalla testa).
Il sesto giorno, con un pizzico di licenza meta-storica, corrisponde dunque al venerdì. Sarà un caso che dallo sforzo divino profuso proprio in quel giorno, sia scaturito un essere come l’uomo? Nella giornata di venerdì la gran parte di fatica settimanale è stata spesa. Si va in discesa, la mente proiettata sulla festività imminente, e un che di rilassatezza si diffonde nello spirito.
“Rilassato”: aggettivo evocante piacevolezze, ma anche predisposizione umana ambivalente, a doppio taglio. Essendo stato inventato di venerdì, l’uomo è per indole un rilassato potenzialmente incauto. Se non sta sempre più che attento in tutte le proprie manifestazioni vitali, gli basta un attimo per fare valutazioni di misura errate, andare col piede troppo lungo, o troppo corto, e ritrovarsi col deretano al suolo. Infatti, Dio non fece in tempo a creare Adamo ed Eva che di lì a poco questi ultimi gliene avrebbe combinate più di Bertoldo in Francia.
L’alterigia subdolamente celata fra le pieghe della rilassatezza umana ha poi avuto modo di dispiegarsi in mille fogge nel corso di tutte le epoche a seguire. Per rimanere nel campo dei grandi eventi, mi viene in mente ad esempio l’ultima parte della campagna napoleonica in Russia, vista dalla parte di Napoleone naturalmente. Ma ciascuno potrà fare riferimento anche a certi minimi dettagli del proprio vissuto, per constatare come il rischio della rilassatezza “curtimirante” sia sempre in agguato in tutto il panorama del nostro agire.
La Bibbia è anche uno stupendo libro di storie e inizia praticamente subito con un colpo di scena narrativo stupendo: la separazione della luce dalla tenebra, che in sostanza corrisponde all’invenzione del tempo. A rigore, in ordine di apparizione sono venuti per primi la terra ed il cielo, ossia lo spazio. Ma fino a metà della prima giornata (anche se si è saputo dopo, che fosse “metà della giornata”...) terra e cielo erano statici. Nella narrazione della Genesi, lo spazio puro è allora esistito giusto l’arco di una mattinata. Poi, verso mezzogiorno o giù di lì, si è andato a fondere in indissolubile connubio einsteineino con il tempo. Lo spazio puro, privo di tempo, non lo possiamo concepire, perché la nostra mente è kantianamente sagomata per percepire la realtà sotto un profilo spazio-temporale. Ma l’uomo, in quel breve scorcio di mattinata proto-domenicale momentaneamente priva di tempo, non era ancora giunto in quei paraggi. Nessuna creatura era ancora pronta per percepire e concepire un bel nulla. Solo l’immensità della mente di Dio poteva quindi confrontarsi col vertiginoso concetto dello spazio ancora ignaro del tempo.
Tutte queste suggestioni sono contenute nell’incipit della Bibbia, che è qualcosa di fenomenale:
«...In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era informe e deserta: le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque. Dio allora ordinò: “Vi sia la luce”. E vi fu la luce. E Dio vide che quella luce era buona. E separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò la luce giorno e chiamò le tenebre notte. E venne sera, poi venne mattina: questo fu il primo giorno...».
Elie Wiesel, scrittore e premio nobel per la pace 1986, una volta disse che «...Dio ha creato l’uomo perché ama le storie...». L’irrequietezza e la curiosità di Dio in questo senso dovettero manifestarsi già sin dai primi attimi della creazione. Immaginare il suo spirito che, dopo aver aleggiato sulla superficie delle acque, d’un tratto si erge ordinando “Vi sia la luce”, suona di una potenza incredibile. Con razionalistica pedanteria, viene da chiedersi: a chi lo ordinò, se ancora non c’era nessuno in giro? Ma alla realtà stessa! L’uomo, che sarebbe stato l’attore protagonista di tutte le storie a seguire, arrivò soltanto cinque giorni dopo, ma nel frattempo Dio si premurò di allestire per lui un contorno degno della migliore sceneggiatura mai scritta.
Atro passo particolarmente meraviglioso: «...E separò la luce dalle tenebre...». Gesto che è stato compiuto in termini concreti e si è potuto raccontare come reale, una ed una sola volta nel corso di tutta la storia dell’universo. In seguito, ad un simile atto sono state riservate soltanto accezioni metaforiche, come ad esempio nel caso dell’espressione: «...e separò la luce dalle tenebre, invitando gli spettatori del Grande Fratello a spegnere la tele e prendere in mano un buon libro...».
L’incipit della Bibbia mette in rilievo anche l’importanza che ebbe fin da subito l’atto del “nominare”, del siglare le cose con un nome, e quindi, per estensione, del linguaggio. L’attività “nominante” del creatore viene esplicitata soltanto dopo poche righe: «...E Dio chiamò la luce giorno e chiamò le tenebre notte...». E’ lecito tuttavia supporre che lo stesso avvenne con le prime due fondamentali entità create, il cielo e la terra. Anzi, forse è lecito supporre di più: che Dio nominava le cose nel mentre che le creava. «...In principio Dio creò il cielo e la terra...»: il cielo e la terra hanno nome nell’attimo stesso del loro venir creati.
L’osservazione dà adito a tutta una serie di altre suggestioni sorprendenti. Se l’uomo si è sentito in animo d’inserirla in uno dei sui miti più potenti ed universali, l’idea che nel linguaggio risieda un che di “divino” dev’essere veramente qualcosa di percepito molto intensamente nel proprio intimo fin dai lontani primordi. Questo forse “spiega” come mai la “parola” continui a rappresentare una delle dimensioni umane più portentose, tanto da innestarsi con tutto il carico del suo nobile primitivismo, persino nelle più moderne espressioni sociali fondate su strumenti messi a disposizione dall’avanguardia estrema della tecnologia. Cosa altro sono infatti Twitter, Facebook, i blog, se non immense fucine di parole?
Una cosa simile dicasi riguardo a certe considerazioni che ci fanno apparire speciale l’attività di chi in qualche maniera ha a che fare con il mondo delle parole. Perché il leggere, il parlare e lo scrivere, nonostante si tratti di due vecchissimi capitoli dell’agire umano impolverati all’inverosimile dalla patina dei millenni, continuano pur tuttavia a suscitare un fascino ed un senso di “stupore sempre nuovo”, come fossero stati inventati l’altro ieri?
Perché il leggere, il parlare e lo scrivere, oltre a contenere ancora quella remotissima scintilla di divinità, rappresentano anche uno degli atti più vicini al senso del creare, del dar vita a qualcosa di bello. Nell’atto del creare è insita una sete di identificazione con l’altro da sé, che ritrova nello scrivere, nel parlare e nel leggere, alcune delle proprie dimensioni più dissetanti. Se ne deve dedurre dunque che Dio creò il mondo e l’uomo per provare come l’ebbrezza della solitudine sia inevitabilmente fusa al mai placato desiderio di non sentirsi soli? Chi lo sa…
Chiudo per oggi questa prima puntata dedicata alla lettura della Bibbia, citando un piccolo brano di un romanzo scritto secoli e secoli dopo, ma che entra curiosamente in risonanza con i temi accennati sopra. Sentite cosa dice la voce narrante, riguardo ad una delle protagoniste della storia:
«...A Cambridge ha studiato lettere e filosofia e chissà cos’altro con un professore che era una specie di genio pazzoide e si chiamava Wittgenstein ed era convinto che tutto sia parole. Sul serio. Non ti parte la macchina? E’ un problema di linguaggio. Sei incapace d’amare? Sono le spire del linguaggio. Hai il raffreddore? Semplice: costipazione di sedimenti linguistici...».
“La scopa del sistema” David Foster Wallace - 1987
Camminavo per una via del centro cittadino, quando sono incappato in una cartoleria un po’ vecchio stile. Sbirciando nella vetrina, ho notato un matitone straordinario. Mi ha affascinato per le sue dimensioni fumettistiche, con una mina esagerata e l’impugnabilità abnorme a mo’ di manico di badile. Ma l’incanto vero è nato osservando meglio il numerillo posto agli antipodi della punta, quello che indica la pastosità della mina. Leggendolo, non credevo ai miei occhi : 8B?!?!?!
Anche chi, come me, non ha un'esperienza da premio Nobel delle matite, sa che la lettera “B” in fatto di mine sta ad indicare il grado di morbidezza della mescola di grafite impiegata, mentre con la “H” si classificano le matite a tratto duro.
Nella mia carriera di appassionato di matite, fino ad oggi mi ero avventurato soltanto agli estremi di morbidezza di una 5B. Già questa era super malleabile, tanto che, al tracciamento di ogni riga, il segno sembrava ti si sciogliesse sotto le dita. Quasi un pezzo di carboncino. Chissà cosa dev'essere allora la 8B, mi sono detto: una specie di pongo limaccioso al posto della mina...
In realtà, provandola dopo a casa, mi sono accorto che questa 8B non è della tenerezza esagerata che mi aspettavo, anche se pur sempre molto soddisfacente al contatto col foglio e foriera di gradevoli sensazioni grafiche. Ho iniziato a tracciare alcuni segni sul primo pezzo di carta capitato sotto mano e mi sono ricordato di un antico vezzo, praticato con maggior frequenza anni fa, ossia la pratica del lasciarsi catturare dalle piccole forme che semi-inconsciamente vanno scaturendo da sotto le dita.
Dopo un po' di scarabocchi, mi sono detto: perché non far nascere da questa cosa una rubrichetta su «Andarperpensieri»? Pensiero fugace e figure immaginate si sposano molto bene, soprattutto se non si lascia troppo tempo alla ragionevolezza ed alla riflessività, di interferire intorno al senso dei segni tracciati sul foglio. Ho poi rispolverato anche dei vecchi ma ancora validi pastelli, accorgendomi che le figure risultavano più efficaci se corredate di colorazioni altrettanto spontanee e nate dalla fantasia senza interposta ragione. Le mie capacità di disegnatore sono alquanto primitive e rozze, quindi non ci si deve aspettare niente di talentuoso o di esteticamente rilevante. Sono solo “pre-pensieri” di un pensatore banale, messi iconograficamente su carta con i notevoli limiti grafici che ben rispecchiano le altrettanto circoscritte capacità riflessive a disposizione della medesima mente.
Il disegno con cui inauguro oggi la rubrichetta (che sarà denominata «Inconscio grafico»), a posteriori l'ho intitolato «Bussola del caos». Di volta in volta, commenterò i disegnetti prodotti con alcune possibili interpretazioni delle forme che ne sono derivate, oppure con una composizione simil-poetica di frasi altrettanto libere.
«Bussola del caos» non a caso si caratterizza per l'impostazione ripartita a croce. Nel quadrante in basso a sinistra, maldestramente s'impone il richiamo ad un disorientato fallimorfismo inverso. Credo che la mia mente, in questo modo, abbia voluto far cenno al diffuso e mal riposto senso di maschilismo, imperante al di sopra dell'attuale realtà. Prepotenza virile malintesa che pretende di imporsi con la propria presunta capacità razionalizzante. E' un tipo di forza che sbaglia completamente ruolo e bersaglio, rivelandosi alla fine una forma di debolezza: compete, calpesta, americanizza malamente la vita, riduce tutto alla superficie delle cose. Insegue una direzione fallace, affidandosi ad una guida cerebrale che rivela sotto sotto la propria vera essenza “non pensante” vegetale. Da questo ceppo virile, non nascono infatti nuove e rigenerate genuinità vitali, bensì soltanto sterili e claustrofobiche sagome geometriche, capaci di esprimere esclusivamente il loro mutismo esistenziale, attraverso il fumetto senza parole sbuffante da uno spigolo del cubo semi-ombreggiato.
Insomma, come inizio di rubrica, vi sembra abbastanza folle o dite che potevo fare di più?
Ogni scritto destinato ad andarsi a posare sulla pagina bianca sembra quasi nascere di sua spontanea volontà. Osserviamo e viviamo fatti, leggiamo cose, dialoghiamo con persone, proviamo sensazioni: tutto questo materiale esistenziale viene distillato dalla mente che lo raffina in materiale concettuale. Da lì prende il via una sequela di rielaborazioni interiori che per la stragrande loro quantità si svolgono ad un livello inconscio. Ecco da dove deriva lo “stupore dell’idea nuova”, spesso protagonista delle argomentazioni di chi si confronti con la sfida della scrittura. Quasi sempre, la maggior parte delle idee che ritroveremo alla fine fissate nero su bianco, ci sembra di non averle mai possedute prima del momento di prendere in mano la penna o di mettersi davanti alla tastiera. La scrittura è capace di andarle a stanare laddove sono nascoste, negli angoli della mente che non sospettiamo nemmeno di possedere. Per questo ogni scritto da noi concepito ci appare spesso come dotato di volontà indipendente.
In questa prospettiva, il mio futile scritto odierno avrebbe voluto Lina-Wertmullerianamente intitolarsi: «Peripazzie lungo l’argine, ripassando a mente vocaboli greci, mentre carrettoni di letame industrializzano l’aria con post-modernizzante odore di vacca». Parendomi però eccessivamente esteso un simile titolo, mi sono accontentato di riassumere il tutto con una frase in inglese maccheronizzato.
«Real estate», nella mia accezione anarco-linguista, non ha infatti nulla a che fare con la triste espressione commerciale alla quale in effetti corrisponde in inglese. «Real estate» qui significa «la vera estate». La vera estate, per me, ci ha fatto visita soltanto nell’ultima quindicina di giorni, tra fine settembre ed inizio ottobre. Disconosco la dignità di estate a quel forno mal travestito da incubatrice di torture che sono state le interminabili giornate di agosto. L’estate deve presentare fra i propri ingredienti la gradevolezza, la fuggevolezza gioiosa e l’impressione di tempo sospeso. Niente di tutto questo mi è sembrato di percepire mentre uno stuolo di minchiosi giornalisti continuava a fracassarceli ripetendo che stava arrivando Caronte, e poi Lucifero, e poi la vacca porca in persona.
La mia «real estate» di questo scorcio d’autunno ha portato anche due elementi non immaginati solo fino ad un paio di mesetti fa: le camminate sull’argine ed il greco antico. Sull’argine ci sono sempre andato in bici, ma ho scoperto che a piedi, inopinatamente, la bellezza raddoppia. Domenica mattina scorsa, i due piaceri si sono fusi in uno: passeggiavo sull’argine nel pieno della ritrovata originalità estiva, ripetendo mentalmente i miei primi vocaboli greci stipati nella memoria. So di apparire stonato oltremodo rispetto alle convinzioni comuni diffuse riguardo alla consistenza di cosa rappresenti un piacere nella vita e cosa no. Non mi crederete dunque, ma vi garantisco che ripetere a mente, sussurrandole appena, parole greche imparate a memoria, mentre i piedi avanzano semi-automatici nel gradevole confronto col suolo, reca nell’animo uno dei diletti più futilmente profondi che si possano immaginare.
Per non dire poi del fatto che a Gillipixiland l’odore di vacca è un valore paesaggistico ed urbanistico aggiunto. Chiunque abbia abitato in un paesino di campagna ne conosce anche la familiare atmosfera olfattiva. I più disparati effluvi di varia natura agro-zootecnica sono all’ordine del giorno. A Gillipixiland, causa l’intensificazione produttiva degli ultimi decenni, questa caratteristica odorosa si è fatta vieppiù spavalda. L’assedio stallatico sempre più serrato, del quale son fatte oggetto le ravvicinate mura paesane, provoca spesso un rappuzzamento diffuso della stessa piazza e dei borghetti centrali attigui. Si possono ammirare allora scene crudamente ironiche, magari nel bel mezzo di qualche evento mondano, che pur nel piccolo centro Gillipixilandese talvolta viene organizzato. Giunte dalla città per l’appuntamento di gala, gran signore imbellettate ed elegantissime scendono dalle loro macchinone di lusso nella deliziosa piazzetta ed ecco subito che un’ondata pungente di odore di vacca è lì pronto a beffeggiarsi insidioso di quelle sofisticate narici.
Eppure l’odor di vacca lo farei rientrare nel novero delle puzze simpatiche. Certo, giusto giusto sentito di sfuggita ogni tanto, mica da farne la colonna olfattiva di una vita. Sarà per quel suo rimandare a sensazioni di vitalità, come fattore primario e protagonista fondamentale nel ciclo dell’eterno ritorno vegetale. Prendete ad esempio un altro tipo di puzza, questa volta di origine urbana: la puzza di diesel. Questa sì che è sommamente antipatica ed odiosa, e molto triste, col suo carico venefico assai prossimo ad idee di irreversibili combustioni devastatrici. La puzza di vacca è invece allegra, rubiconda, ridanciana quasi, ma pur sempre densa di un suo carico misterico, come capita un po’ con tutte le puzze non prive di fascino.
Quello che non vi ho detto all’inizio è che, mentre ero intento nel mio ripasso dei primi rudimenti del caro idioma classico, posando un piede dietro l’altro sulla tappeto del suolo natio, parecchi carrettoni di letame, in un furioso via vai, si stavano avvicendando con cadenza forsennato proprio nei paraggi del mio erudito vagare. Da tre giorni o più andava avanti l’incessante andirivieni, per andare a spandere il prezioso nutrimento della terra, nei campi oltre la cintura arginale. Al ritmo di 3 o 4 carrettoni ogni mezz’ora, per intere giornate, fate un po’ voi il conto della mole abnorme del prodotto odorifero movimentato.
La meccanizzazione estesa di tutti i processi produttivi in agricoltura ha comportato due effetti estetici collaterali. Uno è dato appunto dall’amplificazione acuta dell’odore di vacca, per ovvie questioni d’incremento quantitativo.
L’altro consiste nella mutazione del paesaggio dovuta al diverso modo di confezionare fieno o paglia. Quando ero bambino, nei campi erano disseminate miriadi di piccole balle a parallelepipedo. Queste ispiravano l’idea di un momento di transizione tra la forza antropica direttamente applicata al lavoro ed i nuovi sistemi meccanici. La vecchia balla di fieno a cubetto bislungo, pur impacchettata grazie all’ausilio di un macchinario, era tuttavia sollevabile con forza motrice umana, coadiuvata da un antichissimo attrezzo, il forcone. Le sue fattezze limitate si proporzionavano forse meglio alle dimensioni degli altri elementi distribuiti per l’ambiente agricolo: alberi, cespugli, fossi, zolle di terra arata, piante di mais, distese di spighe di grano.
Ora ci sono i balloni cilindrici. Del tutto affidati all’energia meccanica, hanno tramutato i panorami agricoli in suggestivi sfondi da cartolina lunare. Vedere una delle nuove imballatrici in azione è un piccolo spettacolo. Lo strumento preposto, attaccato al seguito del trattore, risucchia pazientemente fieno o paglia con la minuziosità di una balena intenta a filtrare plancton attraverso i suoi fanoni. Quando il ventre metallico è sazio di cibo erboso, una sirena avverte il conducente, che arresta il trattore. Ne seguono alcuni minuti di rumorose digestioni meccaniche. Alla fine, una nuova esclamazione sonora annuncia la schiusa del portellone, dal quale, come da una enorme chioccia d’acciaio, fuoriesce l’enorme uovo vegetale, che si va ad adagiare sul suolo rasato, con felpati rimbalzi rotolanti.
Camminando, pensando, osservando, rielaborando mentalmente, ripetendo parole greche della prima declinazione, con le narici pervase dall’insistenza di un odore di vacca postmodernamente diffuso, ad un certo punto della mia passeggiata ho provato una vaga sensazione di estasi profana. Il desiderio non meglio precisato di divenire partecipe con ogni singolo atomo della mia persona al tutto che mi circondava. Una tensione all’annullamento della mia individualità come persona, deflagrata finalmente nell’infinitezza inafferrabile del cosmo.
Ovviamente sono state impressioni solo di pochi attimi e l’unico risultato ottenuto è stato ritrovarmi fra i piedi una strana tipologia di funghetti. Il gambo era molto esile e lungo, ricordava un filo di nylon, o qualcosa di vagamente attinente all’ambito elettrico La capoccia aveva le fattezze di una valvola o di uno spinotto similmente pseudo-elettrico. «...Toh...» è stata l’unica conclusione che ne ho saputo trarre, «...non solo l’odore di vacca e le balle di fieno: adesso anche i funghetti sono cambiati...».
La mia sanità mentale non è mai stata messa in discussione, anche perché, nel caso, si tratterebbe di prodursi in un’argomentazione destinata a fallire sul nascere. Non stupirà dunque il fatto che nelle ultime settimane io mi sia avvicinato lemme lemme allo studio del greco antico. Oddio, “studio” è una parola grossa. Diciamo che mi sono procurato un buon manuale da liceo classico e me lo sto leggiucchiando, però almeno con l’impegno di capirci qualcosa e di serbarne nozioni.
Consiglio vivamente questa attività nei casi di depressione: o vi dà la botta finale da non ritrovare mai più la strada di casa, oppure risulterà essere un toccasana culturale di notevole portata. A me sta facendo un po' questo secondo effetto: assaporare il puro piacere di imparare una materia-tassello e fondamento della nostra identità culturale, senza l’assillo di rendere conto a nessun professore di sorta, e sentire nel contempo la propria conoscenza che risponde gratificata, sgranchendosi le ossa concettuali, come un atleta un po’ attempato dopo una faticosa ma salubre ripresa dell’allenamento fisico.
Per quanto sta nelle mie possibilità, dunque, affronto questa nuova mini-avventura culturale con serietà e soddisfazione. Però sapete com’è. Quando c’è di mezzo un Gillipixel, il pericolo del vagabondaggio per pensieri è sempre lì dietro l’angolo. Infatti, una delle mie più assurde deragliate immaginifiche si è puntualmente concretizzata esattamente nell’affrontare i primi rudimenti di greco antico.
Dovete sapere che questa nobile e vetusta lingua assegna un ruolo molto importante agli accenti. Senza stare qui a farvela “e la rava e la fav-escamente” troppo lunga, vi racconterò solo il minimo necessario per introdurmi nel cuore del mio delirio odierno. Il punto di riferimento generale riguardo alla gestione degli accenti in greco antico è la cosiddetta regola del “trisillabismo”. Secondo questa regoletta, l’accento di tutte le parole greche non può mai risalire oltre la terzultima sillaba. Ossia: le parole greche possono essere accentate solo sull’ultima, sulla penultima, o sulla terzultima sillaba. Prima di esse, no. Inoltre i tipi di accenti più usati sono di due tipi: quello acuto, usato ad esempio nella parola italiana “perché” (diverso dall’accento “grave”, usato nella parola “è”) e quello circonflesso (graficamente reso con un simboletto simile alla tilde spagnola: “ ~ “). Risparmiandovi altri particolari grammaticali, la faccio breve: l’accento acuto può cadere di volta in volta, nei casi opportuni, su una delle tre ultime sillabe, mentre l’accento circonflesso può cadere solo su una delle ultime due.
La parola con accento acuto sull’ultima sillaba è denominata “ossitona”.
La parola con accento acuto sulla penultima sillaba è denominata “parossitona”.
La parola con accento acuto sulla terzultima sillaba è denominata “proparossitona”.
La parola con accento circonflesso sull’ultima sillaba è denominata “perispomena”.
La parola con accento circonflesso sulla penultima sillaba è denominata “properispomena”.
Ed ecco qui finalmente scattare la follia gillipixiana.
Possiamo considerare la lingua greca come la culla del sapere occidentale. Nel suo omerico impasto furono forgiati i metalli preziosi della nostra armatura culturale moderna. Sarà forse stato nell’esaltazione di stare manipolando siffatta nobile materia che, alla luce della mia insania, mi è venuto da trasfigurare la suddetta regola grammaticale, metaforizzandola in una possibile suggestione riguardante una buffa classificazione estetica dell’altra metà del cielo. Detto in parole povere: c’è una regola del trisillabismo anche per valutare la bellezza delle donne.
L’accento è fra le prime caratteristiche di una parola a saltare all’occhio. Anzi, all’orecchio. Ancor prima di conoscere il suo significato, ancor prima di sapere a quale lingua quella parola appartenga, l’accento lo notiamo comunque, nella sua qualità di suono puro. Un fenomeno simile si verifica osservando una donna nella sua interezza fisica pura. I tre accenti fondamentali della donna, così come accade nel greco antico, cadono sulle tre sillabe finali: seno, fianchi e sedere.
Apro una doverosa parentesi, per evitare equivocate parvenze irrispettose: non sto dicendo che gli uomini, delle donne, guardino solo quello. Il mio discorso va invece inquadrato nella prospettiva goliardicamente più complessa della metafora fonetica accennata sopra. Così come per una parola di cui s’ignora non solo il senso, ma la provenienza linguistica stessa, allo stesso modo, di una donna vista per la prima volta e della quale s’ignori ancora momentaneamente il “significato” (ossia la personalità, il carattere, i modi di fare), s’impongono di primo impatto gli accenti fisici più manifesti, individuabili, in un'analisi anatomo-fonetica, nella preminenza più o meno marcata di una delle tre sillabe suddette: seno, fianchi e sedere.
Ecco allora che ne derivano vari tipi estetici di donna, a seconda di dove cada su di loro l'accento.
Ci sono donne dall’accento acuto e donne dall’accento circonflesso. L’accento acuto (lo denota anche la grafia con cui viene reso) si abbina a silhouette tendenzialmente snelle.
Nel dettaglio, la signora o signorina di complessione magra con accento acuto che cada sull’ultima sillaba, ossia il sedere, potrà definirsi ossitona.
Quando l’accento acuto si deposita su un ventre levigato con particolare grazia, penultima sillaba della “parola corporale femminea”, si è in presenza di creatura muliebre parossitona.
Se l’accento acuto poggia sul seno di signora o signorina slanciata, allora trattasi di esemplare femminile proparossitono.
Le donne più formose presentano invece accento circonflesso (la sinuosità tutta curve della “pseudo-tilde” è lì a confermarlo) sull'ultima sillaba (il sedere) o sulla penultima (qui condensata in fianchi e seno). Una rubensiana donzella dal sedere rigoglioso va così classificata fra le perispomene, accentate per l'appunto sulla sillaba finale. Mentre, quando la tilde di “circonflessione” poggia su fianchi e seno, ci troviamo in presenza dell'esuberanza di una properispomena.
Per fortuna, a differenza di ciò che accade nelle regole del greco antico, con le donne si possono avere anche accentazioni multiple. Concludo allora dicendo, ma non ci sarebbe nemmeno bisogno, che le mie preferenze cadono in modo particolare sulle figure femminili perispomene, e se son pure properispomene, tanto meglio.
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Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
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